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Trilogia del terrore

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Tra i tanti ricordi più o meno intensi che mi sono rimasti di me stesso bambino ce n'è uno in particolare che credo non mi lascerà mai. Molto di quello che sto per raccontarvi è offuscato dalle nebbie del tempo ma, grazie ad internet, sono ora in grado di mettere delle pezze sui dettagli che nel frattempo si sono volatilizzati dalla mia memoria, come ad esempio quale fosse la data esatta. Era la sera del 7 dicembre 1978, come poi ho scoperto in rete, e di conseguenza il bambino di allora aveva esattamente undici anni. Il mio papà, la mia mamma e io eravamo riuniti nella mia cameretta come ogni sera, perché era in quella stanza che troneggiava il mitico tubo catodico, rigorosamente in bianco e nero, che ci teneva compagnia. Io ero sdraiato nel mio lettino, dal quale riuscivo a scorgere a malapena lo schermo e nel quale spesso finivo per addormentarmi qualunque cosa succedesse attorno a me. Mia mamma era sul divano, un occhio alla televisione e l'altro adagiato sul lavoro a maglia che portava avanti ininterrottamente da un tempo inspiegabile. Mio papà preferiva una scomodissima sedia sulla quale si contorceva in posizioni impossibili ma che, a suo dire, era mille volte più comoda del divano. Pance piene e luci spente perché quella sera, alle venti e quaranta, andava in onda sul secondo canale RAI il tanto atteso episodio della fortunatissima serie di film per la TV intitolata "Sette storie per non dormire".
Anni dopo, tornando a pensare a quella serata, l'unica cosa che mi sarebbe tornata alla mente, oltre alle sensazioni di puro terrore che, probabilmente per la prima volta in vita mia, provai, era appunto il titolo di quel ciclo di film. Addirittura, la mia mente aveva cancellato il dettaglio che si trattasse di veri e propri film: mi sembrava infatti di ricordare che si trattasse di una serie di brevi episodi della durata di un'ora, trasmessi in seconda serata. La confusione evidentemente era derivata dal fatto che in quella particolare sera fu trasmesso un film composto da tre episodi e che, fra i tre, quello che mi ricordavo io fosse l'ultimo della serie. Non ho alcun ricordo dei primi due episodi. Immagino che li guardai senza particolare interesse, magari tutto preso a pensare ai fatti miei, ma l'ultimo, mio Dio, l'ultimo fu qualcosa di agghiacciante.

Ricordavo questa bamboletta di legno dall'aspetto terrificante che aveva preso vita e che, brandendo un coltellaccio, inseguiva una ragazza nella sua casa. Ricordavo che quella bamboletta era stata definita "feticcio", termine che ancora oggi associo immediatamente a quel ricordo. C'era insomma questo feticcio che inseguiva la malcapitata ragazza da una stanza all'altra, dalla cucina alla camera da letto al bagno. Lei chiudeva le porte dietro di sé ma l'inseguitore, in un modo o nell'altro, riusciva ad avere la meglio su di esse. Lei ancora riusciva a chiudere il mostro dentro una valigia, ma il maledetto riusciva ad uscire praticando, dal suo interno, un foro circolare con la lama del coltello. Una tensione esagerata che sfido chiunque, a quell'età, a riuscire a sopportare. Chissà se i miei genitori si stavano rendendo conto della mia angoscia. Non l'ho mai capito. Fatto sta che quella notte dovetti pregarli di dormire nel lettone, desiderio che, ovviamente, e con mio grande disappunto, non fu soddisfatto. Un ricordo che mi ha accompagnato per tutta la vita sebbene, con il passare degli anni, i suoi contorni a poco a poco si siano sfumati. Come detto mi ricordavo solo del titolo della serie, "Sette storie per non dormire", e tanto mi bastò anni dopo, nell'era di internet, per ricostruire le parti mancanti.

Ed oggi eccomi finalmente qui a parlarne sul blog, nel contesto dell'iniziativa "Notte Horror" che alcuni accaniti cinefili stanno portando aventi nel tentativo di riprodurre le atmosfere delle celebri notti horror televisive di venti e più anni fa. Avrei voluto in realtà parlarne molto tempo fa e precisamente già nell'agosto del 2013, quando mi raggiunse la notizia della scomparsa di Karen Black, l'affascinante attrice che in "Trilogia del terrore" (questo il titolo di quel mitico film) offre il suo volto a ben quattro personaggi, ma poi la mia attenzione fu distolta da altre faccende e l'idea si tramutò in un nulla di fatto. Quest'anno però, complice il fatto che questo è il post di chiusura del crossover "Notte Horror", la mia scelta non poteva che ricadere su qualcosa di veramente speciale, un classico senza tempo. E quale migliore occasione per ripescare “Trilogia del terrore” di Dan Curtis (1975)?

Partiamo dal titolo che, come spiegherò più avanti, trovo abbastanza fuorviante. I termini orrore e terrore vengono spesso utilizzati come sinonimi (io stesso, per semplicità, lo faccio spesso) ma, in effetti, tecnicamente non lo sono. Come spiega in poche e semplici parole Antonello Sarno nel suo saggio “Il cinema dell’orrore”: "Nei fatti, ciascuno dei due generi comincia dove finisce l’altro, creando un’interdipendenza che sconfina con l’identificazione. Se il film horror consiste in un racconto basato prevalentemente sulla presenza di esseri mostruosi [...], la cinematografia del terrore fa invece riferimento a quei film in cui gli effetti raccapriccianti non derivano da creature in qualche maniera “fantastiche”, ma spiegabili sulla base delle nostre conoscenze razionali, come ad esempio le psicologie distorte. In sostanza, i film dell’orrore e del terrore sono due parti, o meglio due espressioni indissolubilmente connesse di quell’unicum fatto di razionalità e di fantasia, di calcolo e di pulsioni che altro non è se non il nostro cervello, misura terrena di tutte le cose, persino dei nostri terrori ed orrori quotidiani". In questo senso, essi non sarebbero altro che sottogeneri del macrogenere horror, parola inglese che racchiude in sé tutte le varie sfaccettature del perturbante.

A essere onesti, a livello contenutistico non c’è poi molto da dire in proposito: le trame, senza scadere nel banale, sono abbastanza semplici e tutte in qualche modo incentrate su figure femminili che, prima della fine, manifesteranno un lato oscuro. In un contesto del genere va da sé che gran parte del suo successo stia nell’avvalersi di una protagonista azzeccatissima (la già citata Karen Black), convincente tanto nei panni della seria professoressa del primo episodio (Julie) che in quelli delle gemelle del secondo (Thérèse e Millicent) dal contegno sociale all’estremo opposto (l’una disinibita e amorale, forse persino ninfomane, l’altra repressa e bigotta al limite del sopportabile) che, per finire, in quelli titubanti e ingenui della giovane donna del terzo episodio (Amelia) che fatica a staccarsi dall’ingombrante presenza della figura materna.
Il regista esplora e ci fa esplorare diverse varianti dell’orrore in cui i suoi personaggi sono calati, all’apparenza passando da quello di origine psicologica dei primi due episodi (causato, consapevolmente o meno, dalle stesse protagoniste) a quello soprannaturale del terzo, tanto più misterioso perché legato a un oggetto proveniente da un’altra cultura (quella degli Zuni, nativi americani appartenenti al popolo Pueblo). Ma è solo un gioco che si potrebbe ribaltare, ribaltando la stessa prospettiva dalla quale si prendono in esame i primi due racconti. Proviamoci.

Capitolo 1 - Una professoressa diventa l’oggetto delle attenzioni ossessive di un suo studente. Quando decide di concedergli un appuntamento Julie non sa che sta per finire in una spirale di orrore e paura… o sì? Molto spesso le cose non sono come sembrano, ma chi ci dice in effetti che il villain di questa storia sia un semplice essere umano? E se la sua astuzia e la sua perfidia avessero qualcosa di diabolico, o comunque di sovrannaturale? Anche se il regista non concede prove chiare né indizi, nulla ci vieta di interpretare la narrazione in tal senso e di annoverare l’episodio nel filone del fantastico. (E non è neanche detto che questo lo renda più terrificante. Da un demone o uno spirito non ci si aspetta altro che malvagità, ma l’esperienza insegna che la cattiveria umana può anche arrivare a superarla.)
Capitolo 2 - Due sorelle diverse come il giorno e la notte e fra loro un odio acuito, anche, da motivi economici (un’eredità da spartire): la collera di Millicent avrà conseguenze infauste. Thérèse si era davvero spinta ad allacciare rapporti incestuosi col padre quando era appena adolescente? Com’è possibile che gli uomini che la conoscevano, incluso il suo ultimo amante, s’innamorassero perdutamente di lei senza accorgersi della sua perversità? E Millicent invece era davvero quella povera infelice, succube della sorella e senza prospettive di una vita autonoma che voleva far credere? In effetti, le due si scopriranno legate anche più di quanto fosse possibile immaginare… Ricondurre anche questo racconto entro i limiti del fantastico sembra impresa difficile, eppure se pensiamo che il nostro nome definisce la nostra identità cosa può accadere a una persona che ha non uno, ma ben due nomi?
Capitolo 3 - Amelia è divisa fra la madre, che come ogni venerdì si aspetta che la giovane trascorra con lei la serata, e il fidanzato, che invece vorrebbe festeggiare con lei il compleanno che cade proprio quel giorno. Un inquietante feticcio Zuni, acquistato come regalo per quest’ultimo, si rivelerà il ricettacolo di un’entità maligna, un guerriero animato da una furia cieca e distruttrice. Uno spirito capace di cambiare corpo, trasformando la dolce Amelia in un essere che, per uno strano scherzo del destino, finirà per distruggere la sua vita e allo stesso tempo compensarla dei torti subiti. 

La bambola-feticcio di “Amelia” è il vero, terrificante simbolo di questo lungometraggio, quello che più di qualsiasi altra cosa restò impresso ai telespettatori italiani di quel lontano 1978 al termine di quella singolare serata (e di ciò, come sapete, posso fornirne una testimonianza diretta). A perpetuarne il ricordo contribuì, a mio parere, il confronto con i primi due episodi, debolissimi in confronto alla magnificenza del terzo. Basato su un breve racconto di Richard Matheson (Prey, 1969), l'episodio "Amelia" contiene, a detta di molti, i "dieci minuti più terrificanti della storia del cinema", al punto da essere stato più volte preso ad esempio e imitato come nel caso, assolutamente evidente, di "Demoni 2" (1986) di Lamberto Bava. Vent'anni più tardi, infine, sarà lo stesso Dan Curtis a riproporre un sequel ufficiale, realizzando "Trilogia del terrore II" (1996) nel quale, oltre ai due soliti episodi introduttivi, riappare nuovamente il feticcio Zuni, ripreso esattamente dal punto in cui terminava il cult anni Settanta. Ma questa è un'altra storia.

Accennavo all'inizio al'iniziativa blogghesca che cerca di ripescare nelle atmosfere delle celebri notti horror televisive di venti e più anni fa. L'estate è quasi finita e le "notti horror" sono ormai già alle nostre spalle ma, se ne avete voglia, siete ancora in tempo a recuperare ciò che è già stato trasmesso altrove sui blog amici. Questo post è infatti l'ultimo della serie: sono stati già pubblicati articoli su grandi cultoni horror del passato quali Il conte Dracula, The Wicker Man, Cujo, La mosca, The Devil Rides Out, Candyman, Hellraiser, Brood, la covata malefica, Buio Omega, Big Bad Wolves, Cimitero vivente, Suspiria, Nightmare, dal profondo della notte, Giovani stregheCoraline e la porta magica, Quella villa accanto al cimitero e, giusto un paio d'ore fa, Dead Snow.

Piccole letture estive

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L'estate è ormai abbondantemente alle spalle, come avrete notato. Tecnicamente la stagione si chiuderà, come da calendario, solo fra poco più di una settimana, ma le belle giornate spensierate che ci hanno accompagnato sono ormai solo un fugace ricordo. Il blog è ripartito già da qualche giorno, dopo un abbondante mese di chiusura, e ancora non ho ben oliato i suoi meccanismi. Lentamente riprovo a tornare a regime, cercando di trasformare in qualcosa di concreto tutte le idee che mi sono balenate in testa negli ultimi tempi. Non è per niente facile, visto che gli impegni inesorabili della vita lavorativa incombono e mi succhiano un sacco di energie, forse fin troppe se penso alle mie scarse doti di multitasker.
In questi giorni, proprio mentre questo post si pubblica automaticamente, la mia presenza fisica è molto lontana dalle delizie del blogging: sto trascorrendo il mio tempo a Parma, a causa di una rassegna fieristica alla quale la mia azienda partecipa. Mi ritrovo dietro un banchetto a cercare di gestire una moltitudine assurda di persone, mentre la mia testa è ovviamente altrove. Cercherò di resistere, come ho sempre fatto, cercando da un lato di portare a casa la pagnotta e, dall'altro, di gioire di quelle piccole cose che rendono le giornate interessanti anche quando, teoricamente, non lo sono affatto. La fiera in questione è piuttosto famosa, e, se siete amanti della vita all'aria aperta e delle vacanze "on the road", allora avrete sicuramente già capito di quale manifestazione si tratta. Ma non è di questo che oggi voglio parlarvi.
Come avrete già capito dal titolo di questo post, si replica oggi il consueto appuntamento annuale con il resoconto delle mie letture estive. Non si tratta, come d'altra parte è evidente, di accurate recensioni. Diciamo piuttosto che ciò che leggerete sono più che altro delle segnalazioni anche se, tecnicamente, il termine non è del tutto corretto in quanto "segnalazione" di solito si adatta meglio a titoli di recente uscita. Rispetto allo scorso anno ho dedicato molto meno tempo alla lettura, e sebbene il numero dei titoli sia più o meno equivalente alcuni di essi sono decisamente brevi, il che si riflette in un numero di pagine complessivo ai limiti dello scandaloso.

Ma bando alle ciance. Il primo titolo è "L'avvio e la perdizione" di Ornella Spagnulo. Un titolo che, ripensandoci adesso, avrei potuto utilizzare per il primo post di apertura della stagione. Ornella Spagnulo è un'amica, oltre che una collega blogger, e di conseguenza mi pareva bello concedere a lei il piccolo privilegio di inaugurare questa rassegna. Dal sito della casa editrice: "Ornella Spagnulo rende l’interiorità un elemento capace di ispirare e riflettere non solo un’identità singola, ma la condizione umana nelle sue debolezze e nelle sue aspirazioni più profonde. Gli psico-drammi amorosi e il tempo che passa senza sosta sono il tessuto sostanziale dei versi dell’autrice, che trova nella poesia “L’avvio e la perdizione”, una rinascita e affermazione di sé e un allontanamento ulteriore dal conformismo. L’effetto è avvincente. La poetessa ferma, ingigantisce e trasforma nel verso le nostre sensazioni più intangibili e sotterranee, con uno stile che coniuga passato e presente per restituire alla poesia la sua essenzialità". Chi tra voi si ricorda la mia recensione al concept-book "The Wall" e l'intervista che ne seguì non potrà fare a meno di notare diverse similitudini con questa piccola raccolta di poesie che, sebbene io non sia un gran lettore del genere, non ho potuto fare a meno di apprezzare. Sarà forse per via del fatto che avevo già avuto modo di conoscere Ornella attraverso uno dei suoi precedenti lavori, ma i versi che vengono qui proposti sono delle piccole fotografie di vita nelle quali è facile immedesimarsi, nonostante il solco tra il detto e il non detto sia inevitabilmente profondo. Se avete quindi voglia di trovare un momento che sia tutto vostro, un momento da dedicare alla ricerca interiore e che vi consenta di superare il vostro passato e di evolvervi nel vostro futuro, questo è senza dubbio il libro che fa per voi.

Rimaniamo in Italia e andiamo alla scoperta di un nuovo autore decisamente interessante, per non dire sorprendente. Parliamo di Lidia Del Gaudio e della sua opera "I colori del male" pubblicata lo scorso anno per merito della casa editrice Lettere Animate.
Milo è un ragazzino di undici anni che ha perso la madre da poco. Durante una vacanza in campagna scopre una cantina abbandonata pieni di oggetti antichi. Affascinato ne sottrae alcuni. Così cominciano i sogni, visioni angoscianti di quanto accaduto a Parigi nel 1873, nella lurida soffitta del pittore André Dubois, il quale, ispirato dal suo modello preferito Coquin Mechant, dipinge lo strazio di bambini mendicanti. La vicenda di questi quadri misteriosi attraverserà più di un secolo, incrociando molti eventi drammatici della nostra storia, provocando morte e disperazione. A Milo, maturato in fretta, toccherà scoprire che il male si serve delle debolezze umane per affermare il suo potere.
Pur nella sua brevità (poco più di un centinaio di pagine) sono molte le emozioni che si rovesciano su noi lettori, che ci vediamo catapultati quasi senza accorgercene in un universo popolato da pittori maledetti e dai loro angoscianti dipinti, oscuri messaggeri di morte e di eterna dannazione. Non è sicuramente un caso che il sottoscritto si sia lasciato trasportare, senza porre la benché minima resistenza, nella lettura de "I colori del male": da sempre i miei più angoscianti incubi provengono da libri e film dove un quadro, nella duplice veste di istantanea del lato oscuro delle cose e di passaggio tra due mondi paralleli fra loro e incompatibili, è protagonista. Mi viene in mente, così sui due piedi, "Il ritratto di Dorian Gray" oppure, se mi perdonate l'accostamento, lo sconvolgente pittore delle agonie raccontato ne "La casa dalle finestre che ridono" di Pupi Avati. Ne "I colori del male" siamo più dalle parti del secondo che del primo: un paesaggista dell'Ottocento, tale André Dubois, ha lasciato un'eredità terrificante che attende solo di essere rivelata attraverso piccoli indizi, antichi ricordi, i frammenti di un diario, gli oggetti rinvenuti in un'antica magione abbandonata. Esistono davvero quei ritratti agghiaccianti, risalenti a un misterioso "periodo parigino", che alcuni avrebbero riconosciuto qua e là in in tutta Europa nei secoli passati? E chi è, se non il sinistro pittore, colui che ancora oggi porta quel suo ripugnante progetto nel nostro mondo attraverso una sorta di comunicazione onirica?

Proseguiamo decisamente oltre per soffermarci su un'interessantissima raccolta di racconti pubblicata da Tombolini all'interno della sua collana Vaporteppa. Il volumetto (anche in questo caso si tratta di poco più di cento pagine in formato elettronico) raccoglie sette racconti di fantascienza scritti sul finire del diciannovesimo secolo da uno dei veri pionieri della narrativa fantastica: l'americano Edward Page Mitchell, un nome che probabilmente non vi dirà nulla, visto che a differenza di molti altri suoi più celebri colleghi scriveva quasi più per diletto che per un vago e improbabile desiderio di fama o di denaro. Pensandoci bene possiamo addirittura definire Mitchell come il primo autore autopubblicato della storia, avendo inserito i suoi racconti nelle pagine del quotidiano The Sun del quale, in quel periodo, era caporedattore.
Ma qual è l'eccezionalità di questi racconti? Semplicemente, Edward Page Mitchell riuscì ad immaginare situazioni e scenari che sarebbero ricomparsi, anche solo come idea, solo diversi decenni più tardi. Ne "L'uomo senza corpo" (1877) Mitchell immaginò per esempio il teletrasporto con ben 90 anni di anticipo rispetto all'esordio della serie "Star Trek", ne "La Tachipompa" (1872) egli definì un sistema per raggiungere velocità sempre maggiori utilizzando un metodo, quello della Relatività Generale, che Albert Einstein avrebbe descritto solo 30 anni più tardi. Ma non è tutto: ne "Lo spettroscopio dell'anima" (1975) viene proposto un sistema per imbottigliare la musica e renderla così disponibile al pubblico al prezzo di un dollaro a bottiglia. Un'idea che non solo anticipò di due anni l'invenzione del fonografo di Edison, ma che per certi versi è molto più simile all'idea di musica on-demand di cui godiamo oggi dopo l'avvento di internet. Potrei portarvi numerosi altri esempi ma, in questa sede, preferisco rimandarvi alla lettura della postfazione de "La Tachipompa e altre storie", disponibile integralmente sul sito Vaporteppa. A noi basta dire, per concludere questa breve presentazione, che leggere Edward Page Mitchell è un'esperienza entusiasmante. Aldilà dello stile un tantino incerto, ovviamente legato alla sua epoca, è possibile riconoscere nell'opera dell'autore americano un talento indiscutibile e una capacità di analisi senza precedenti.

Il quarto titolo in programma oggi è molto più "consumer" rispetto ai precedenti. Nel senso che si tratta di autore con un nome ben affermato e ben distribuito. Trattasi de "La variante di Lüneburg"di Paolo Maurensig, e la casa editrice è la sempre attenta Adelphi: "Un colpo di pistola chiude la vita di un ricco imprenditore tedesco. È un incidente? Un suicidio? Un omicidio? L’esecuzione di una sentenza? E per quale colpa? La risposta vera è un’altra: è una mossa di scacchi. Dietro quel gesto si spalanca un inferno che ha la forma di una scacchiera. Risalendo indietro, mossa per mossa, troveremo due maestri del gioco, opposti in tutto, e animati da un odio inesauribile, che attraversano gli anni e i cataclismi politici pensando soprattutto ad affilare le proprie armi per sopraffarsi. Che uno dei due sia ebreo e l’altro sia stato un ufficiale nazista è solo uno dei vari corollari del teorema. Un grande maestro del gioco, Kasparov, disse una volta: «Gli scacchi sono lo sport più violento che esista». Asciutto, lucido, teso, questo romanzo lo conferma con una storia che procede essa stessa come una efferata partita di scacchi – e insieme ci rivela uno scrittore."
Opera prima dello scrittore goriziano, che raggiungerà il successo planetario un paio di anni dopo con il celebre "Canone inverso", "La variante di Lüneburg" mostra già chiaramente l'abilità del suo ideatore a comporre puzzle talmente complessi che il lettore faticherà non poco, e solo attraverso il suo aiuto, a districare. Se questo fosse un libro giallo sicuramente non avrebbe nulla da invidiare ai grandi classici del genere, ho pensato. Ma questo non è un libro giallo, questo offre molti più spunti di quanti un libro giallo abbia mai offerto, pur mantenendone l'estetica e regalando quella rara emozione che ci costringe a leggere un rigo dopo l'altro per arrivare il prima possibile alla parola fine. Curiosa e intelligente è la scelta di Maurensig di alternare l'io narrante nel momento in cui quest'ultimo avrebbe rischiato di rivelare anzitempo particolari troppo importanti per il lettore. Il finale però lascia una vaga sensazione di incompiutezza, difficilmente descrivibile. Dopo aver girato l'ultima pagina mi sono sentito un po', come dire, derubato di qualcosa che mi stava appassionando.
Paolo Maurensig è ritornato sull'argomento scacchistico in tempi recenti con il suo ultimo lavoro, datato 2013, dal titolo "L'arcangelo degli scacchi: vita segreta di Paul Morphy" (Mondadori), dedicato ad uno dei più grandi talenti che il celebre gioco di strategia abbia mai avuto. 
È facile, aggiungo io, identificare nella figura di Paul Morphy anche uno dei protagonisti de "La variante di Lüneburg", il tenebroso Tabori, un campione di scacchi precipitato nell'inferno dei lager nazisti.

Chiudiamo con un saggio... anzi no, tecnicamente è più una biografia che un saggio, o forse è un po' tutte e due le cose. Avevo recuperato questo libro un paio di anni fa, per pochi soldi, a una fiera del libro usato. Tenuto malissimo e violentato da improprie sottolineature, l'ho spesso consultato senza mai averlo davvero letto dalla prima all'ultima riga. Ora che l'ho fatto molte cose mi si sono finalmente chiarite. Senza altro indugio riporto qui di seguito ciò che è indicato in quarta di copertina: Helena Petrovna Blavatsky (1831-1891), fondatrice della Società teosofica, è stata un personaggio affascinante e avventuroso come pochi altri. Di nobile famiglia russa, dotata di poteri psichici straordinari, giovanissima si spinse da sola in regioni impervie e lontane (India, Tibet e montagne dell'Himalaya) dove venne in contatto con misteriosi "Maestri", uomini evoluti dai quali ricevette l'insegnamento iniziatico che ella successivamente codificò nei principi di base della teosofia. Primi fra tutti, i concetti di fratellanza universale, reincarnazione e karma, evoluzione attraverso le esperienze di vita. Il grande merito di H.P. Blavatsky e dei suoi successori è quello di avere scoperto per l'Occidente (e in gran parte anche per l'Oriente, come riconobbe lo stesso Gandhi) la grande tradizione filosofico-religiosa indiana, da tempo caduta nell'oblio, di aver operato a favore dello sviluppo sociale e culturale indiano, di aver promosso il risveglio spirituale in un'epoca improntata al materialismo. Questo libro ricostruisce le vicende di vita di H.P. Blavatsky e dei suoi più stretti collaboratori e amici, e delinea lo sviluppo di un movimento di pensiero che ha un suo indubbio ruolo nella storia del pensiero religioso, filosofico ed esoterico del nostro tempo.

Helena Petrovna Blavatsky mi affascina ormai da un sacco di anni, da quando lessi il suo nome sullo scaffale di una celebre libreria esoterica di Milano (oddio, non so quanto sia celebre in generale, ma per me lo è). Una figura singolare che, in vita, è sempre additata come “una dei più abili, ingegnosi e interessanti impostori della storia” (come sentenziato dalla Society for Psychical Research), appellativo che ancora oggi, a un secolo di distanza, non le si è staccato di dosso, nonostante le pubbliche scuse, giunte ormai postume, da parte dei suoi più importanti detrattori.
Il volume, scritto da Paola Giovetti per Edizioni Mediterranee, racconta la vita della Blavatsky sin dalla sua fanciullezza e le circostanze che la condussero alla realizzazione del suo testo più famoso, opus magnum del pensiero teosofico: "La dottrina segreta" (1888). Un giorno magari ne parleremo più diffusamente qui sul blog. Sicuramente meglio di quanto fatto in passato.
Per quest'oggi è tutto. Ma non "tutto" nel senso più definitivo del termine. Ho ancora diversa carne al fuoco ed è matematico che si tornerà presto a parlare di libri da queste parti. Presto quando? Molto presto, ve lo assicuro.

Rock Around the Moz

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Solo un brevissimo intervento, quello di oggi, per annunciare a questo mondo che il momento tanto agog natoè infine arrivato. Ci ho messo più di due anni per giungere alla meta e, con un po' di pazienza, finalmente la lunga attesa oggi può dirsi terminata. 
Il vostro Obsidian Mirror oggi bussa alla porta del Moz o'clock, prende posto nel suo salotto, si accomoda placidamente sul suo divano (accavallando anche un po' le gambe perché non si sa mai) e si appresta a far fronte alle perfide domande del padrone di casa.
Non so some andrà a finire questa giornata (quasi certamente non bene) ma so per certo che è un grande privilegio essere protagonista della grande iniziativa intervista-blogger ideata dal terribile Mikimoz! A proposito... Chi era quel tizio che diceva che ognuno di noi, nell'arco di una vita, ha a sua disposizione un quarto d'ora di notorietà? Mi pare fosse Andy Warhol, giusto? Beh, non so se il leggendario profeta della pop-art avesse ragione (detto tra noi, quella frase mi è sempre sembrata una pu##anata) ma nel mio caso quel quarto d'ora, minuto più, minuto meno, è davvero arrivato. E voi? Cosa ci fate ancora qui? Correte tutti a leggermi sul Moz o'clock!

Anime dilaniate (Pt.1)

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Sylvia C. stava ancora parlando, descriveva i luoghi dove viveva i suoi incubi, lo faceva dolcemente e ineluttabilmente. Barbara fece un respiro profondo e la interruppe. “Va bene. Molto, molto, bene. Adesso, voglio che ti concentri su te stessa in quei luoghi. Chi sei? Hai un nome?" Sylvia esitò. “Cass… Cassilda.” 
Qualcosa nelle profondità inesplorate della sua anima si era rigirata come un coltello nella carne. Cassilda. Una confusa rete di relazioni, di vaghe parentele, di intere dinastie, iniziarono a prendere forma dentro di lei. Avrebbe voluto ricacciare indietro quei pensieri ma le esigenze della sua professione prevedevamo il contrario.“Raccontami della tua famiglia, Cassilda. Dimmi di…” Barbara esitò, abbassando lo sguardo. “Dimmi degli Aldones. È un nome che conosci? È una famiglia?". L’espressione di Sylvia si indurì. “Sì”.“Qual è la sua relazione con te?".“Cugino e usurpatore. Traditore. Poiché era un uomo, aveva invocato per sé il diritto alla successione ma non è sopravvissuto abbastanza per profanare il trono di nostro padre.”. Un sorriso inquietante saettò attraverso il volto della ragazza. “Come premio per la sua ambizione, gli ho inviato il segno giallo”.
Già altre volte, in questa serie di articoli, ci siamo posti la questione di quale sia la reale natura del segno giallo. In un paio di post eravamo arrivati a distinguere due facce dell’elemento: da una parte esso si direbbe essere il simbolo che identifica la dinastia reale a cui la nostra mitologia fa riferimento, dall’altra sarebbe una porta in grado di mettere in comunicazione questo mondo con un mondo alternativo di terrore e di follia. C’è un terzo aspetto che però forse non abbiamo ancora approfondito: il segno giallo sembrerebbe anche essere un messaggero di morte.
Lo si è d'altra parte già intuito leggendo "Il riparatore di reputazioni": chiunque riceva il segno giallo è destinato a una morte precoce. Probabilmente ciò avviene in virtù di una sorta di controllo mentale che il mittente ottiene nei confronti del prescelto. Il brano riportato in apertura ne è solo un esempio. Una giovane donna, di cui conosciamo solo il nome e l’iniziale del cognome, è sottoposta a cure psichiatriche da parte di tale dottor Monte Spielman e della sua collega Barbara Post. La ragazza è soggetta a certi misteriosi incubi interpretati da Spielman come frutto di una violenta schizofrenia paranoide, caratterizzata da sdoppiamento della personalità e da un singolare fenomeno di agorafobia particolarmente accentuato nelle ore dopo il tramonto. Il racconto da cui è tratto il suddetto brano si intitola “Tattered Souls” (letteralmente “anime sbrindellate”, anche se in questa sede ho preferito utilizzare il termine "dilaniate"), scritto da Ann K. Schwader nel 2003 e incluso nell’opera “Strange Stars and Alien Shadows” edita dalla scomparsa Lindisfarne Press. Tenete a mente il nome di Ann K. Schwader, perché ci capiterà di parlarne nuovamente in futuro. Per il momento credo basti sapere che si tratta di una scrittrice e poetessa americana specializzata nel genere dark, horror, fantasy e sci-fi, finalista del Bram Stoker Award nel 2010 e presente in numerose raccolte Chaosium quali “The Nyarlathotep cycle” e “The Innsmouth cycle”, entrambe chiaramente di ispirazione lovecraftiana.

Cosa c'è di particolarmente interessante in questo racconto? Innanzitutto, come abbiamo detto, scopriamo un nuovo aspetto del Segno Giallo che non conoscevamo, in secondo luogo riusciamo a fare qualche ulteriore passo avanti tra i personaggi de "Il riparatore di Reputazioni" di Robert W. Chambers e il loro ruolo all'interno della cosiddetta "Dinastia Imperiale d'America", la quale, mi sento di azzardare, pare non essere altro che la materializzazione terrestre di un'altra ben più terribile dinastia, quella del fantomatico Re in Giallo.
In questo “Tattered Souls” facciamo la conoscenza, come dicevamo, di una certa Sylvia C., la quale sembra da subito avere parecchio a che fare con le vicende di nostro interesse. Il medico che l'aveva in cura, Monte Spielman, aveva tentato di dare una spiegazione agli incubi ricorrenti della giovane attraverso un'indagine nel suo passato, alla ricerca di qualche trauma legato verosimilmente alla sua infanzia. Su una grande lavagna appesa alla parete il medico aveva iniziato a scrivere alcune parole e soppesare, al contempo, la reazione della paziente, una parola nuova ad ogni successiva seduta: ZIA, ZIO, MADRE, PADRE.... fu proprio il giorno in cui toccò alla parola PADRE che la ragazza ebbe una reazione inaspettata: prese il gesso giallo e, rapidamente, si mise a disegnare un simbolo, quasi uno scarabocchio, sulla lavagna. Un simbolo dal significato oscuro, ma che era in qualche modo collegato con l'ultima parola scritta sulla lavagna. Il dottor Spielman decise di proseguire il test in quella stessa direzione, prese il gessetto e scrisse CUGINO. Gli avvenimenti precipitarono: Sylvia afferrò uno straccio e tentò di cancellare freneticamente quest'ultima parola prima di venire bloccata e chiudere, per reazione, ogni nuovo tentativo di percorrere tale strada. Per caso il pensiero di qualcuno di voi è già corso ai cugini Louis e Hildred Castaigne citati ne "Il riparatore di reputazioni"? Se è così, allora siete già sulla buona strada.

Su richiesta di Spielman la dottoressa Barbara Post si inserisce, suo malgrado, nella vicenda per tentare una seduta di regressione ipnotica sulla giovane. Quest'ultima, ben disposta nei confronti della nuova arrivata, si presta favorevolmente all'esperimento, manifestando il proprio desiderio di superare i propri incubi notturni.
"Di quali incubi stiamo parlando?" chiese alla paziente. "Temi forse che i trattamenti psichiatrici possano indurti nuovi incubi?". "Qualsiasi cosa facciano, temo possano fermarli prima che ne comprenda il significato. Ultimamente ho iniziato a prendere nota, al mio risveglio, del contenuto dei miei incubi su di un piccolo quadernetto, ma temo che come idea non abbia funzionato un granché. Tutto ciò che mi rimaneva era una strana sensazione di terrore. La gente muore nei miei sogni, dottoressa Post, la gente muore e io non posso farci nulla... anzi, recito addirittura una parte decisiva nella scena delle loro morti.". "Quale parte? Puoi descrivermi esattamente il tuo ruolo?". Sylvia scosse la testa. "No, ed è per questo che intendo sottopormi a regressione ipnotica. Forse quegli eventi non sono successi solo nei miei sogni... li percepisco, come dire, in qualche modo familiari." Dopo un momento di esitazione Sylvia proseguì: "E anche lei, dottoressa, mi è in qualche modo familiare". 
Ecco quindi che di nuovo viene a realizzarsi un binomio già visto. Qualcosa di sinistro, di imperscrutabile, di indistinto, ancora una volta funge da legame tra un medico psichiatra e un personaggio che sembra avere qualcosa a che fare con la mitologia in giallo.
Ma chi è infine Sylvia C.? Una schizofrenica paranoide oppure... Oppure c'è dell'altro? La sindrome da sdoppiamento di personalità diagnosticata da Monte Spielman era da ritenersi esatta oppure in quel lato nascosto della sua mente esistono interi mondi, forse mai calpestati da piedi umani? E che dire di quel segno giallo tracciato sulla lavagna? Si tratta forse di un messaggio proveniente dalla perduta città di Carcosa? E sarà quel segno a costringere una sera Monte Spielman ad infilarsi la federa di un cuscino sulla testa (The Pallid Mask?) prima di stringersi una corda attorno al collo e togliersi la vita?
CONTINUA

Anime dilaniate (Pt.2)

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“Quando il governo francese ne aveva sequestrato le copie appena giunte a Parigi, Londra ovviamente aveva cominciato a bramarne la lettura: com’è noto, il libro si diffuse come una malattia infettiva, di città in città, di continente in continente, proibito qui, sequestrato là, condannato dalla stampa e dal pulpito, censurato persino dai più moderni fra i letterati anarchici."(Robert W. Chambers, The Repairer or reputations, 1895).
"Oltre un secolo fa il governo francese aveva presumibilmente bruciato la prima edizione tradotta de Le Roi en Jaune che aveva attraversato i suoi confini. Dopo aver letto il secondo atto [la dottoressa Barbara Post, ndr] ne aveva compreso il significato, sebbene fino a quel giorno non fosse sicura del vero motivo per il quale avesse gettato la propria copia nelle acque della Senna." (Ann K. Schwader, Tattered Souls, 2003).
La maggior parte delle copie del famigerato "Re in Giallo", perlomeno l'edizione in francese, vennero quindi distrutte secondo quando inizialmente riferitoci da Chambers e confermatoci un secolo più tardi dalla Schwader. Eppure si direbbe che, nonostante tutto, alcune copie siano riuscite a scampare all'oblio. Una di queste salta fuori, sorprendentemente (ma non troppo), dalla borsetta di Sylvia C. proprio nel corso della prima seduta presso lo studio-abitazione della dottoressa Barbara Post. Tale rivelazione è uno dei momenti cardine del racconto, quello in cui ci si rende conto, ancora una volta, dei vasti scenari che ci si aprono davanti e dei molteplici grovigli che rendono la mitologia "in giallo" quasi impossibile da sbrogliare.
Barbara ammette di aver iniziato a leggere Le Roi en Jaune parecchi anni prima, quando ancora era una studentessa e viveva a Parigi. Come abbiamo visto nella citazione precedente, la sua lettura non era proseguita oltre il secondo atto, un passo come abbiamo già visto (ne "Il Riparatore di Reputazioni") molto critico, quello che generalmente segna il confine tra la sanità mentale del lettore e la follia senza ritorno. Fortunatamente la conoscenza del francese della dottoressa Post, a quei tempi, non era sufficiente perché lei potesse cogliere appieno ogni aspetto della questione, ma era tuttavia abbastanza da permetterle di prendere l'unica decisione possibile: gettare il libro nella Senna. "Poteva ricordare abbastanza bene cosa aveva provato dopo la lettura de Le Roi en Jaune, una sensazione che proveniva dal profondo dell'anima, come i postumi di una sbronza di assenzio, ma non ricordava assolutamente nulla della trama". In quel momento non c'è tuttavia alcun motivo perché le due donne non debbano finire per parlare di quel libro. E quell'instante è solo l'inizio del crollo.

Il dottor Monte Spielman muore quello stesso giorno. Prima di impiccarsi però compone un numero di telefono, quello della dottoressa Post. Vuole avvertirla del pericolo imcombente. Sylvia C. non è quello che sembra, non è solo una giovane sventurata in preda alle allucinazioni. Quel segno giallo da lei lasciato sulla lavagna del suo studio inizia a fare il suo effetto. Abbiamo detto che il segno giallo è un messaggero di morte, no? Il messaggio è il suo primo significato, il secondo è la porta: il segno giallo è anche un varco tra il mondo terrestre e un luogo innominabile, quello che taluni chiamano Hastur, un regno dove soli gemelli illuminano gli edifici di Carcosa, la città perduta affacciata sul lago di Hali. "Non so come abbia potuto trovarmi, ma l'ha fatto, sta arrivando! Il segno! È per via del segno! Lei lo ha portato da me. Non so come abbia potuto ma lo ha fatto! Lo ha fatto! E lo porterà anche da te, se la deluderai!"
Ma chi è quindi veramente Sylvia C.? Forse a qualcuno è sfuggito, ma lo avevo già rivelato nel piccolo brano in apertura del post precedente: "Sylvia C. stava ancora parlando, descriveva i luoghi dove viveva i suoi incubi, lo faceva dolcemente e ineluttabilmente. Barbara fece un respiro profondo e la interruppe. “Va bene. Molto, molto, bene. Adesso, voglio che ti concentri su te stessa in quei luoghi. Chi sei? Hai un nome?" Sylvia esitò. “Cass… Cassilda.” 
In quel preciso attimo un brivido solca la schiena di Barbara. Nel bel mezzo della seduta di regressione ipnotica tutto le appare chiaro, tutti i tasselli vanno al loro posto: Carcosa, il segno giallo, la maschera pallida... Tutti i tasselli vanno al loro posto tranne uno, il più temibile. Ma bisogna andare avanti, continuare, arrivare alla verità. Bisogna farlo adesso che Sylvia è sotto ipnosi e tecnicamente innocua. "Adesso ti chiedo un'altra cosa. Voglio che mi parli della tua morte. Dimmi, come è successo? Come sei morta?". Sylvia non risponde immediatamente. Lascia passare qualche attimo, qualche interminabile attimo, poi ridacchiando, con voce roca e strangolata, dice: "Perché me lo chiedi? Davvero non te lo ricordi, cara sorella?". Con queste parole i suoi occhi si spalancano e si voltano minacciosamente verso la dottoressa Barbara, ormai in preda al terrore. "Sei stata tu, Camilla..."

Mondo Blog

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A un anno di distanza (o poco meno) dalla volta precedente si ritorna a parlare di blog e di blogger anche da queste parti. In questi primi giorni di autunno Obsidian Mirror è ormai tornato, come averete notato, ai suoi ritmi consueti, quelli che prevedono un nuovo post ogni quattro o cinque giorni: un giusto compromesso, nella pratica, tra le necessità imposte dai ritmi della vita reale e le gioie derivanti da questo mondo fantastico, al quale l'aggettivo "virtuale" oggi mi sembra ormai vada troppo stretto. In questi giorni, dopo la lunga pausa estiva, abbiamo portato avanti percorsi già tracciati in precedenza e abbiamo aperto nuove strade, nell'ottica di creare nuova linfa e proporre in continuazione materiale che possa coinvolgere, con immutata passione, lettori vecchi e nuovi. Le speranze di riuscire a mantenere i buoni propositi sono tante, le certezze un po' meno, per cui andiamo avanti senza pensarci troppo. Ormai lo avrete capito: questo è un post privo di logica e ricco di chiacchiere, uno di quelli in cui si inizia a tamburellare sulla tastiera senza avere bene in mente ciò che ne verrà fuori alla fine. Ogni tanto anche questo ci sta, no? Non è che si può sempre parlare dei massimi sistemi.
Ogni tanto bisogna guardarsi attorno e cercare di capire dove siamo finiti. Non è assolutamente facile trovare delle risposte alle proprie domande. Soprattutto per via del fatto che noi blogger siamo tutti fondamentalmente soli e vulnerabili quando navighiamo nel web.
Si è spesso parlato del futuro del blogging e della sua situazione attuale. La domanda che spesso ci si pone è se abbia ancora senso questa formula nel web odierno. Parliamoci chiaro: blog e blogger, visti da fuori, sono considerati dinosauri sopravvissuti non si sa come ad un bombardamento di asteroidi. Blog e blogger sono guardati con sospetto, spesso sono ignorati e tenuti alla larga come la peste, spesso e volentieri sono odiati e disprezzati per qualche ragione ignota, probabilmente perché blog e blogger insistono a portare avanti un discorso che oggi è ritenuto superato. Un odio e un disprezzo che. più probabilmente, derivano dal fatto che i blogger vengono catalogati come personaggi dotati di un ego smisurato, un pugno di nerd obsoleti che si crogiolano nello scrivere di argomenti che non interessano a nessuno se non a loro stessi. Detto questo rinnovo la domanda: chi siamo noi blogger? Dove siamo finiti? Siamo degli inguaribili nostalgici del web 1.0? Oppure siamo fanatici fruitori dello slow-web? Oppure siamo qualcos'altro ancora? Chi ha ragione in tutta questa dannata polemica?
Oggi come oggi il blog, se osservato con gli occhi di chi ne usufruisce, è un angolo di paradiso. Questa almeno è l'opinione di chi scrive. Non esiste un altro luogo nella rete dove ci senta davvero partecipi di ciò che il blogger di turno ci offre, non esiste un altro luogo dove chiunque può usufruire dei contenuti offerti a 360°. Il blog, in pratica, è la più riuscita forma di comunicazione che sia mai apparsa in rete. Cosa esprime meglio il concetto di "socializzazione"? Un social network? Non credo. Nonostante il suo appellativo, non c'è niente di più asociale di un social network. Non c'è nulla di più egocentrico di un navigante dei social network. A chi possono interessare le foto del cappuccino bevuto a colazione o delle scarpe indossate alla festa della sera prima? A chi altri, se non al tizio o alla tizia che le ha condivise con gente alla quale, magari, non ha mai rivolto una sola parola in tanti anni di "amicizia"?
A tutto questo io posso solo dire "No, grazie". Preferisco continuare a bloggare nell'ombra, a quanto pare quella stessa ombra che proteggeva coloro che ascoltavano Radio Londra negli anni Quaranta.


Da quando ho iniziato quest'avventura, in quel famoso giorno di pioggia del 2011, ho raccolto grandi soddisfazioni, ho conosciuto un sacco di persone incredibili, disponibili e sincere, che non mi trattengo dal chiamare amici. In cima alla lista, se me lo permettete, metterei l'ineguagliabile Nick Parisi, il curatore del blog Nocturnia, che mi ha accolto a braccia aperte quando iniziai ad affacciarmi in questo mondo per me allora sconosciuto. Quello stesso Nick che ancora oggi, dopo tanto tempo, mi ha citato nel suo annuale post dedicato ai blog imprescindibili.
Ed è proprio a quel post che oggi voglio ricollegarmi, per sottolineare, se mai ce ne fosse bisogno, che il mondo del blogging è un mondo speciale.
Nick ha posto la domanda “quali sono stati i blog che avete apprezzato maggiormente nel corso di questo 2015?” e, contestualmente, ha dichiarato in anticipo le sue scelte, nominando i suoi blog preferiti nella categoria “Must” (per i blog indispensabili come l’ossigeno), nella categoria “New Entries” (per le nuove scoperte), nella categoria “Torna caro blogger” (per i blogger che si stanno impigrendo) e nella categoria “Desaparecidos” (per i blog abbandonati dal loro blogger). Lo scopo di tutto ciò, come più volte ha ripetuto il suo ideatore, è quello di conoscere e far conoscere siti nuovi, diffondere i propri pareri in merito, stringere nuove amicizie e rinsaldarne di vecchie.

L'ho già scritto altre volte ma, a beneficio di chi è giunto da questa parte solo di recente, quel post che avete letto su Nocturnia non è stato il primo in assoluto. Un post come quello era apparso sul blog di Nick già nel lontano 2011, fu poi replicato nel 2012, quindi nel 2013 e infine nel 2014. E fu proprio a quella vecchia edizione del 2012 che risale la prima menzione di Obsidian Mirror (quando il nome del blog ancora includeva la parola “inside”, poi decaduta). Ma per tutto questo vi rimando al mio post precedente, dove trovate tutti i dettagli che mi sembra eccessivo ripetere qui.


Rimane quindi una sola cosa da fare: quella di rispondere all'invito di Nick e citare i blog che meglio rappresentano questo 2015. Nella sezione “Must” la mia scelta diviene ogni volta più difficile, visto che chi vi scrive, mai come quest'anno, ha potuto godere del lavoro di un sacco di blogger bravissimi, tra "vecchi" e "nuovi". Citare in questa sezione solo pochi nomi mi sembra quasi ingiusto nei confronti di tutti gli altri, ma occorre prendere una posizione, per cui senza altro indugio promuovo Ivano Landi come titolare della posizione più alta del podio. Il motivo credo non ci sia bisogno di dirlo, no? Da qualunque punto lo guardiate, dove mai lo trovate un blog che possa competere con il suo? A condividere il podio con Ivano, in maniera molto democratica, nomino tutti coloro con i quali ho interagito nel corso del 2015. Una visita, un commento lasciato o ricevuto, è la massima espressione di stima a cui un blogger possa aspirare... e tale stima io non posso che ricambiarla. Se quindi vi sentite parte di quel piccolo "mondo di ossidiana" che mi si è costruito attorno, allora quel podio è sicuramente per voi.
Più corposa è sicuramente la lista dei nuovi blog sbarcati nel mio blogroll nel corso del 2015. Mai come quest'anno, almeno così mi pare, si sono aggiunti tanti nuovi nomi di assoluta qualità. Lasciatemi quindi citare, tra i tanti, Infinitesimale, Io la letteratura e Chaplin, Frammenti e tormenti e Bizarro Bazar.
Una menzione speciale va inoltre a tre blogger che in realtà avevo già individuato sul finire dello scorso anno, ma che hanno scalato posizioni alla grande nel giro di pochissimo tempo. Il primo si chiama Ivano Satos e porta avanti contemporaneamente due blog di grandissimo livello: Beati Lotofagi, molto weird come piace a me, e Kentucky Mon Amour, dedicato al western (che merita se non altro perché credo sia l'unico al mondo). Il secondo si chiama Gioacchino Di Maio e anche lui propone due blog, uno di letteratura (Duecento Pagine) e uno di cinema (Ciak Movie World): entrambi da tenere d'occhio. Il terzo blogger, ma sicuramente non in ordine di importanza, si chiama Lucius Etruscus. Lucio è un vero fenomeno in quanto riesce a gestire contemporaneamente addirittura una decina tra blog e siti. Non riuscirei a nominarli tutti nemmeno se lo volessi, per cui mi limito a segnalare il blog bibliofilo Non quel Marlowe, il blog specializzato Fumetti etruschi, quello dedicato al cinema bis, Il Zinefilo, e l'impressionante database di letteratura sommersa Gli archivi di Uruk. Un caro saluto all'etrusco e un grosso in bocca al lupo per tutti i suoi progetti.

Per quanto riguarda infine i blog scomparsi o accantonati momentaneamente dai loro autori, mi sembra che i nomi siano più o meno sempre gli stessi, segno che la vita cambia e a volte ci porta lontano. Dopo un inizio di anno che sembrava promettente è tornato ad immergersi nell'oblio il buon Coriolano, sempre nessuna notizia da Occhio sulle espressioni, solo alcune notizie frammentarie dalla mitica Lady Ghost e dalla dolce Camilla, ancora eclissata chissà dove la simpatica Alessia che, solo un anno fa, veniva qui citata come una delle realtà più promettenti del blogging. Com'è strana la vita, non trovate?

Cento libri di formazione

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Alla fine ce l'ho fatta a partecipare alla bella iniziativa di Ivano Landi. Naturalmente ho usato un piccolo espediente, perché mai sarei riuscito da solo in quest'impresa. Ma andiamo con ordine...
L'idea di questo post deriva, come ci racconta Ivano, da un episodio della vita di Henry Miller, al quale fu chiesto di stilare un elenco dei cento libri che, più di altri, avessero influenzato la sua scrittura. 
Ivano e molti altri colleghi blogger dopo di lui si sono quindi cimentati in quella stessa impresa che, ve lo posso dire ora che  tentato (inutilmente) di venirne a capo, è praticamente impossibile.
L'inghippo sta nel fatto che la lista non deve contenere libri che sono piaciuti, bensì quelli che in un modo o nell'altro hanno contribuito alla nostra formazione personale e che, come dice Ivano, "sono diventati inchiostro del nostro inchiostro". Tutto ciò taglia via in maniera netta gli ultimi anni, se non decenni, visto che, con poche eccezioni, non può esserci un libro recente che possa aver contribuito alla mia formazione che, in quanto tale, si è compiuta in gran parte negli anni precedenti.
D'altra parte, per quanto mi riguarda, è inevitabile che una lettura che ha contribuito alla mia formazione deve essermi in qualche modo risultata gradita, sebbene non necessariamente dal punto di vista specificatamente letterario. La mia lista è stata di conseguenza redatta numerose volte, e altrettante volte l'accetta dell'autocensura si è abbattuta su di essa. Quasi impossibile, per quanto mi riguarda, arrivare a cento titoli senza barare nemmeno un pochino. Ho quindi fatto di tutto per resistere alla tentazione di citare alcuni classici che, seppur apprezzati, non sono entrati stabilmente a far parte della mia vita. Ho fatto di tutto per non cedere al desiderio di nominare titoli che ritengo grandiosi ma nei quali sono incappato solo in tarda età, quando ormai la mia sensibilità letteraria era già ampiamente formata.

Alla fine, per venire a capo della questione, ho chiesto l'intervento di Simona, mia compagna di vita e silenziosa co-autrice del blog, e le ho chiesto di stilare la lista dei suoi 50 libri. Saremmo potuti arrivare facilmente a 70, 80 titoli a testa, ma per scelta abbiamo deciso di mantenere il limite totale di 100 titoli previsto dal meme. Perciò, a tale lista ho aggiunto i miei 50 libri, dopodiché ho mescolato il tutto e ho generato una lista di 100 titoli in ordine alfabetico.
In parole povere, non saprete mai quali sono i libri della mia lista e quali i libri della sua, ma potrebbe essere pur sempre simpatico cercare di indovinare, no? Non sarà comunque facile, perché io e Simona condividiamo diversi interessi e molti dei titoli che leggerete tra un attimo qui di seguito apparivano nella prima bozza di entrambi.
Spero che l'ideatore di questo "giochino" possa perdonare se ho deciso di cambiare in corsa le regole del gioco. Purtroppo era l'unico modo che avevo per partecipare e, come immagino si sia capito, ci tenevo molto a farlo. Enjoy!

1.           AAVV - I quindici (enciclopedia per ragazzi)
2.           Abe, Kobo - La donna di sabbia
3.           Adams, Scott - Il principio di Dilbert
4.           Akutagawa, Ryunosuke - Rashōmon e altri racconti
5.           Alcott, Louise May - Piccole donne uccidono
6.           Alighieri, Dante - La divina commedia, Inferno
7.           Allegro, John - The sacred mushroom and the cross
8.           Allende, Isabel - La casa degli spiriti
9.           Anderson, Poul - Quoziente 1000
10.         Anonimo - Il libro tibetano dei morti
11.         Bach, Richard - Il gabbiano Jonathan Livingstone
12.         Ballard, James G. - Crash
13.         Barker, Clive - Apocalypse
14.         Barker, Clive - Imagica
15.         Baudelaire, Charles - I fiori del male
16.         Brontë, Emily - Cime tempestose
17.         Bukowski, Charles - Tutte le opere
18.         Burroughs, William S. - Pasto nudo
19.         Calvino, Italo - Marcovaldo
20.         Calvino, Italo - La trilogia
21.         Camus, Albert - La peste
22.         Carroll, Lewis - Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie
23.         Céline, Louis-Ferdinand - Viaggio al termine della notte
24.         Céline, Louis-Ferdinand - Morte a credito
25.         Chambers, Robert W. - Il re in giallo
26.         Christie, Agatha - Dieci piccoli indiani
27.         Conan Doyle, Arthur - Uno studio in rosso
28.         De Amicis, Edmondo - Cuore
29.         Dostoevskij, Fedor - Le notti bianche
30.         Dürrenmatt, Friedrich - Il tunnel
31.         Easton Ellis, Bret - American Psycho
32.         Elémire Zolla - Le meraviglie della natura
33.         Fallaci, Oriana - Lettera a un bambino mai nato
34.         Fante, John - Chiedi alla polvere
35.         Fo, Dario - Morte accidentale di un anarchico
36.         Fowles, John - La donna del tenente francese
37.         Frank, Anna - Diario
38.         Goethe, Johann W. - Le affinità elettive
39.         Golding, William - Il signore delle mosche
40.         Grabiński, Stefan - Il villaggio nero
41.         Hearn, Lafcadio - Kwaidan (Ghost stories and strange tales of old Japan)
42.         Herbert, James - L'orrenda tana
43.         Kafka, Franz - La metamorfosi e altri racconti
44.         Kawabata, Yasunari - Prima neve sul Fuji
45.         Keene, Carolyn - Nancy Drew (tutti i romanzi)
46.         King, Steven - It
47.         King, Steven - Pet Sematary
48.         Kubin, Alfred - L'altra parte
49.         Lautréamont - I canti di Maldoror
50.         Le Fanu, Joseph Sheridan - Carmilla
51.         Leary, Timothy - Tutte le opere
52.         Leavitt, David - Ballo di famiglia
53.         Ledda, Gavino - Padre padrone
54.         Levi, Primo - Se questo è un uomo
55.         London, Jack - Il richiamo della foresta
56.         Lorenz, Konrad - L'altra faccia dello specchio
57.         Lovecraft, Howard P. - Tutti i racconti
58.         Lymbery, Philip - Farmageddon
59.         Mailer, Norman - I duri non ballano
60.         Mann, Thomas - Tonio Kröger
61.         Manzini, Giorgio - Indagine su un brigatista rosso
62.         Marquez, Gabriel Garcia - Cent'anni di solitudine
63.         Marquez, Gabriel Garcia - L'amore ai tempi del colera
64.         Matheson, Richard - Io sono leggenda
65.         Melville, Herman - Moby Dick
66.         Miller, Henry - La crocefissione rosea (Sexus, Plesxus, Nexus)
67.         Mishima, Yukio - Tutte le opere
68.         Molnár, Ferenc - I ragazzi della via Paal
69.         Mutakami, Haruki - Norwegian Wood
70.         Nin, Anais - Il delta di venere
71.         Orvieto, Laura - Storie della storia del mondo
72.         Orwell, George - La fattoria degli animali
73.         Padoan, Gianni - Spazio 1999 (tutti i volumi)
74.         Paterlini, Piergiorgio - I brutti anatroccoli
75.         Perec, Georges - La vita, istruzioni per l'uso
76.         Pérez-Reverte, Arturo - La tavola fiamminga
77.         Pessoa, Fernando - Il libro dell'inquietudine
78.         Poe, Edgar Allan - Tutti i racconti
79.         Polidori, John William - Il vampiro
80.         Ranpo, Edogawa - Tutte le opere
81.         Réage, Pauline (Dominique Aury) - Histoire d'O
82.         Remarque, Eric Maria - Niente di nuovo sul fronte occidentale
83.         Rice, Anne - Il ciclo delle streghe
84.         Rimbaud, Arthur - Una stagione all'inferno
85.         Sade - Le 120 giornate di Sodoma
86.         Senghe, Ghesce Jampel - Sogni, morte e bardo
87.         Sepulveda, Luis - Diario di un killer sentimentale
88.         Silone, Ignazio - Il segreto di Luca
89.         Silverberg, Robert - Viaggio nel deserto
90.         Stajano, Corrado - Il sovversivo
91.         Starnone, Domenico - Fuori registro
92.         Steinbeck, John - La valle dell'Eden
93.         Stoker, Bram - Dracula
94.         Svevo, Italo - La coscienza di Zeno
95.         Tondelli, Pier Vittorio - Un weekend postmoderno
96.         Verne, Jules - Il giro del mondo in 80 giorni
97.         Viganò, Renata - L'Agnese va a morire
98.         Wilde, Oscar - Il principe felice e altri racconti
99.         Wilde, Oscar - Il ritratto di Dorian Gray
100.       Zoderer, Joseph - Il silenzio dell'acqua sotto il ghiaccio

La dinastia di Carcosa (Pt.1)

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"Qualcosa nelle profondità inesplorate della sua anima si era rigirata come un coltello nella carne. Cassilda. Una confusa rete di relazioni, di vaghe parentele, di intere dinastie, iniziarono a prendere forma dentro di lei. Avrebbe voluto ricacciare indietro quei pensieri ma le esigenze della sua professione prevedevamo il contrario.“Raccontami della tua famiglia, Cassilda. Dimmi di…” Barbara esitò, abbassando lo sguardo. “Dimmi di Aldones. È un nome che conosci? È una famiglia?". L’espressione di Sylvia si indurì. “Sì”.“Qual è la sua relazione con te?".“Cugino e usurpatore. Traditore. Poiché era un uomo, aveva invocato per sé il diritto alla successione ma non è sopravvissuto abbastanza per profanare il trono di nostro padre.”  (Ann K. Schwader, Tattered Souls, 2003).
Sembra sia ormai giunto il momento di tirare le somme di quanto è emerso dal racconto di Ann K. Schwader e di mettere tutto in relazione a quanto già avevamo imparato in precedenza. 
Nel racconto della Schwader abbiamo fatto la conoscenza di una certa Sylvia C. la quale, indotta in uno stato di regressione ipnotica, afferma di chiamarsi Cassilda e di provare una buona dose di risentimento nei confronti di un cugino che definisce "usurpatore" e che avrebbe "invocato per sé il diritto alla successione", senza tuttavia riuscire a"profanare il trono di nostro padre". Tali parole non possono che riportarci alla mente ciò che disse Hildred Castaigne nel racconto "Il riparatore di reputazioni", scritto oltre un secolo prima da Robert W. Chambers.
Hildred Castaigne, se vi ricordate, nel corso della convalescenza dovuta ad una caduta da cavallo venne a contatto con il famigerato testo denominato "Il Re in Giallo" che lo avrebbe costretto a sottoporsi suo malgrado a cure psichiatriche. Attraverso un misterioso Mr. Wilde, Hildred venne a conoscenza dell'esistenza di un manoscritto che avrebbe rivelato alcuni dettagli circa la perduta Dinastia Imperiale d'America. Tale manoscritto citava "l'origine della dinastia a Carcosa, i laghi che univano Hastur, Aldebaran e il mistero delle Iadi", parlava inoltre di Cassilda e di Camilla e descriveva "le nebulose profondità de Dehme e il lago di Hali". Nel testo erano menzionate le varie "ramificazioni della Famiglia Imperiale fino a Uhot e Tale, da Naotalba e lo Spettro della Verità fino ad Aldones". Infine narrava "la meravigliosa storia dell'ultimo Re". Ma una frase in particolare è quella che più di ogni altra attirò l'attenzione del nostro protagonista, quella che diceva: «Hildred de Calvados, figlio unico di Hildred Castaigne e Edythe Landes Castaigne, primo nella successione….»

A questo punto possiamo tentare di azzardare delle ipotesi, non trovate? Cominciamo ad analizzare la frase che viene pronunciata da Sylvia C.: "Aldones è cugino e usurpatore del trono di nostro padre". Da quanto sopra deduciamo, con minimo scarto di dubbio, alcune cose importanti.
1) Negli Yellow Mythos ciascun personaggio sembra possedere almeno due "alias". In questo guazzabuglio di nomi dobbiamo quindi cercare di discriminare quelli appartenenti al fantomatico "Regno di Hastur", quello del "Re in Giallo", dalla loro controparte "terrestre". Siete in grado di farlo?
2) C'è un evidente collegamento tra quanto accennato in "Tattered Souls" e la vicenda narrata un secolo prima da Robert W. Chambers, nella quale si riferisce che Louis Castaigne, cugino del narratore Hildred Castaigne, avrebbe tentato di usurpare il trono destinato, per via ereditaria, a quest'ultimo. Possiamo quindi presumere che Aldones e Louis Castaigne siano la stessa persona?
3) Il cugino Louis Castaigne non sarebbe mai riuscito a "profanare" il trono di Hastur. Egli sarebbe stato infatti ucciso, per mandato del cugino Hildred, attraverso il Segno Giallo. Avete dei dubbi in proposito?
4) Louis Castaigne, ufficiale dell'esercito americano, prima di morire avrebbe fatto in tempo a sposare Constance Hawberk, giovane figlia di un armaiolo sotto le cui mentite spoglie si sarebbe celato il marchese di Avonshire. Anche questo punto ci verrebbe confermato dalla successiva apparizione di una donna che risponde al nome di Constance Castaigne. Vi ricordate dove ne abbiamo parlato?
5) Se Sylvia C. si riferisce ai suddetti personaggi come appartenenti alla sua stessa famiglia, possiamo presumere che il suo nome per esteso sia Sylvia Castaigne. Dite che l'ho sparata grossa?

A questo punto possiamo anche tentare di aggiungere alcuni ulteriori tasselli. Indizi ce ne sono a bizzeffe, ma nessuno di questi è ovviamente definitivo. Si tratta soltanto di fare un po' d'ordine che, all'alba del diciottesimo articolo dedicato agli Yellow Mythos, mi sembra sia ormai necessario.
L'idea è quella di coinvolgere tutti voi che seguite questa serie sin dall'inizio (ma non solo). Avete voglia di fare un gioco? Nulla di complicato. Si tratta solo di cercare di dare una risposta ad alcune semplici domande. Le prime cinque le ho già fatte: le trovate qui sopra in chiusura dei cinque punti elenco. Altre cinque domande sono qui sotto. Tenete presente che a tali domande non esiste una risposta certa e definitiva perché, è bene ricordarlo, questa è solo fiction. Non è una vera indagine.
Nel corso di questi lunghi mesi, come sapete, abbiamo semplicemente giocato a immaginarci reali le storie inventate da alcuni geniali scrittori, a partire dagli originali Ambrose Bierce e Robert W. Chambers, passando dalle pagine di Karl Edward Wagner, James Blish e Marion Zimmer Bradley per giungere ai più recenti scritti di G. Warlock Vance, Ann K. Schwader e... al nostro amico Alessandro Girola. In questo gigantesco gioco di citazioni e di rimandi, di cui abbiamo analizzato sinora solo una piccola parte, ciascun autore ha tentato di agganciarsi al disegno originale, aggiungendo i propri frammenti senza alterare per quanto possibile il puzzle. Noi dobbiamo semplicemente augurarci che nessuno abbia sgarrato: solo in questo modo questa nostra avventura potrà andare avanti senza troppi scossoni.

Ma torniamo alle domande. Siete in grado di rispondere ai seguenti punti basandovi sulla logica e su quanto scritto, in maniera più o meno esplicita,  nei post precedenti?

6) Sylvia C(astaigne) si autodefinisce cugina di Aldones (alias Louis Castaigne, a quanto pare). Quale può essere il suo rapporto di parentela con Hildred Castaigne?
7) Sylvia C(astaigne) sostiene che il cugino Aldones "non è sopravvissuto abbastanza per profanare il trono di nostro padre". Chi è questo padre? E a quale trono si riferisce? 
8) Il cugino Aldones avrebbe usurpato un diritto alla successione. Cosa significa?
9) Come si inseriscono Camilla e Cassilda in tutta questa faccenda di parentele?
10) Che rapporti di parentela vi sono (se ve ne sono) tra tutti questi medici specializzati in psichiatria che abbiamo incontrato sinora?

Avete qualche giorno di tempo per rifletterci sopra, dopodiché vi esporrò le mie teorie. Se avete delle risposte scrivetemele qui sotto nei commenti oppure, se preferite, appuntatele su un quadernetto e tenetevele per voi. Naturalmente un piccolo ripassino è consigliabile. La lista completa degli articoli sinora pubblicati è consultabile nella pagina statica "Yellow Mythos". Se però non avete abbastanza tempo posso suggerirvi di concentrarvi solo su alcuni di essi. In particolare gli elementi essenziali sono contenuti in: Il libro color giallo, Il riparatore di reputazioni, Uno studio in giallo, Il fiume dei sogni notturni, Anime dilaniate parte 1 e parte 2 e, naturalmente, nel post qui presente.
Allora? Cosa farete? Giocherete con me? In tal caso, buon divertimento!

La dinastia di Carcosa (Pt.2)

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LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Continua oggi la nostra avventura alla ricerca della perduta città di Carcosa. All'alba del diciannovesimo post di questa serie dedicata agli Yellow Mythosè giusto tirare le prime somme. Mi rendo conto che, per chi mi legge, è stato dannatamente complicato star dietro alle mie riflessioni, se non altro per il fatto che tutto questo ha avuto inizio nell'ormai lontana estate del 2013 e che, nel corso di questi abbondanti due anni, le mie pubblicazioni sono apparse un po' a singhiozzo. Proviamo però comunque ad azzardare qualche ipotesi. Riusciremo a fare qualche passo importante in direzione di Carcosa?
Oggi cercheremo di mettere in fila gli elementi certi e di inserire nella nostra "to do list" gli elementi che ancora rimangono da chiarire. Tutto questo nella certezza che un universo intero ci rimane ancora da esplorare, un tutt'altro che trascurabile particolare che potrebbe far traballare le nostre certezze nel giro di poco tempo. 
La volta scorsa vi avevo proposto un giochino, una serie di domande che erano, più che altro, un piccolo invito a riflettere su alcuni particolari che avevo disseminato qua e là nei miei articoli. Nessuno si è sbilanciato troppo ma... diciamo che lo avevo messo in conto. Ad ogni modo oggi possiamo comunque provare a dare delle risposte. Le prime cinque domande erano semplici, diciamo pure che erano domande retoriche, alle quali bastava rispondere con un cenno affermativo. Le seconde cinque invece richiedevano un pochino più di sforzo e una certa dose di attenzione.
Tutto è iniziato con Ambrose Bierce e il suo racconto "Un cittadino di Carcosa". Nascosto tra quelle righe potrebbe esserci un primo indizio che, con le dovute riserve, identificherebbe la perduta Carcosa con un'ignota località terrestre. Non ci sono state sinora ulteriori conferme in merito... anzi, tutto farebbe presupporre che Carcosa non appartenga affatto a questo mondo. Ne consegue che, se Bierce non mentiva, Carcosa apparterrebbe a una dimensione terrestre alternativa, una dimensione parallela alla nostra alla quale stiamo ancora cercando la chiave di accesso.
Una conferma a questa ipotesi potrebbe essere l'apparente sdoppiamento dei personaggi coinvolti, per molti dei quali abbiamo già trovato una corrispondenza tra l'identità nella dimensione terrestre, dove si svolgono le vicende narrate da autori come Robert W. Chambers, e l'identità nella dimensione alternativa, quella che appartiene alla mitica città di Carcosa e al regno di Hastur, richiamata in molte occasioni dagli stessi autori.
E' il caso di Louis Castaigne, il più volte citato "cugino usurpatore" al quale corrisponderebbe un personaggio hasturiano chiamato Aldones (che potrebbe essere un nome, ma anche un cognome e, di conseguenza, una famiglia, una dinastia). E' il caso di Sylvia Castaigne, alla quale corrisponderebbe una donna di nome Cassilda, ed è anche il caso della dottoressa Barbara Post, alla quale corrisponderebbe una donna di nome Camilla. Queste ultime, già citate nei pochi frammenti del fantomatico "The King in Yellow" giunti sino a noi (il finale del primo atto citato da Chambers), sembrerebbero, secondo la Schwader, essere sorelle in Hastur ma non nel nostro universo: una piccola anomalia di cui prendiamo atto con riserva.
Altri personaggi, dei quali non abbiamo corrispondenze certe, sono Hildred Castaigne, cugino (e assassino) di Louis, e Constance Castaigne, alla nascita Constance Hawberk, moglie (poi vedova) dello stesso Louis. Di quest'ultima ci ha ampiamente parlato Karl Edward Wagner nel suo racconto Il fiume dei sogni notturni.
Il paragrafo appena concluso dovrebbe rispondere alle prime cinque domande, per la verità abbastanza ovvie, del mio post precedente, domande alle quali non serviva davvero una risposta.
Più complesse invece le successive cinque, che riporto qui di seguito cercando di fornire una risposta che sia il più possibile convincente.

6) Sylvia C(astaigne) si autodefinisce cugina di Aldones (alias Louis Castaigne, a quanto pare). Quale può essere il suo rapporto di parentela con Hildred Castaigne?
Sappiamo per certo che Hildred e Louis sono cugini fra di loro. La prima cosa che ci può venire in mente è che Sylvia, a sua volta cugina di Louis, possa essere sorella di Hildred (vedere Tavola 1). 


Una seconda ipotesi è che Sylvia possa essere cugina di entrambi, provenendo da un terzo ramo della famiglia Castaigne (Hildred, Louis e Sylvia sarebbero stati generati da tre diversi figli di un nonno comune) come evidenziato qui sotto nella tavola 2.


Terza ipotesi: Sylvia è figlia di un misterioso terzo cugino di Hildred e Louis. Di conseguenza quest'ultimo sarebbe cugino di secondo grado di Sylvia (vedere tavola 3). 


Per lo stesso meccanismo che non permette distinzione tra i cugini di primo e secondo grado, possiamo anche spostare Sylvia ad un "livello superiore" rispetto a Louis... Ne consegue che, definendo il già citato "nonno" come "prima generazione", Sylvia apparterrebbe alla "terza generazione", mentre Louis alla "quarta generazione" (vedere tavola 4). Qualunque sia la verità, tutto ciò non ci porta ad alcun indizio sulla relazione di parentela che esiste tra Hildred e Sylvia.

Quarta ipotesi: Sylvia definisce Louis "cugino" in senso lato... non "il mio cugino", bensì semplicemente "il cugino", ma questa ipotesi direi che possiamo provare a scartarla per via della risposta che Sylvia dà a Barbara Post in seguito a una sua domanda diretta (vedere qui). 

7) Sylvia C(astaigne) sostiene che il cugino Aldones "non è sopravvissuto abbastanza per profanare il trono di nostro padre". Chi è questo padre? E a quale trono si riferisce? 
La risposta possiamo cercarla in un brano del testo "La dinastia imperiale d'America" citato nel racconto "Il riparatore di reputazioni": “Esaminai una a una le pagine lise, consumate solo dalle mie mani e, pur sapendo tutto a memoria, dall’inizio, «Quando da Carcosa, dalle Iadi, da Hastur, da Aldebaran», fino a «Castaigne, Louis de Calvados, nato il 19 dicembre 1877», lo presi a leggere rapito, con un’attenzione avida, fermandomi per ripetere ad alta voce certi passi, e attardandomi specialmente su «Hildred de Calvados, figlio unico di Hildred Castaigne e Edythe Landes Castaigne, primo nella successione….»” . 
Da questo brano scopriamo alcune cose interessanti: 
a) I cugini Hildred e Louis vengono definiti "de Calvados", particolare che, per la prima volta, ci aiuta ad identificare un luogo geografico nel quale potrebbero avvenire i fatti di nostro interesse. Per la precisione Calvados è una piccola regione della Bassa Normandia, la stessa dove viene tutt'oggi prodotto l'omonimo brandy.
b) Hildred Castaigne de Calvados è figlio unico di un padre che a sua volta si chiama Hildred. Questa piccola informazione esclude quindi l'ipotesi che Sylvia e Hildred possano essere tra di loro fratelli (vedere Tavola 1); 
c) Il fatto che ne "La dinastia imperiale d'America" venga citato Louis Castaigne de Calvados potrebbe sottintendere che quest'ultimo sia infine riuscito, contrariamente a quanto pensavamo, ad usurpare il trono.... Per giustificare il fatto che Louis Castaigne sia stato invece ucciso dal cugino prima di salire al trono possiamo solo supporre che i "Calvados" non siano altro che gli alias dei Castaigne che noi conosciamo, gli alias appartenenti ad un'altra dimensione (quella hasturiana?).


Ma quale trono? Sylvia ad un certo punto dice che Louis "non è sopravvissuto abbastanza per profanare il trono di nostro padre". Quel "nostro padre"potrebbe testimoniare il fatto che Sylvia abbia realmente un fratello o una sorella. E più avanti vedremo chi potrebbe essere. Ma chi sarebbe invece quel "nostro padre"? Quasi certamente Sylvia si riferisce non tanto ad un padre biologico quanto ad un "padre della stirpe", forse proprio quell'anonimo "nonno" che abbiamo più volte citato in questo articolo, colui che possiamo a questo punto, con un pizzico di azzardo, identificare nel mitico "Re in Giallo".

8) Il cugino Aldones (alias Louis) avrebbe usurpato un diritto alla successione. Cosa significa?
Curiosando su wikipedia prendo ad esempio le norme che regolano il diritto di successione al trono britannico, che così recitano: "Una persona è sempre immediatamente seguita, nella successione, dal suo discendente più diretto, ad eccezione di eventuali legittimi discendenti che già appaiono più in alto nella linea di successione. I figli più grandi vengono prima dei più giovani. Il figlio maschio di una persona, indipendentemente dall'età, viene prima della figlia..."
Nell'ipotesi che nel regno di Hastur valgano le stesse regole dell'odierna Gran Bretagna, possiamo affermare che il ramo della famiglia al quale appartiene Hildred sarebbe titolare della successione per puri motivi anagrafici (il padre di Hildred sarebbe maggiore, per età, al padre di Louis, suo fratello). Non ci è dato sapere se Hildred Castaigne (padre di Hildred Castaigne de Calvados) sia mai salito sul trono, ma l'affermazione di Sylvia ("profanare il trono di nostro padre") dovrebbe in un certo qual modo escluderlo.

9) Come si inseriscono Camilla Cassilda in tutta questa faccenda di parentele?
Nel racconto di Ann K. Schwader emergerebbe che Cassilda sia l'alias di Sylvia Castaigne, mentre Camilla potrebbe essere la di lei sorella (colpevole, in un altro tempo e in un altro luogo, dell'omicidio della stessa Cassilda). Su questo punto torneremo meglio in seguito, visto che in altri testi, non ancora affrontati in questa sede, verrebbe invece riferito che Cassilda sarebbe invece la madre di Camilla, e non la sorella. Una svista oppure l'ennesima questione di omonimia come quella, appena vista, che ha per protagonisti Hildred padre e Hildred figlio?

10) Che rapporti di parentela vi sono (se ve ne sono) tra tutti questi medici specializzati in psichiatria che abbiamo incontrato sinora?
Abbiamo incontrato vari psichiatri in tutta questa storia. Il primo, l'originale dottor John Archer, fu quello che ebbe in cura Hildred Castaigne ne "Il riparatore di reputazioni" e che, come abbiamo visto qui, perse la vita proprio per mano del suo paziente. Il secondo psichiatra è invece una donna, anche lei Archer di cognome, che avrebbe avuto in cura Constagne Castaigne, come abbiamo visto qui (anche in questo caso potrebbe esserci un caso di omonimia, in quanto Constance potrebbe essere allo stesso tempo il nome sia della moglie sia della figlia di Louis Castaigne). La dottoressa Archer potrebbe quindi benissimo essere la figlia del già citato John Archer o, se non la figlia, sicuramente qualcuno che appartiene alla sua stessa famiglia. Non è per ora emerso alcun collegamento tra gli Archer e la coppia di psichiatri citati dalla Schwader, vale a dire Barbara Post e Monte Spielman
Ma ho detto "per ora", se ci avete fatto caso....

Orizzonti del reale (Pt.2)

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LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

L'estasi è sempre uno stato eccezionale, passeggero, e la più parte degli uomini non l'ha mai provato. Taluni più rozzi e incolti durano fatica anche a immaginarselo. La sua bella etimologia greca ex-stasis, lo star fuori, esprime mirabilmente questo concetto (Paolo Mantegazza, “Le estasi umane”, 1887).
La prima cosa a colpirmi, nel leggere “Le porte della percezione”, è stato lo scoprire che Aldous Huxley rimase di fondo insoddisfatto della sua esperienza: all’assunzione della mescalina non fece seguito nessuna rivelazione assoluta, e anche se lui aveva sperato di poter modificare la sua coscienza ordinaria in modo da essere in grado di conoscere dall’interno ciò di cui parlano il visionario, il medium e perfino il mistico, ciò non era avvenuto, perlomeno nei termini in cui se l’era immaginato. E di se stesso egli, che pochi anni dopo la sua morte sarebbe stato definito da Timothy Leary un visionario e il “bodhisattva dell'era nucleare”, diceva di essere povero d’immaginazione (!).
"Da ciò che avevo letto dell’esperienza della mescalina, ero convinto in precedenza che la droga mi avrebbe introdotto, almeno per qualche ora, nella specie di mondo interiore descritto da Blake e da Ӕ. [...] Ma non avevo calcolato, era evidente, le idiosincrasie della mia struttura mentale, i fatti del mio temperamento, della mia educazione e delle mie abitudini.".

Qualcosa però accadde: i rapporti di spazio e tempo persero di significato. In particolare, gli sembrò che la sua vista si acuisse, innalzando tutti i colori a una maggiore potenza, cogliendo anche le più minime variazioni del riverbero della luce, in un'esaltazione estetica nella quale le strutture e gli schemi che formano gli oggetti non venivano più interpretati in termini di spazio, o meglio di relazioni di spazio, e che in breve tempo si trasformò in quella che egli definì la “visione sacra della realtà”, ove tutto brillava di Luce Interiore ed era infinito nel suo significato. "Rimisi a posto il Van Gogh e presi il volume che stava vicino. Era un libro su Botticelli. Lo sfogliai. La Nascita di Venere non era mai stato tra i miei preferiti. Venere e Marte, quella bellezza così appassionatamente denunciata dal povero Ruskin all'apice della sua troppo lunga tragedia sessuale. La meravigliosamente ricca e intricata Calunnia di Apelle. E poi un quadro un po' meno familiare e piuttosto mediocre, Giuditta. La mia attenzione si arrestò e contemplai affascinato, non la pallida eroina, né il suo compagno, non la folta chioma della vittima, né il paesaggio invernale sullo sfondo, ma la seta purpurea del corpetto pieghettato e della gonna gonfia di Giuditta.".
E ancora: "Questo era qualche cosa che avevo visto prima, che avevo visto proprio quella mattina, tra i fiori e i mobili, quando guardai in giù per caso, e continuai a fissare appassionatamente, per determinazione, le mie gambe incrociate. Quelle pieghe dei calzoni, che labirinto di complessità infinitamente significativa! E il tessuto di flanella grigia, com'era ricco, e profondamente e misteriosamente sontuoso! Ed eccoli di nuovo nel quadro di Botticelli. […] Fissando le gonne di Giuditta, nel Più Grande Emporio del Mondo, appressi che Botticelli – e non solo Botticelli, ma anche molti altri – aveva guardato i drappeggi con gli stessi occhi trasfigurati e trasfiguranti dei miei quella mattina. Essi avevano visto l'Istigkeit, il Tutto e l’Infinito nelle pieghe degli abiti e avevano fatto del loro meglio per renderlo in pittura o in pietra. Necessariamente, è fuor dubbio, senza riuscirvi. Poiché la gloria e la meraviglia dell'esistenza pura appartengono a un altro ordine che anche l'arte più alta non ha il potere di esprimere."

È dunque nelle pieghe, nei rilievi e nelle modulazioni del tessuto, afferma Huxley, che gli artisti infondono spesso il più profondo significato delle loro opere e il loro stesso stato d'animo, temperamento e atteggiamento verso la vita. Non c'è da stupirsi dunque che, nel mito, la vita non sia altro che una trama tessuta dal fato, come nella tradizione delle Parche e del filo affidato alle loro mani, quel filo che decide il destino degli uomini. Tutto ciò mi ricorda la prima volta che vidi dal vivo un quadro di Rembrandt, ormai molti anni fa. Era uno dei suoi tipici ritratti maschili e rappresentava un soggetto in abiti dell’epoca, la veste scura e il colletto immacolato a circondargli il collo. Il biancore accecante di quel colletto e quelle pieghe che sembravano in perpetuo movimento m'ipnotizzarono per vari minuti: avevo la sensazione che l'uomo che mi fissava negli occhi dalla parete, lungi dall'essere una statica figura di tela e colore, fosse vivo tanto quanto me.

Come se mi avesse letto nel pensiero, Huxley prosegue: "Di fronte al quietista sta il contemplativo-attivo, il santo, l'uomo che, come dice Eckhart, è pronto a scendere dal settimo cielo per portare un bicchier d'acqua al fratello malato. Di fronte all'arhat, che si ritira dalle apparenze in un Nirvana completamente trascendentale sta il Bodhisattva, per il quale la Quintessenza e il mondo delle contingenze sono una cosa sola, e per la cui illimitata compassione ognuna di queste contingenze è una occasione, non solo di penetrazione trasfigurante, ma anche della più pratica carità. E nell'universo dell'arte, di fronte a Vermeer e agli altri pittori di nature morte umane, di fronte ai maestri della pittura paesaggistica cinese e giapponese, di fronte a Constable e a Turner, di fronte a Sisley e a Seurat e Cézanne sta l'arte completa di Rembrandt."

Ad Huxley la mescalina aveva donato solo una sorta di sostituto della Quintessenza, qualcosa che a tratti lo aveva gettato sull'orlo della pazzia per il panico generato dal timore di essere sopraffatto dal Mysterium tremendum - infatti, egli definisce lo schizofrenico come "un uomo permanentemente sotto l'influenza della mescalina", alle prese con una realtà che lo terrorizza come se fosse la manifestazione di una malevolenza umana o perfino cosmica da combattere con la violenza omicida, la catatonia o il suicidio; in base ad alcuni studi (per dovere di cronaca, non accreditati dalla scienza ufficiale) ci sarebbe una similitudine tra la composizione chimica della mescalina e dell'adrenalina e il prodotto dell'ossidazione di quest'ultima, l'adrenocromo, sarebbe in grado di produrre sintomi simili a quelli causati dall'assunzione della mescalina; ne deriverebbe che, se l'uomo è potenzialmente in grado di produrre da sé, nel proprio stesso corpo, piccole quantità di sostanze dagli effetti psicotropi, allora la schizofrenia potrebbe avere alla base uno squilibrio chimico.

Ma, tornando ad Huxley, il paradiso artificiale dischiuso dalla mescalina lo aveva comunque affascinato e acutamente egli rilevò che questa sostanza, fra tutte, sembrava la più compatibile con il Cristianesimo. Ormai la pratica religiosa è perlopiù frutto di abitudine e conformismo e non sono in molti a cercarvi davvero la trascendenza dell'Io, e quei pochi spesso non la trovano nella preghiera, nelle buone azioni o negli esercizi spirituali: queste persone potrebbero trovare giovamento dalla mescalina, una sostanza che non provoca ebbrezza o sintomi similari, ma mantiene vigili e quieti e allo stesso tempo permette l'accesso a visioni (Brecce nel Muro) che non di rado coincidono con la percezione della presenza di Dio. Naturalmente, la scienza moderna ha creato numerosi altri modificatori della coscienza, ma molti possono essere assunti solo dietro prescrizione medica e gli altri sono del tutto illegali. "Per l'uso illimitato l'Occidente ha permesso soltanto l'alcol e il tabacco. Tutte le altre Brecce chimiche nel Muro sono etichettate Narcotici, e i consumatori non autorizzati sono tossicomani."

Nel nostro mondo si dà più valore alla comunicazione verbale che ad altri tipi di comunicazione e percezione. Il sistema educativo imperante crea individui che spesso non riescono mai, nel corso di una vita intera, a comprendere appieno il valore dell'esperienza diretta, non filtrata sempre e comunque dalle parole, dal racconto, da pre-giudizi di varia natura. Ed è un peccato, perché così facendo le persone si privano non solo di certe esperienze, ma anche non di rado della capacità di immaginarle; mentre lo scopo della nostra esistenza dovrebbe essere non quello di appropriarci di concetti astratti dalla dubbia utilità, ma (ove possibile) di verificare ciò che apprendiamo e di esplorare la nostra realtà interiore ed esteriore anche, perché no, al fine di migliorarla e così migliorare noi stessi. Questo è ciò che coloro che hanno avuto a che fare con le sostanze psicotrope hanno, più o meno, tratto dalla loro esperienza. Comunque si giudichi la loro scelta di vita, io credo che questo concetto di fondo sia giusto e condivisibile.

Le storie e i personaggi che gravitano attorno al mondo della psichedelia sono moltissime e non pretendo certo di essere esaustivo, ma nel tempo conto di proporne parecchie. Tra le altre cose, vorrei parlare più o meno diffusamente di Albert Hofmann, il ricercatore che sintetizzò l'LSD; dello psichiatra Stanislav Grof; del “padrino dell'LSD” Ron Stark; di Timothy Leary, naturalmente, colui che un giorno Nixon definì "l'uomo più pericoloso d'America", proprio a partire da quel fatidico primo incontro fra Huxley e Leary, avvenuto ad Harvard verso la fine del 1960, che doveva dare il via a un progetto di ricerca congiunto; e di Terence McKenna, “il Timothy Leary degli anni ‘90” che ci ha lasciato una quantità impressionante di testimonianze del suo pensiero, per esaminare le quali non mi basterebbe una vita intera. Ma, per cominciare, nel prossimo articolo ci concederemo una piccola digressione e faremo la conoscenza di uno scienziato italiano ingiustamente dimenticato, quel Paolo Mantegazza che ho citato in apertura e che ho potuto conoscere proprio grazie agli scritti di Giorgio Samorini.
CONTINUA

Gotico napoletano (Pt.1)

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“Il soprannaturale? E chi può parlarne con cognizione di causa? Chi può dire, sinceramente, se ci sia un limite fra quello che è e quello che pare? Chi ha ancora acquistato il diritto di distinguere la visione dalla realtà?” (Daniele Oberto Marrama, Il ritratto del morto)
Credo di dover riconoscere infinita stima alla giovane casa editrice Cliquotper avermi permesso di aggiungere un tassello fondamentale alla mia passione per la letteratura cosiddetta “weird” (o fantastica, se preferite). Un tassello che rischiava di andare perduto, un tassello tanto più importante in quanto scovato addirittura entro i confini del nostro paese, dissotterrato e riportato al suo splendore in quel capoluogo campano che tanta attenzione ha sempre riservato alle proprie leggende e alle proprie tradizioni. Daniele Oberto Marrama nacque a Napoli nel 1874 e, come ci riferisce Gianfranco De Turris nella sua ottima prefazione, prestò per anni la sua penna a diverse testate giornalistiche, fra cui Il Mattino e Il Giorno, sulle cui pagine gestiva uno spazio dedicato a recensioni artistiche e letterarie. Fu inoltre redattore capo de La Settimana, rivista letteraria fondata da Matilde Serao alla quale avremo modo di accennare ancora in seguito. Avevate mai sentito nominare Daniele Oberto Marrama? No? Cosa rispondereste se vi dicessi che alcuni dei suoi racconti non hanno nulla da invidiare a quelli dei grandi maestri del fantastico?
Daniele Oberto Marrama non è stato in realtà uno specialista di genere (come può essere stato un Edgard Allan Poe) ed è questo probabilmente il motivo per cui non si è mai sentito granché parlare di lui. Tra le sue opere, Gianfranco De Turris ci ricorda la raccolta di versi in dialetto napoletano Sunettielle ’e Storia Sacra (1906), il pamphlet Spade e spine: considerazioni sul problema militare (1908), il racconto Bianca Luna e Piuma Nera (1909), la raccolta Il re di Gerusalemme: Novelle gaie (1909) e il qui presente Il ritratto del morto: racconti bizzarri (1907): unica concessione di Marrama alla letteratura fantastica, è un’antologia composta da soli otto, brevissimi, racconti, che «in parte attingono dalla tradizione delle storie di fantasmi di Dickens e M.R. James, ma che spesso - scrive De Turris - deviano verso inediti e fantasiosi sentieri e il cui motore più forte è l’italianità delle ambientazioni e la prosa energica e del giornalista napoletano che li ha scritti». Se dubitate che sia possibile ambientare storie fantastiche, zeppe di fantasmi, tenebrosi vampiri e spaventosi licantropi, nelle assolate coste campane anziché in nebbiosi castelli scozzesi, pensate che, ben 150 anni prima di Marrama, lo scrittore inglese Horace Walpole aveva scelto il nostro paese per mettere in scena le vicende descritte in uno dei più celebri romanzi gotici, Il castello di Otranto (recensito qui). Daniele Oberto Marrama decide di rimanere in Italia, affidando a personaggi italianissimi, e luoghi italianissimi, il compito di dare vita alle sue storie. Solo talvolta Marrama cede al fascino “esotico” di paesi i cui echi riempiono i giornali, e così nei suoi racconti ritroviamo anche lontani richiami alla Francia di Maria Antonietta e alla Chicago del grande incendio del 1871, avvenimento che, quasi certamente, fu d’ispirazione al racconto L’uomo dai capelli tinti

Una raccolta di otto racconti weird, dicevamo, pubblicati per la prima volta sulle pagine della Domenica del Corriere agli inizi del Novecento, successivamente raccolti in un unico volume e impreziositi da una prefazione della già citata Matilde Serao la quale, affascinata dallo stile di Marrama, a caldo, subito dopo la lettura, scrisse: “Colpire l’immaginazione non di un semplice e ingenuo lettore, ma quella di uno scrittore, immaginazione fredda, diciamo così, immaginazione esperta, e colpirla fino a un’illusione completa; colpire l’immaginazione di uno scrittore che, in venticinque anni di lavoro d’arte, in trenta volumi di romanzi o novelle, ha scritto, forse, due novelle fantastiche, o, forse, una, e che è stato, quindi, un buon servo della realtà e si vanta di questa sua servitù; colpire l’immaginazione di uno scrittore che ha venerato il fantastico, solo in Edgar Poe: ebbene, significa avere scritto con una intensa verità di scopo, con una impetuosa sincerità di visione, con una indicibile efficacia d’arte.” 

Il titolo dell’antologia prende il nome da uno dei racconti in essa presenti: Il ritratto del mortoè un’originalissima storia di révenant che ricorda vagamente un racconto di Stefan Grabiński di cui avevo parlato qualche mese fa sul blog. Ricordate, vero, Stefan Grabiński, il “Poe polacco” ossessionato da treni e ferrovie al punto dallo scriverci sopra un’intera raccolta di racconti? Come in Grabiński, anche ne Il ritratto del morto il treno è viatico di entità trascendentali, fantasmi e strane presenze. Come è stato per gli engrammi di Grabiński, gli echi di momenti passati che riaffioravano nel presente, anche qui i tragici avvenimenti del passato sembrano restare intrappolati nelle pieghe del tempo attendendo l’occasione propizia per tornare indietro, stavolta attraverso una fotografia, il ritratto citato nel titolo. 
Infine, come spesso avviene per Grabiński anche il protagonista de Il ritratto del morto pare una sorta di alter ego del suo Autore: Guido Rambaldi è infatti un articolista, uno di quei reporter che vivono praticamente con la valigia sempre pronta davanti all’uscio di casa. Le similitudini però si fermano qui, perché quello di Marrama si rivela un più classico racconto di fantasmi. Un dispaccio da Foggia avverte Rambaldi di un disastro ferroviario sulla linea di Napoli: uno scontro gravissimo allo sbocco di un tunnel, vagoni incendiati e ammucchiati l’uno sull’altro così come i corpi delle decine di vittime. "Ma uno spettacolo, soprattutto, mi colpì. In disparte, lontano dagli altri cadaveri, cinto dai frantumi del vagone postale, con le braccia distese e le mani dischiuse, quasi a proteggere ancora, dopo morto, i pacchi suggellati, che alcuni carabinieri, in attesa del pretore, piantonavano, giaceva, supino, un impiegato del personale viaggiante, l’addetto alla posta. Giaceva in attitudine composta, tranquillo, come se dormisse; la luce d’una fiaccola, che si proiettò su di lui, ne rilevò la serenità del volto, pallido, affilato, su cui i baffi neri disegnavano una macchia oscura, quasi lugubre. Solo, sulla fronte, era una ruga, diritta e profonda come la cicatrice d’un colpo di spada: in quella ruga soltanto era tutto il supremo dramma dell’ultimo minuto, il dolore di morire, il rimpianto di lasciare, forse, i figli.". Guido Rambaldi non resiste al fascino di quella povera vittima, di “quell’oscuro eroe”, e decide in un batter d’occhio di fissare quel volto in una lastra fotografica affinché possa venire serbato, affinché non venga dimenticato. Un gesto semplice e spontaneo che un anno dopo, su un altro treno, su un’altra linea, verrà ricompensato, quando al generoso giornalista verrà offerta un'insperata possibilità di salvezza. «Vidi allora, per un istante, nella mezza luce del vagone, un uomo, dritto, a un passo da me. Quell’uomo aveva le mani distese, come per difendere qualcuno da un pericolo, e il viso pallido era rivolto a me…»

Gotico napoletano (Pt.2)

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Se ne Il ritratto del morto è la riconoscenza ad aprire una porta tra il mondo reale e il mondo del sovrannaturale, ne Il Natale di Hans Boller la chiave sarà il desiderio o, meglio, un desiderio insoddisfatto veicolato da uno degli oggetti-simbolo del gotico: un medaglione. Anche in questo caso, come nel precedente e in altri racconti, la vicenda viene presentata dalla viva voce del protagonista che ricorda avvenimenti passati, un espediente che sicuramente (rassicurandoci sulla sorte di chi narra) smorza un po' la suspense e tuttavia trasmette perfettamente quell'atmosfera gotica e quella sottile vena malinconica che, a mio parere, sono il vero punto di forza della prosa di Marrama. 
Siamo nella Francia del 1789, che di lì a poco sarà il palcoscenico degli ultimi tragici giorni di Maria Antonietta. Protagonista è Hans Boller, uno dei “più valenti miniaturisti di Francia” che, ospite del conte Du Marsy de Yvonac in un castello della lontana Bretagna, riceve una missiva nella quale Sua Maestà la Regina lo avverte del suo desiderio di riceverlo a corte “per presentarlo a una sua nuova e giovane damigella d’onore, Lucia de Champdelys”, alla quale egli dovrà eseguire un ritratto in miniatura da inserire in un medaglione. Una serie di sfortunate vicissitudini impediscono però al nostro di partire e, quando finalmente il momento adatto giunge, il vento di cambiamento che ormai spira da Versailles lo dissuade dal suo proposito. “Quanto a lungo, mi aveva aspettato la giovane damigella d’onore! E che cosa era avvenuto di lei, più tardi? Dove si trovava, adesso? Era fuggiasca? Era a Parigi? Viveva ancora?”.
Hans Boller comincia a tormentarsi con questi pensieri finché, giunta la notte di Natale, non succede un fatto strano che lo segnerà per sempre: quel medaglione, tanto desiderato da quella giovane e misteriosa damigella, verrà infine realizzato. “Un giorno, forse, i miei nipotini crederanno che il vecchio Hans Boller abbia vaneggiato: un giorno crederanno che io abbia sognato. Anch’io l’ho creduto, allora: e anche più tardi, ripensando alla cosa tragica e inverosimile, ho creduto, talvolta, di essere stato vittima di un’allucinazione…” 

Ed è ancora un medaglione ad essere al centro un altro dei racconti di Daniele Oberto Marrama: Il medaglione, che questa volta dà anche il titolo al racconto oltre ad essere l'oggetto del contendere, è al centro di un caso di follia omicida scatenata da ciò che viene definita “trasmigrazione delle anime”, maniera originale per introdurre il concetto di reincarnazione. Questo è il primo dei racconti di Marrama nel quale viene utilizzato l'espediente dell'ambientazione in una clinica psichiatrica per giustificare una storia dai contorni incredibili: un meccanismo efficace anche se certamente non inventato dallo scrittore napoletano, in quanto già presente in innumerevoli racconti di scrittori a lui contemporanei. "Noi siamo vissuti altre volte, e serbiamo dei vaghi ricordi, delle reminiscenze sbiadite di quelle passate vite. A volte, un fatto imprevisto ridesta in noi come una memoria sopita; sentiamo che qualche cosa si risveglia in noi, qualche cosa di lontano e d’incerto che, a poco a poco, si ricostruisce. Non è tutto un edificio che risorge: ma ne vediamo già tanto da poter rievocare il resto e immaginare l’insieme… E così ci riappare la vita che vivemmo nei secoli morti…".

Ed è proprio la scoperta di un medaglione il fatto imprevisto che sconvolge improvvisamente la vita del protagonista della nostra storia, che all'inizio troviamo ricoverato nella clinica psichiatrica del dottor Salenti in preda ad evidenti manie di persecuzione; un medaglione in cui egli si era imbattuto tempo addietro nella bottega di un antiquario, un medaglione del XVIII secolo, una miniatura finissima di un pittore sconosciuto. Forse la stessa che Marrama, anche se in maniera non esplicita, decise di utilizzare nel racconto precedente...? 
"Un viso di donna, un ovale dolcissimo, soffuso di un opaco pallore di alabastro: il pallore di una lampada in cui arde una sottile fiammella. Due occhi azzurri, sereni, temperavano la mestizia di quel viso, e una chioma ondulata, sapientemente incipriata, svolgeva le sue anella sulla breve fronte di avorio. Ma quel che era, soprattutto, vivo in lei, era la bocca: una piccola bocca carnosa, dalle labbra sanguigne, aperte a un sorriso così strano, in quel volto, come sarebbe strano un trionfante fiore purpureo sopra un abito di lutto grave […] E, d’un subito, sentii che qualche cosa risorgeva in fondo all’anima mia, e che un’immagine, sbiadita dal tempo – un tempo assai lontano – ritornava, a poco a poco, emergendo dal fondo scuro delle cose morte; ed era come lo specchio in cui l’immagine del medaglione si riflettesse. Io sentii che quella immagine era già dentro di me, che mi era familiare, che altra volta, in un’altra vita, avevo conosciuto quell’ovale così dolce, e quegli occhi azzurri e quelle labbra sanguigne. Dove? Quando?" 
Dove o quando non è importante. Ciò che è importante è la presenza di un oggetto in grado di risvegliare il ricordo di una vita precedente, un corto circuito temporale che sconvolge irrimediabilmente la sanità mentale di un uomo che, com'era forse prevedibile, si ritrova a dover fare i conti con la presenza di fantasmi di cui non era consapevole. Ma sono solo i suoi fantasmi a tormentarlo, oppure c’è dell’altro? Una volta che certe porte sono state aperte, non c’è modo di impedire a ciò che si trova aldilà di attraversarne le soglie. Chi è quindi quell’essere dalle mani scarne che sopraggiunge nel buio della notte per (re)impadronirsi del suo medaglione?

Senza spostarci di un solo metro, passiamo ad analizzare il caso di un secondo inquilino della clinica psichiatrica del dottor Salenti: “Il ricoverato era un capitano di marina mercantile, sopravvissuto per puro miracolo allo scoppio delle caldaie del suo bastimento. […] Egli scampò la vita; ma, dopo una lunghissima malattia, impazzì. E, nel delirio della sua follia, credette di aver fatto una grande scoperta, destinata a rivoluzionare il mondo: una scoperta per cui i bastimenti avrebbero solcato i mari senza aver bisogno di caldaie, né di macchine, né di motori.” Di questo nuovo caso ci riferisce il racconto La scoperta del capitano, nel quale si teorizza la possibilità che il pensiero, le idee, i ricordi possano essere sottratti a un individuo. Frammenti di memoria che non solo possono essere estratti dalla mente umana, ma addirittura essere trasferiti, immutati, in un luogo diverso. Si direbbe quasi che Daniele Oberto Marrama abbia previsto con cent'anni di anticipo la diffusione delle attuali tecnologie di archiviazione dei documenti e le teorie dei futurologi sulla memoria eterna: la memoria di un individuo paragonata ad una SD card o ad una chiavetta USB, volendo azzardare un facile parallelismo. "Un fremito mi scosse: non era, non doveva essere, in uno di quei cervelli, rinchiuso il segreto rubato a me? E dove, dove meglio che in un cervello poteva celarsi ciò che era stato succhiato da un altro cervello?". In realtà la scoperta del capitano, quella i cui dettagli sono andati perduti, doveva probabilmente basarsi sul principio dell’energia umana che sostituisce il vapore: precognizione, questa, di uno scenario diametralmente opposto a quello in cui si è realmente evoluta la nostra civiltà, nella quale l’energia umana ha assunto negli anni un ruolo sempre più insignificante rispetto a quella del vapore (qui da intendersi come tecnologia in senso lato). Possiamo quindi sostenere che Marrama riuscì a gettare un occhio nel futuro? Probabilmente sì, ma non in questo stesso futuro. Forse in un futuro alternativo, chissà. 
Probabilmente Marrama intuì qualcosa, ma evidentemente non diede abbastanza credito alla possibilità di una diffusione così invadente della tecnologia nelle nostre vite. Come biasimarlo? Resta però il fatto, innegabile, che La scoperta del capitanoè un racconto estremamente avanti rispetto ai suoi tempi, oltre che un esercizio perfettamente riuscito nella misura in cui riesce nel non facile intento di amalgamare fra loro concetti contrastanti e unici per l’epoca in cui fu scritto. Un’epoca nella quale il fantastico era per lo più popolato da creature terrificanti, magari immateriali, ma con una loro innegabile fisicità.

Gotico napoletano (Pt.3)

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In chiusura del post precedente dicevamo che Marrama visse in un’epoca nella quale il fantastico era per lo più popolato da creature terrificanti, magari immateriali, ma con una loro innegabile fisicità. Proprio una di queste creature la ritroviamo nel racconto Una terribile vigilia, ancora una volta ambientato in un ospedale, seppure del tipo “tradizionale”, diversamente da quello del più volte citato dottor Salenti. “Un giorno, ai primi di dicembre, giunse uno sventurato, un pastore che era stato morsicato da un lupo arrabbiato. Il professore Chimenti, che dirigeva l’ospedale, lo presentò alla sua scolaresca e a noi, suoi coadiutori, come un caso importantissimo, tanto più che non c’era speranza di salvarlo, e ci parlò delle teorie di Pasteur, che allora erano recentissime, del virus e del tempo in cui si svolge la sua azione fatale e della orrenda agonia che è serbata a tutti gli infelici che non ricorsero in tempo al soccorso della scienza.” Il lupo mannaro è stato (ed è) uno dei personaggi più sfruttati dalla letteratura, e già all’inizio del secolo scorso fiumi d'inchiostro erano stati versati per narrarne la leggenda (basti pensare a Le Metamorfosi di Ovidio per farsi un'idea di quanto può essere antico l’approccio a quest'argomento). Tuttavia credo di non sbagliarmi dicendo che a Daniele Oberto Marrama andrebbe riconosciuto il gran merito di essere stato il primo a scrivere di lupi mannari nel nostro paese, anticipando di una decina d’anni il ben più celebre Male di luna di Luigi Pirandello

Il protagonista del racconto, assistente del primario, si ritrova a dover trascorrere la notte di Natale nel suddetto ospedale nei giorni in cui sono stati fissati alcuni importanti quanto imprevisti lavori di ristrutturazione. Dovendo pertanto sgombrare alcuni settori, i (pochi) ricoverati vengono trasferiti in altri reparti. "Non è la cella che gli era destinata, la solida cella ben chiusa e ben garantita… Non è la cella che occorre per lui, ora specialmente che la cosa terribile è cominciata…". Inutile dire che anche il nostro protagonista deve rassegnarsi a trascorrere la notte in un alloggio di fortuna, che sfortunatamente per lui si trova a pochi passi dalla stanza, provvisoriamente adattata a cella, in cui è stato isolato l’idrofobo. "Ma nello stesso tempo la candela si spense. Un soffio di vento, come venuto da qualche altra porta spalancata nel corridoio, mi sfiorò il viso e mi fece sussultare. Quale porta poteva essersi aperta, se tutte le celle erano disabitate? Tutte… tranne una". Non racconterò altro, perché Una terribile vigilia è un racconto da leggere per conto proprio, meglio se di sera, nella solitudine della propria stanza. Il terrore è assicurato e, ve lo garantisco, non potrete fare a meno di guardarvi attorno, nel buio, con apprensione. Un terrore adrenalinico che non vi lascerà in pace fino all’ultima parola. Controllate il calendario e assicuratevi di non aver scelto una notte di luna piena prima di immergervi nella lettura: magari sono sciocchezze, ma è sempre meglio non rischiare. 

Poteva esserci spazio per il lupo mannaro in questa antologia e nemmeno un angolino per la più celebre creatura horror di tutti i tempi? Certo che no! Ed ecco quindi che troviamo un vampiro ne Il Dottor Nero, forse il racconto più sentimentale (nell'accezione sia positiva che negativa del termine) dell'intera raccolta. D'altra parte era inevitabile, perché la letteratura vampirica si regge su dolorosi contrasti: luce e buio, bene e male, vita e morte… 
Da una terrazza con vista sulle insenature di Capri da un lato, e sul Monte Tiberio dall’altro, il protagonista rievoca fatti avvenuti diciotto anni prima in un lontano castello, l’antica e grigia rocca di Greencastle nella Contea di Kildare, in Irlanda. L'Autore sta pertanto inserendo, per la verità un po’ forzatamente, un ambiente nostrano in un più classico scenario dell’orrore, ove la presenza di un vampiro è teoricamente più credibile, per non dire giustificata. Il Comandante O’Nell, narratore della vicenda, racconta ai suoi ospiti di quando, sposata Laura Cavalcanti, una giovane italiana, decise di trasferirsi con la giovane nella sua residenza irlandese. “Temevo che la solitudine e la severità del paesaggio, grandioso ma triste, e l’aspetto cupo di Greencastle, tutto cinto di edera fosca, dovessero spaventare la piccola italiana, nata nell’azzurro e nel sole: ma quando, dopo un viaggio di tre o quattro ore in carrozza, attraverso balze scoscese e boschi di abeti e di pini, i dintorni del vecchio castello apparvero, in un grigio crepuscolo di settembre, Laura ne rimase colpita come da un’apparizione fantastica e batté le mani esclamando: «Com’è bello! Com'è solenne! E io dovrò diventare la castellana di questi boschi e di queste torri!»”. L’entusiasmo cedette tuttavia il posto a qualcosa di ben diverso nel momento in cui la giovane posò gli occhi su un ritratto molto particolare, nascosto in una soffitta sotto quintali di polvere: "Era il ritratto di un giovane trentenne; un viso magro, affilato, pallido, incorniciato da una barba nera. Un viso i cui occhi turchini, acuti come due lame, pareva che brillassero. Era vestito tutto di nero, con un berretto nero in testa, alla foggia dei medici del XVII secolo e, particolare bizzarro, stringeva al petto con la bianca mano sottile – una mano cerea, magra, fantastica – un vampiro dalle ali aperte. Era un simbolo? Era una stranezza dell’effigiato, o del pittore? Chi sa!". Marrama fa propria l’immagine del vampiro più tradizionale, quella che viene alla mente pensando al celebre Dracula di Bram Stoker: una figura alta e robusta, vestita in abiti scuri, dalla carnagione pallida e dalle mani sottili. Al più classico mantello, tipico delle prime rappresentazioni cinematografiche del vampiro, Marrama preferisce un berretto in stile fiorentino, aggiungendo quindi un pizzico di italianità al meno “italico” dei suoi racconti. Anche lo svolgimento non si discosta molto dalla tradizione e, senza entrare nei dettagli, possiamo accostarlo in più punti al classico stokeriano. Ad esempio, possiamo sovrapporre la figura di Laura a quella di Lucy Westenra, almeno fino al punto in cui il vampiro non fa irruzione nella sua camera da letto (avvenimento che Marrama ci lascia però soltanto immaginare, sfruttando astutamente le reminiscenze del romanzo del suo più celebre collega). Se il racconto di O’Nell ben presto giunge al suo sinistro e mesto epilogo, Il Dottor Nero ha però un finale quasi aperto, uno spiraglio nel quale noi stessi possiamo cercare un significato diverso da quello più ovvio, o meglio la conclusione che giudichiamo più opportuna. "Ed egli mi riapparve, un giorno: mi riapparve qui, nel tuo castello, in quel ritratto che vedemmo insieme, quel fosco ritratto di uno sconosciuto". La vera novità de Il Dottor Neroè forse possibile coglierla in queste parole. Il berretto di foggia medicea, il cognome di Laura (Cavalcanti), anch’esso di chiara origine fiorentina, ci permette un collegamento tutt’altro che azzardato con gli altri racconti, in particolare con Il medaglione, nel quale, come abbiamo visto, passato e presente si confondono attraverso meccanismi di narrazione decisamente arguti.

Gotico napoletano (Pt.4)

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L’uomo dai capelli tinti ci propone invece un protagonista alienato e, in definitiva, vittima di se stesso, tutte caratteristiche che permettono di accostarlo sia al Tomasz Odonicz de Lo sguardo che al protagonista senza nome del grabińskiano Saturnin Sektor. Ma forse, a pochi mesi di distanza dal mio speciale su Stefan Grabiński (che trovate qui), e quindi con la mente ancora fresca, queste associazioni per me sono semplici quanto poco opportune. Ad ogni modo il dottor Arsenius, il nostro uomo dai capelli tinti, è preda di uno scherzo assurdo generato in qualche piega remota del suo stesso cervello, uno scherzo che di pagina in pagina assumerà contorni sempre più surreali, fino ad esplodere in un finale sorprendente quanto magnifico nella sua ideazione. "La polizia internazionale è in movimento per rintracciare un pericoloso anarchico, che a Chicago si faceva chiamare John Willis, e che è accertato essere l’autore del terribile incendio all’Union Theatre, dove morirono tante persone, dell’alta borghesia e dell’alto commercio, alcune settimane or sono: incendio che sinora si credeva accidentale. Il Willis è sparito da quel tempo e si ha ragione di credere che si trovi in Europa. I suoi connotati sono: statura alta, complessione magra, quasi fantastica, mani sottili, scheletriche, occhi grigi. Un neo sulla tempia sinistra. Il riconoscimento, però, è reso difficile da una circostanza: la sua chioma, ch’era abbastanza imbiancata, deve essere stata tinta, e abilmente.".
Per quale motivo il dottor Arsenius si ritrova a sospettare di essere lui stesso 'quel' John Willis? È sufficiente quel generico identikit riportato dai giornali per arrivare a convincersi, giorno dopo giorno e in misura sempre maggiore, di essere braccato dalle autorità? Come se qualche elemento a lui ignoto si stesse facendo beffe della sua coscienza, alterando e pilotando a piacimento la sua percezione delle cose, nel giro di breve tempo il dottor Arsenius si ritrova immerso in un incubo senza apparente via d’uscita. Tutto sembra giocare contro di lui. Anche Isacco Brown, proprietario della bottega di tinture nella quale il nostro si è sempre servito, sembra far parte del complotto, se di complotto si può parlare. Il vero problema è la memoria. Dottor Arsenius oppure John Willis? Com'è possibile non essere certi nemmeno della propria identità? 
La risposta forse è da ricercarsi altrove, magari tra le righe di un altro racconto, quel La scoperta del capitano che, per primo, aveva teorizzato il concetto di memoria cancellabile e/o trasferibile. Siamo quindi ancora da quelle parti? La risposta l’avremo naturalmente solo nelle ultime righe. "Ma egli sentiva che qualche altra cosa si andava maturando nell’animo suo, qualche cosa ancora più terribile: un’idea che gli era balenata alla mente in una notte insonne e che egli si era affrettato a seppellire sotto una folla di ragionamenti ammucchiati in fretta, come i mobili di una barricata improvvisata per tagliare la via a un nemico. Pensò di distrarsi, di dimenticare […] ma l’idea, la nemica formidabile e insidiatrice, lo aspettava, imboscata nelle pagine di un piccolo libro: un’acuta e originale monografia d’uno psichiatra russo su certi casi di allucinazione: e un nome balzò fuori, come in agguato, da quelle pagine, e lo colpì, in un lampo di luce livida che gli fiammeggiò nel cervello.". 

Chiude l’antologia l’unico racconto veramente anomalo del gruppo: Ben Haissa. Anomalo perché, a differenza dei sette racconti sinora descritti, è l’unico a non contenere alcun vago riferimento, diretto o indiretto, agli altri racconti. "Fui preso, allora, lo confesso, da un accesso di viltà: avrei potuto gridare, strepitare, far accorrere gente, ma mi parve che le mie facoltà volitive fossero state d’un tratto spezzate, che io non potessi, che io non sapessi far altro che gettarmi sul letto, con le mani sugli orecchi, per non sentire più nulla, né rumori, né gemiti, né gridi, né, soprattutto, quella orribile, mostruosa risata, che pareva un ghigno diabolico.". Queste parole, così simili alle parole che Marrama ha già messo in bocca ad altri suoi protagonisti, potrebbero sembrare il frutto del delirio di un folle, ma la realtà, lo scopriremo solo alla fine, è ben diversa e in un certo qual modo assolutamente originale. Giunti all’ottavo racconto avevamo pensato di esserci ormai fatta una chiara idea della prosa di Daniele Oberto Marrama, avevamo immaginato di poter prevedere, conoscendo la tecnica dell'Autore, lo sviluppo di quest'ultimo racconto, rimanendo solo nel dubbio, peraltro trascurabile, di quale tipo di finale tra quelli già visti lo avrebbe degnamente concluso. Al contrario, anche Ben Haissa si rivela un racconto sorprendente e tutt'oggi, nonostante il tempo trascorso da quando fu scritto, mantiene intatta la sua freschezza originale. La storia è incentrata su un uomo, ospite per una notte in una solitaria camera d’albergo, il cui sonno è tormentato da una voce femminile proveniente dalla stanza accanto, una voce femminile intenta a cantare una ninna nanna ad un bambino. L’iniziale disappunto cederà il posto all’angoscia quando dall’altra parte del muro gli avvenimenti inizieranno a prendere una piega inaspettata. "Ma subito dopo trasalii al grido del bimbo; quel grido aveva qualche cosa di sinistro, direi quasi di cosciente: pareva che la creaturina, ancora ignara di ogni cosa della vita, vedesse qualche cosa di spaventoso, di terribile. Che fare, mio Dio? Come intervenire? Come evitare quello che, fino a quel momento, forse, non era ancora avvenuto?". Non vi racconterò il finale, ma credo di potervelo fare intuire dicendovi che Daniele Oberto Marrama, dalla sua piccola Napoli di inizio Novecento, aveva anticipato di cinquant’anni le vicende narrate in uno dei più grandi successi di Alfred Hitchcock

Questa lunga recensione termina qui. Non era mia intenzione dilungarmi così tanto quando, qualche settimana fa, decisi di affrontare una lettura entusiasmante come quella di questa antologia della Cliquot. Anche perché, tenendo conto della sua lunghezza complessiva (virtualmente meno di un centinaio di pagine), sono riuscito a scrivere un articolo che è quasi più lungo del volume al quale esso è dedicato. Come già dissi in occasione dello speciale su Grabiński, “spesso si ricercano le novità letterarie, il che è giusto e sacrosanto, ma ci sono vere e proprie gemme nascoste già lì, a portata di mano, che meriterebbero altrettanta attenzione”. Questa cosa è ancora più vera per Daniele Oberto Marrama, un personaggio praticamente sconosciuto che una piccola realtà editoriale ha scovato e riproposto, restituendo il giusto ruolo ad un pioniere del fantastico del quale, da italiani, dovremmo essere orgogliosi.

Hell's Bells diventa un ebook

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Ero piuttosto indeciso quest'anno su come affrontare l'annuale appuntamento con la notte delle streghe. L'anno scorso avevo recensito un film, l'anno prima mi ero concentrato sul folklore, l'anno prima ancora... non mi ricordo più. Cosa fare quindi questa volta per non ritornare accidentalmente su argomenti già trattati in precedenza? Semplice: ho deciso di ritornarci sopra volutamente.
L'idea mi è venuta dopo aver letto alcuni dei commenti giunti qui in questo blog nelle scorse settimane, commenti nei quali mi veniva proposto di impacchettare alcuni dei miei post e realizzarne degli ebook.
Ammetto che solo fino a poco tempo fa non avrei mai pensato a una soluzione di questo genere ma, adesso che la pulce mi è stata infilata nell'orecchio, l'idea comincia a premermi nel cervello, solleticando non poco la mia fantasia. 
Prima però di mettermi a rielaborare progetti più complessi (come la lunga saga sugli Yellow Mythos, tanto per dirne una), pensavo di tentare un esperimento su qualcosa di più semplice, qualcosa che mi permettesse di ottenere un risultato decente senza perderci sopra troppo tempo. La mia scelta è quindi ricaduta su un vecchio racconto che era apparso qui sul blog diversi anni fa, addirittura nell'era Cenozoica di Obsidian Mirror, quando da queste parti non capitava nessuno neanche per sbaglio. Il racconto in questione l'avevo intitolato "Hell's Bells", giocando un po' a mescolare il titolo della famosa canzone con il nome di alcuni dei protagonisti della vicenda narrata. Il titolo di allora l'ho ovviamente mantenuto: in fondo, cosa avrei potuto trovare di meglio?

Ho detto "senza perderci sopra troppo tempo"? Povero illuso che ero! La realizzazione di questo ebook mi è costata un paio di settimane e un bagno inenarrabile di sudore! Mica avevo idea che fosse così complicato. Innanzitutto ho dovuto aggiustare il testo che, riletto adesso, mi appariva colmo di svarioni dovuti alla mancanza di un editing anche basico (per non parlare della mia scrittura che, con gli anni, mi sono accorto essersi evoluta). Ora un minimo di editing è stato fatto, e di questo devo ancora una volta ringraziare la solita fidanzata che, con infinita pazienza, si arrende a tutte le mie richieste più assurde. Il testo originale è stato inoltre ampliato: ciò è stato fatto per approfondire alcuni punti sui quali la volta precedente avevo sorvolato causa vincoli di spazio. Non è stato ampliato di molto, in realtà, perché a mio parere la vera forza di questo racconto sta appunto nella sua brevità. Mi sono anche divertito a progettare una copertina, che è quella che vedete qui sopra: quella è stata la parte più lunga perché, da pignolo quale sono, nelle mille bozze che ho realizzato c'era sempre un particolare che non mi tornava. Infine, il dramma dell'impaginazione e della formattazione. Come fare? Non sapendo né leggere né scrivere mi sono affidato a Calibre, uno strumento che ho trovato on-line e che, non senza difficoltà, mi ha permesso di arrivare ad un risultato che, incrociando le dita, dovrebbe essere soddisfacente. Ho detto "dovrebbe" perché non sono riuscito a verificare il funzionamento del formato MOBI (non avendo un reader adeguato). Al limite, se sarete così gentili da farlo, mi direte voi se tutto quadra sul vostro dispositivo (per quanto riguarda invece il formato PDF e il formato EPUB sono invece decisamente più sereno). Già che c'ero, e poi concludo, l'ho pubblicato anche su ISSUU, giusto per non farmi mancare niente. Se poi qualcuno tra di voi avesse qualche ulteriore dritta da darmi, sarà per sempre mio creditore.

Dove si può scaricare "Hell's Bells"? Ho pensato di creare una pagina statica apposita che ho chiamato DOWNLOAD. Trovate tutto lì. E chissà mai che un giorno, in quella pagina, non mi venga voglia di aggiungerci qualcosa? 
Che altro dire a questo punto? Mi sembra di aver detto tutto, no? La sinossi! Che stupido! Come si può pensare di presentare un ebook senza spendere due parole introduttive? Si tratta di un racconto piuttosto forte, lo dico fin d'ora, in quanto narra le vicende di un serial killer di bambini che compì i suoi delitti nell'Inghilterra di mezzo secolo fa. I fatti, nel racconto, sono narrati in prima persona dallo stesso omicida (e vi assicuro che certe scene non sono state affatto facili da scrivere). Il particolare se vogliamo più inquietante, come suggerisce la copertina stessa, è che "Hell's Bells" è stato ispirato da una storia realmente accaduta. 
Non posso dire davvero nient'altro senza spoilare, perciò mi fermo qui. Se qualcuno di voi per caso l'avesse già letto in passato, quando "Hell's Bells" era ancora solo un post, capirà perfettamente cosa intendo. Non mi rimane che auguravi buona lettura e buon Halloween!

Tikkun

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Ecco, ci sono ricascato. Nel proporre sul blog una novità, intendo. Anche se ormai sono trascorsi due mesi abbondanti dall’anteprima di Locarno, si può dire che siano ancora in pochi ad avere visionato “Tikkun”, lungometraggio del regista israeliano Avishai Sivan.
Locarno mi ha regalato il mio primo film israeliano, e questo mi pone di fronte alla doppia difficoltà di affrontare un regista che non conosco e di addentrarmi in una cultura a me semisconosciuta come quella ebraica. Normalmente, un film come questo lo si può approcciare in due modi, identificandone i temi portanti (e gli archetipi) e cercando una sua collocazione all'interno della filmografia del regista. In questo caso, il primo metodo è insufficiente e il secondo non mi è possibile, anche perché ho letto che “Tikkun” sarebbe il secondo capitolo di un’ideale trilogia ambientata nel mondo dell’ortodossia ebraica inaugurata nel 2010 con “The Wanderer” (presentato proprio quell’anno alla Quinzaine des réalisateurs).
Inoltre questo è uno di quei film (sarà un caso) il cui reale significato sembra voler continuare a sfuggirmi. Ogni premessa a cui giungo a ogni snodo della trama mi porta a una conclusione, ma anche alla conclusione opposta. Certamente è un mio limite, ma immagino di non essere l’unico a vedere nelle tematiche affrontate una certa ambiguità di fondo che, di certo, giova al film. Descrivere quello di Avishai Sivan come un film religioso sarebbe fuorviante, ma nemmeno del tutto errato. E non intendo con questo che voglia trasmettere chissà quale morale religiosa, ma (banalmente) che sfrutti tanti e tali simboli religiosi (la cavalletta/locusta, il coccodrillo, il cavallo, la nebbia…) da provocare una sorta di corto circuito nello spettatore (o perlomeno per me è stato così). È chiaro che non poteva essere altrimenti, dato che “Tikkun” è ambientato nel mondo dell’ortodossia ebraica: il film narra la storia di Haim-Aaron ma anche quella di suo padre e, di conseguenza, quella di un’intera comunità le cui radici sono ben salde nella religione, una religione legata a una tradizione biblica millenaria.
Nel quartiere di Mea Shearim, un microcosmo soffocante e tetro, Haim-Aaron è studente di una scuola Yeshiva. Il giovane viene considerato molto dotato ma, sotto la superficie, le cose sono ben diverse da come appaiono.
Bastano infatti pochi minuti per rendersi conto che egli sta facendo progressi nell’intelletto ma non nella coscienza e nemmeno nel cuore, ove regna invece la più grande confusione. La sua, per farla breve, è una dedizione più di forma che di sostanza. Che cosa sono i suoi digiuni prolungati se non una maniera gratuita di mortificare quello che viene considerato il tempio di Dio? Lo si capisce bene in uno dei dialoghi chiave del film, quello in cui Haim-Aaron confessa al fratello minore di odiare il suo corpo. Se il corpo è il mezzo attraverso il quale servire Dio ed esprimergli amore, che significato ha sentirsi nemici del proprio corpo? 
La Legge impone di essere consapevoli del proprio ruolo, perché chi non è ciò che dovrebbe essere incorrerà nella maledizione divina. C’è dunque un evidente rapporto di causa ed effetto fra la ribellione di Haim-Aaron (esplosa nel modo più ovvio per un giovane: attraverso una banalissima eccitazione sessuale) e il suo collasso. Haim-Aaron passa poi dal coma alla morte. O no? 
Ognuno potrà farsi una sua opinione, ma che il ragazzo nel film muoia davvero e poi risorga o che non muoia affatto in fondo è solo un dettaglio. La morte è la metafora di qualcosa (la tentazione, il dubbio, la perdita della fede) che trasforma un ragazzo prodigio in nemico della comunità e pecora nera della famiglia. 

Nel mondo di Haim-Aaron non esistono mezze misure, e non è certo un caso che il film sia interamente girato in bianco e nero. Dunque Haim-Aaron resta (o ritorna) fra i vivi. Come il prosieguo del film sembrerebbe suggerire, questa seconda occasione potrebbe essere il frutto del peccato di suo padre, che sfida le leggi divine per strapparlo alla morte, oppure un segno della grazia divina – dalla cacciata dall’Eden in poi, lo spietato Dio della Bibbia ha sempre reiterato all’umanità la vita in cambio di un possibile pentimento che riaffermi la sua potenza e la sua misericordia. Il Tikkun, il “ritornante” di alcune correnti ortodosse che risorge dalla morte per portare a compimento qualcosa che ha lasciato in sospeso, è una sorta di deviazione dalla concezione ebraica “classica” per la quale l'immortalità è qualcosa che riguarda il popolo nella sua interezza, e non il singolo; ma il Tikkun Olam è anche, nella concezione cabalistica, la restaurazione allo stesso tempo simbolica e concreta del mondo realizzabile dall'uomo per mano divina, ovvero una speranza di redenzione, il che potrebbe effettivamente far propendere per un parallelismo con la storia d’Israele (soprattutto in virtù di quei minuti finali in cui Haim-Aaron vaga nella nebbia come il biblico popolo d’Israele vagò nel deserto).
Ma c’è una terza possibilità, ovvero che, semplicemente, Haim-Aaron (o il suo corpo) con l’ostinazione di chi ha vissuto troppo poco si rifiuti di morire. Come se credesse di poter conciliare la fede con la conoscenza del nuovo mondo, che include anche l’universo femminile; non rifiuta Dio ma lo cerca altrove, dimenticando che il libero arbitrio comporta la perdita dell’innocenza e che questa, una volta persa, lo è per sempre. E difatti la sua apparente calma “post-resurrezione” nasconde il disinteresse per le scritture (che verranno sistematicamente cancellate dal suo libro delle preghiere), l’apatia e la svogliatezza, mentre la sua anima sogna, anela la carne (le sue dita, che affonderanno in un pezzo di carne conservato in frigorifero per poi, pentite, gettarlo via, in seguito esploreranno, ossessive, il corpo morto della ragazza che involontariamente gli si offrirà). 

Haim-Aaron è un fantasma al confine fra due mondi, e come un fantasma, vaga indeciso su quale direzione prendere (come quando dice alla madre che non mangerà più carne, quando cerca senza riuscirvi un contatto con una prostituta o come quando infine cerca di opporsi all’espulsione da scuola) finché non è il fato a determinare il suo destino. Ma esiste il fato, o è solo un altro modo d’indicare la volontà divina? All’inizio del film vediamo il padre di Haim-Aaron macellare dei manzi secondo il rituale kosher e il senso di quelle immagini (che a mio avviso non è solo quello di sottolineare la dimensione terrena della vicenda mostrando la carne e il sangue) sarà chiaro solo alla fine, sarà infatti la sua decisione di liberarli a scatenare una serie di eventi a catena che giustificherà quella sensazione di ineluttabilità che alleggia su tutto il film. 
Per tutta la sua durata si avverte infatti incombere un destino che sembra tornare ciclicamente a riproporsi, proprio come in senso religioso la sentenza di morte che grava sull’umanità è definitiva e se si riesce a sfuggirle in una circostanza è probabile che finiamo per incapparvi in un’altra. Come i manzi, anche Haim-Aaron incontrerà infine il suo destino, e a sua volta il padre si troverà nuovamente davanti a una scelta molto dolorosa. È straziante questa tragica figura umana divisa fra dovere e amore paterno, il cui senso di colpa per aver (forse) compiuto un atto blasfemo si materializza in visioni di sapore biblico e in terribili incubi nei quali sogna di sacrificare Haim-Aaron come un patriarca d’altri tempi (ma la figura del fratellino, che s’intuisce destinato a prendere il posto di Haim-Aaron in seno alla famiglia e alla comunità, non è meno triste). Straziante è anche il destino di Haim-Aaron. O forse no. Non dimentichiamo che nella visione ebraica la morte è sempre preferibile alla schiavitù. Di qualunque tipo si tratti.

La maschera della morte rossa

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Solo qualche settimana fa, in coda a uno dei miei tanti articoli facenti parte della serie dedicata ai miti “in giallo”, un lettore mi pose nei commenti la seguente domanda: “Esiste qualcosa che non debba la sua origine al mitico Bierce? Anche quello che non sembra suo... è suo!”. Una domanda ben più che legittima, visto che tutto ciò che abbiamo affrontato finora sembra derivare da un paio di racconti dello scrittore americano, nella fattispecie “Un cittadino di Carcosa” (1887), di cui abbiamo parlato qui, e “Haita, il pastore” (1891), di cui parleremo spero a breve. Robert W. Chambers, come sappiamo, prese poi spunto da Ambrose Bierce e, solo pochi anni più tardi, utilizzò i suoi personaggi e i suoi scenari per realizzare l’ossatura della sua raccolta “Il re in giallo” (1895). Tutti i testi che abbiamo finora preso in esame provengono da quei primi lavori, ivi compreso il celeberrimo “Colui che sussurrava nelle tenebre” (Howard Phillips Lovecraft, 1930), l’unico racconto scritto dal “Solitario di Providence” nel quale è esplicita l’influenza dei suoi illustri predecessori. Va però ricordato, per dovere di completezza, che “Il ritratto di Dorian Gray” (Oscar Wilde, 1890) precede, seppure di soli cinque anni, il lavoro di Chambers, e fu proprio dal romanzo dello scrittore irlandese che, come sappiamo, quest’ultimo trasse l’idea del libro giallo maledetto (ne abbiamo parlato qui e qui). Di conseguenza, alla domanda se “esiste qualcosa che non debba la sua origine a Bierce” la risposta non può che essere affermativa.
Robert W. Chambers ha in buona sostanza saccheggiato almeno due autori, tra l’altro entrambi suoi contemporanei. È tutto? Ovviamente no, altrimenti non sarei qui a scrivere un post che si intitola “La maschera della morte rossa”, non vi pare?

Forse il più celebre tra i racconti di Edgar Allan Poe, “La maschera della morte rossa” (1842), narra di una terribile pestilenza che si è abbattuta su una terra imprecisata in un tempo imprecisato. Il principe Prospero, ritiratosi con amici e cortigiani fra le mura del suo palazzo, sembra riuscire a tener testa all’imperversare della malattia, organizzando perfino un grande ballo in maschera con annesso banchetto. Senza dilungarmi eccessivamente sulla trama, che immagino tutti conosceranno, ricorderò in questa sede solo il bellissimo epilogo, quello che ha come protagonista la Morte Rossa, questa figura ammantata di un sudario insanguinato che farà la sua comparsa, inaspettata e improvvisa, tra i commensali.
È proprio la descrizione dell’indesiderato ospite ciò che intendo mettere in evidenza in questo articolo: "La festa tumultuava sempre quando finalmente l’orologio diede il suono della mezzanotte. Allora la musica cessò; la danza fu sospesa e per tutto si fece, come prima un’immobilità ansiosa. […] Per questo forse avvenne anche che molte persone di quell’accolta prima che l’ultima eco dell’ultimo colpo fosse profondata nel silenzio avevano avuto il tempo di accorgersi della presenza di una maschera che fino allora non aveva punto attratto l’attenzione. E la nuova di questa intrusione si era tosto sparsa con un bisbiglio all’intorno, poi con un brusio di tutta l’assemblea ed un mormorare significativo di meraviglia, di disapprovazione e quindi di terrore, di disgusto. […] Il personaggio era alto e scarno, avvolto dalla testa ai piedi in un sudario. La maschera che celava il viso rappresentava così bene la rigidità della fisionomia di un cadavere che la più minuziosa analisi difficilmente avrebbe scoperto l’inganno. Eppure tutti quei pazzi gai avrebbero forse sopportato se non approvato quel brutto scherzo. Ma la maschera era arrivata fino a prendere il tipo della Morte rossa. Il vestito era chiazzato di sangue e la sua larga fronte come del resto tutta la faccia erano cospersi di quel terribile color scarlatto. Allora, chiamando a raccolta il coraggio violento della disperazione, una folla di maschere si precipitò nella sala nera; ma afferrando lo sconosciuto che stava diritto e immobile come una grande statua nell’ombra dell’orologio di ebano, tutti si sentirono soffocati da un terrore indicibile, vedendo che sotto il lenzuolo e la maschera cadaverica che avevano abbrancata con sì violenta energia non si trovava nessuna forma tangibile…".

Come non riconoscere in questa descrizione un ennesimo punto di partenza della mitologia di Robert W. Chambers? Ricordate quel piccolo passaggio inserito come introduzione nel racconto “The Mask”? Forse non ne ho parlato nello specifico, ma di sicuro l’ho riportato all’inizio della mia blog novel “La canzone di Cassilda” (tuttora in corso). Quel piccolo passaggio, secondo Chambers, sarebbe un estratto del primo atto della famigerata tragedia “Il Re in giallo”, il testo maledetto che avrebbe ispirato l’omonima raccolta di racconti. In quel breve frammento ci imbattemmo in una misteriosa figura infiltratasi, non invitata, tra i partecipanti a una festa in maschera. Tale figura, nota semplicemente come “The Stranger”, si rivelerà essere solo apparentemente mascherata, trascinando così nel panico Camilla, Cassilda e tutti gli altri personaggi di contorno. Finora abbiamo dato per scontato che quel volto potesse essere celato da una pseudo-maschera di colore giallo ma, a conti fatti, chi di noi può escludere che il suo colore non fosse invece quello del sangue, lo stesso colore evocato da Edgar Allan Poe mezzo secolo prima?
Tutto questo altro non è che l’ennesima stuzzicante ipotesi che deriva da questo lungo studio dedicato agli “Yellow Mythos”, un’ipotesi che ho voluto rafforzare con un piccolo racconto, scritto di mio pugno e offerto a un collega blogger affinché lo ospitasse oggi stesso come “guest post” all’interno del suo spazio virtuale. Il blog in questione si chiama “Le Terre degli Antichi Dei”, un piccolo contenitore che si auspica di raccogliere tutto ciò che fa da contorno a un romanzo ad ambientazione fantasy che Giuliano, autore e blogger, è in procinto di pubblicare.
Il mio piccolo racconto, che ho voluto intitolare “La maschera della Morte Gialla”, non fa altro che inserire gli avvenimenti descritti da Edgar Allan Poe negli scenari del “Re in Giallo” in maniera evidentemente molto più esplicita di quanto abbia fatto Robert W. Chambers. Naturalmente mi sono anche divertito ad assorbire personaggi e ambienti del romanzo di Giuliano, li ho resi parte integrante della narrazione tentando di realizzare una sorta di “spin-off” (o di “what if”, se preferite) del suo romanzo. Giusto per fare un paio di esempi, lo stesso incipit è stato cannibalizzato in toto da “Le Terre degli Antichi Dei”, mentre la chiusura, giusto un attimino più famosa, proviene direttamente dall’ispirata penna di Edgar Allan Poe.
A questo punto che altro dire? Correte a leggere “La maschera della Morte Gialla”!

La maschera della morte gialla

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La mia recente digressione nel mondo di Edgar Allan Poe non era programmata, ma prima o poi sarebbe dovuta in qualche modo arrivare, visto l’evidente nesso che “La maschera della morte rossa” ha con gli Yellow Mythos chambersiani. Non credo serva ricordare che di questo si è parlato giusto pochi giorni fa, ad ogni modo, visto che l’argomento è stato interrotto per dare visibilità a un’iniziativa di guest blogging, riprendo oggi dal punto in cui mi ero interrotto. 
Il racconto uscito dalla penna di Poe nel 1842 è certamente uno dei suoi più famosi, se non addirittura il più famoso in assoluto. Ricordo perfettamente che era addirittura presente nella mia antologia scolastica ai tempi del biennio delle superiori (se non addirittura delle medie). Credo a questo punto di non esagerare nel dire che fu proprio la lettura di quel racconto, avvenuto in un periodo indiscutibilmente importante per la mia formazione, ad aver trasformato il fanciullo di allora nell’uomo che conoscete. Nonostante quel senso di meraviglia e di follia che la morte rossa mi aveva trasmesso durante la lettura, ricordo che la mia mente di fanciullo non riusciva a metterne a fuoco il significato, non poteva fare a meno di chiedersi cosa diavolo ci facesse un racconto del genere in un’antologia scolastica. In sostanza, non ero riuscito ad arrivare al punto: cosa rappresentava tutto ciò? In parte, quella domanda è ancora in cerca di una risposta. Più che altro la domanda oggi è diventata “perché quel racconto e non un altro di Poe?”.
Ora, in questo tentativo di inserire “La maschera della morte rossa” nel contesto degli Yellow Mythos, proviamo a osservare sotto la lente di ingrandimento ciò che ci è stato consegnato in eredità dal grande scrittore americano. Cos’è la Morte Rossa? Vediamo cosa dice il testo originale (perdonatemi se cito le frasi in inglese, ma le traduzioni sono talmente numerose ed eterogenee che preferisco andare direttamente alla fonte): “The Red Death had long devastated the country. No pestilence had ever been so fatal, or so hideous. Blood was its Avatar and its seal --the redness and the horror of blood. There were sharp pains, and sudden dizziness, and then profuse bleeding at the pores, with dissolution. The scarlet stains upon the body and especially upon the face of the victim, were the pest ban which shut him out from the aid and from the sympathy of his fellow-men. And the whole seizure, progress and termination of the disease, were the incidents of half an hour”.
Così Edgar Allan Poe introduce la Morte Rossa nell’incipit del racconto. Si tratta quindi di una pestilenza di un orrore indicibile, una pestilenza che egli definisce “rossa” per richiamare il colore del sangue e quello delle macchie che i malati manifestano sulla pelle. Già queste poche parole gettano il lettore in un abisso ripugnante, il tutto rafforzato da quel “profuse bleeding at the pores” (trasudare sangue attraverso i pori). 

Non conosciamo l’origine di tale pestilenza, non ne conosciamo le cause, non ne conosciamo le modalità di trasmissione, ma ne conosciamo benissimo gli effetti, visto che l’Autore riferisce che tra il momento del contagio e la morte del contagiato di solito trascorre solo mezz’ora. 
In seguito la Morte Rossa appare al banchetto del principe Prospero in una forma apparentemente umana: “the presence of a masked figure which had arrested the attention of no single individual before. And the rumor of this new presence having spread itself whisperingly around, there arose at length from the whole company a buzz, or murmur, expressive of disapprobation and surprise --then, finally, of terror, of horror, and of disgust. […] The mask which concealed the visage was made so nearly to resemble the countenance of a stiffened corpse that the closest scrutiny must have had difficulty in detecting the cheat. And yet all this might have been endured, if not approved, by the mad revellers around. But the mummer had gone so far as to assume the type of the Red Death. His vesture was dabbled in blood --and his broad brow, with all the features of the face, was besprinkled with the scarlet horror. […] Then, summoning the wild courage of despair, a throng of the revellers at once threw themselves into the black apartment, and, seizing the mummer, whose tall figure stood erect and motionless within the shadow of the ebony clock, gasped in unutterable horror at finding the grave-cerements and corpse-like mask which they handled with so violent a rudeness, untenanted by any tangible form.” 

Una descrizione, questa, che non può che richiamare alla mente quel tema iconografico tardomedievale noto come “Danza macabra”, nel quale ricorre sistematicamente una scena di danza tra uomini e scheletri. Un’allegoria sull’universalità della morte che, a prescindere dalla posizione sociale, unisce tutti (seppur marginalmente, ne abbiamo accennato anche qui in passato). Secondo numerose ipotesi, la diffusione della “Danza Macabra” corrisponderebbe alla grande epidemia di peste che infuriò in tutta Europa tra il 1347 e il 1353, il che ci permetterebbe a questo punto di assegnare una dimensione temporale agli avvenimenti narrati ne “La maschera della Morte Rossa”. 
Il particolare che tale epidemia venne definita “peste nera” o “morte nera” non smentisce, bensì rafforza, la nostra teoria, anche in virtù del fatto che l’incipit del racconto di Poe sembra riprendere fedelmente ciò che Giovanni Boccaccio scrisse nel suo “Decamerone” cinquecento anni prima: “[...] nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, [...] le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide [...] E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno. […]” 
Edgar Allan Poe non manca inoltre di descrivere nello stesso incipit la reazione del popolo di fronte all’epidemia, vale a dire il rifiuto e l’allontanamento dei contagiati (“the pest ban which shut him out from the aid and from the sympathy of his fellow-men”) che Boccaccio riferisce con le seguenti parole: “E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano.” Praticamente la stessa frase, quasi come se Poe avesse avuto accesso al traduttore di Google. 

Tutto questo per dire cosa? Che l’origine degli Yellow Mythos si sposta indietro di cinque secoli? Certo che no. Sarebbe probabilmente una forzatura. Diciamo piuttosto che questo articolo è un ulteriore tassello che troverà forse un giorno la sua giusta collocazione all’interno del puzzle. Staremo a vedere. Dal canto mio sento che le cose si stanno facendo dannatamente più complicate e, metto già le mani avanti, comincio a non essere più così sicuro di riuscire a completare il lavoro in tempi brevi.
Nell’attesa che nuovi spunti sorgano all’orizzonte, lasciatemi adesso spostare il discorso su “La maschera della morte gialla”, quella vera, o perlomeno quella descritta da un autore vero. Avete capito bene, non mi sto riferendo a quel mio maldestro tentativo di imitare i grandi maestri, bensì a un racconto omonimo che, ho scoperto proprio in questi giorni, è stato pubblicato non più tardi dello scorso anno da uno dei più grandi conoscitori della letteratura fantastica: Robert M. Price

Robert M. Price è un personaggio decisamente singolare: laureto in teologia nel New Jersey con un dottorato sul Nuovo testamento, ex pastore della Chiesa Battista di Montclair, Robert M. Price è oggi professore di Critica Biblica presso il Center for Inquiry Institute e divide i suoi interessi tra gli studi sulla storicità di Gesù Cristo e gli studi sui miti di Chtulhu (non trovate anche voi curioso questo accostamento?). 
Senza voler entrare troppo nello specifico, credo vi interesserà sapere che Price è stato curatore di centinaia fra racconti, saggi e articoli, tra cui vale la pena ricordare la fanzine Crypt of Chtulhu, pubblicata sotto l’egida della Esoteric Order of Dagon Press Association (nulla a che vedere con l’Esoteric Order of Dagon di cui abbiamo parlato qui un paio di anni fa) e le imprescindibili raccolte di racconti edite da Chaosium e da Fedogan and Bremer. Una tutt’altro che esaustiva bibliografia di Robert M. Price la trovate qui, mentre il suo sito ufficiale è invece qui
Autore lui stesso di molti racconti, la maggior parte dei quali raccolti nel volume Blasphemies and Revelations, Robert M. Price, come già accennato, ha di recente pubblicato un'interessante versione del racconto di Poe per Celaeno Press all’interno del volume In the Court of the Yellow King

Nel suo “La maschera della morte gialla”, Robert M. Price trasporta la sua personale variante del principe Prospero ai giorni nostri e gli fa indossare i panni di Hoyt Hefti, anziano e inossidabile fondatore della rivista per soli uomini Layboy. Anch’egli signore incontrastato del suo privilegiato regno di favola, Hoyt vive in una faraonica villa circondato dalle attenzioni delle sue giovani e ben disposte concubine (Camilla, Cassilda, Cassandra e Carmella). Come già aveva fatto il suo equivalente medievale, anche Hoyt Hefti decide, in occasione del suo novantesimo compleanno, di organizzare una sontuosa quanto esclusiva festa in maschera. 
Esattamente come nel caso di Prospero (la cui festa si tenne in sette sale di sette diversi colori), anche in questo caso saranno sette gli ambienti che faranno da sfondo alla vicenda. Non saranno però i colori a identificare le varie sale, bensì le attività scelte dagli invitati per assaporare il proprio piacere: e così troviamo la Sadomaso Chamber, la Gay Orgy Room, la Coprocabana e via di questo passo, attraverso una sequenza di deviazioni sessuali che vi risparmierò. 
Nonostante il tipo di mascherata in corso a villa Hefty (lascio alla vostra fantasia indovinare il tipo di costumi indossati dei presenti), nessuno sembra notare l’arrivo di un intruso: “Eppure, nonostante la sorveglianza, nessuno notò l’arrivo di un singolo, non invitato, ospite. Era arrivato già con un costume addosso, seppure uno di quelli che non lasciavano esposto un solo centimetro di pelle.” 
L’epilogo del racconto è prevedibilmente identico a quello di Poe e il messaggio, anch’esso, è sostanzialmente lo stesso, quello che il compianto Totò definiva “A Livella”: la morte ci rende tutti uguali, a prescindere da quanto denaro e quanto potere abbiamo accumulato in vita. Uno solo, fondamentalmente, è il particolare in cui Price si discosta dall’originale: la morte gialla è un portatore di giustizia, sebbene un tipo di giustizia che qualcuno potrebbe trovare opinabile. La morte gialla è portatrice di verità, la morte gialla è il “Phantom of Truth” della tradizione chambersiana che punisce Hoyt Hefti per aver tramato contro i suoi stessi commensali, ma che, allo stesso tempo, per poter essere coerente con se stessa, si accanisce allo stesso modo contro il carnefice e le sue vittime, ree di aver contribuito in egual modo al disfacimento del mondo. "Io sono il Fantasma della Verità e porto la Verità a tutti coloro che la ignorano. Non indosso maschere. Tutti voi, tutto quello che farete, tutto dipenderà solo da voi. Io posso solo concedervi una via d’uscita, una sola. [...] L’ex magnate della Layboy Enterprise e un centinaio di ospiti che erano stati presenti alla sua festa di compleanno, furono trovati morti la mattina successiva da un fattorino. Impaziente di liberarsi di quelle scatole piene di giocattoli sessuali e di bottiglie di assenzio aveva suonato inutilmente il campanello per diversi minuti, quindi irrequieto, aveva gettato l’occhio attraverso la finestra più vicina. La carneficina che si mostrò ai suoi occhi gli fece venire in mente quella vecchia canzoncina per bambini che diceva “Tutti giù per terra”. Solo che lì nessuno pareva potersi rialzare.

Orizzonti del reale (Pt.3)

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LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Paolo Mantegazza, monzese, classe 1831, è uno di quei personaggi incomprensibilmente caduti nel dimenticatoio, uno di quelli che si scoprono solo per caparbietà, per il voler indagare a tutti i costi tra le pieghe della storia. Ma ne vale la pena, perché Mantegazza fu il co-fondatore di quella che chiamò la “scienza degli alimenti nervosi” e che Samorini definisce invece senza troppi giri di parole “scienza delle droghe”, e se è vero che gli studi ai quali si dedicò non sono del tipo che può appassionare il grande pubblico (o almeno credo), dal punto di vista accademico ebbero un peso notevole e meritano pertanto di essere riportati alla luce. In particolare, il suo saggio del 1858 “Sulle virtù igieniche e medicinali della coca e sugli alimenti nervosi in generale” fece molto scalpore, identificandolo in seguito come colui “grazie” al quale l'Occidente aveva cominciato a interessarsi alla cocaina (di cui lo stesso Mantegazza divenne un incallito consumatore fino in tarda età), mentre invece il suo interesse era rivolto in generale a tutte le droghe psicotrope nell'ambito di un progetto di ricerca psicofarmacologica ampio e articolato, come dimostrarono le successive pubblicazioni, inclusa “Quadri della natura umana. Feste ed ebbrezze”, vero caposaldo della letteratura sulle droghe oltre che, probabilmente, il suo lavoro più importante. 
È probabile che questo suo stretto legame con la cocaina, vista la pessima reputazione che questa droga ha oggigiorno, abbia contribuito non poco a gettarlo nell'oblio in cui è stato relegato nell'ultimo secolo e mezzo. Tuttavia, bisogna considerare che nella definizione di Mantegazza di alimenti nervosi non rientrano solo quelle che noi al giorno d'oggi consideriamo a tutti gli effetti delle droghe, come appunto la cocaina, o l'oppio, l'haschisch e l'ayahuasca, ma anche alcuni alimenti che sono ancora di uso comune: bevande fermentate e distillate (vino, birra, liquori…), alcaloidi (caffè, tè, tabacco…), aromatici (pepe, salvia, menta, origano, aglio, cipolla…). Mantegazza si auspicava per ognuno di essi un uso “alterno e sapiente” che avrebbe prodotto “gioia, salute e forza”. Si può dire che il suo auspicio si sia avverato solo in parte. 
Ma è giunto il momento di presentarvi Mantegazza, e per farlo mi affido alla prefazione di un'altra delle sue opere, “Le estasi umane”: Paolo Mantegazza (Monza 31 ottobre 1831 - San Terenzo di Lerici, 28 agosto 1910) ebbe come madre la grande italiana Laura Solera Mantegazza. […] A sedici anni lo troviamo sulle barricate a Milano; a diciannove anni legge all'Istituto Lombardo di Pavia il suo lavoro su la «generazione spontanea». Laureatosi a 23 anni in medicina e chirurgia, pubblica la Fisiologia del Piacere e nello stesso anno parte per l'Argentina per studi. Osservando che gl'indigeni risentivano particolare influenza masticando la Coca (che poi introduce per il primo in Europa), ne studia gli «e'fretti stupefacenti» dovuti al 'suo alcaloide: la Cocaina. Rientra in Italia nel 1858 e viene nominato professore ordinario di patologia all'Università di Pavia, dove fonda il primo Laboratorio di Patologia sperimentale sorto in Europa. Apre così alla patologia nuovi orizzonti; inventa il primo «globulometro», compie i primi esperimenti sugli innesti animali, esperimenti che dovevano avere si forte sviluppo, si occupa dell' innesto e della galvanizzazione del ventricolo, della genesi della fibrina nell'organismo vivente; studia la produzione delle cellule ed anche alla fisiologia traccia nuove mète sostituendo all'aforisma «omnis cellula ex cellula» (Vischou) il suo «omnis cellula ex vita». 

Ma la riconoscenza nazionale che va tributata a Paolo Mantegazza si riferisce soprattutto a quella parte della sua vita che fu un vero apostolato: cioè l'aver saputo volgere la scienza al servizio della salute della stirpe, formando quella parte delle mediche discipline che fu la medicina sociale e che costituì la cosiddetta igiene individuale e collettiva. Essa germogliò nella miseria fisica e materiale del popolo, dal bisogno di pane, di aria, di pulizia, dalla necessità di affrancare il lavoratore dall'oppressione di certe forme di lavoro malsane ed inique, ed ecco Paolo Mantegazza predicare una migliore legislazione per le risaie, per la somministrazione del sale alimentare, per la prevenzione e la cura del male venereo, per l'igiene nei collegi e nei seminari. E per la prima volta in Italia, egli scrive un Libro d'igiene a scopo divulgativo […]. È precursore dell'elioterapia e dei «campi solari»; è precursore della Medicina del lavoro; nel suo libro Il bene ed il male; le glorie e le gioie del lavoro, scrive fra l'altro: «Vi può essere moltissima poesia in un lavoro manuale e moltissima prosa in un lavoro intellettuale». […] Spinto da quest'altissima finalità sociale, scrisse l'Igiene dell'amore e La fisiologia dell'amore; per completare la «trilogia dell'amore» scrisse Gli amori degli uomini, ma quando lo fece seguire da Le estasi umane (che hanno pagine di una spiritualità che potrebbero essere sottoscritte dal Fogazzaro), chiari nella prefazione: «.... se nell'ultimo mio libro ho osato scendere nel pantano fangoso e fetido dei vizi umani, se vi ho dovuto scendere perché anche là vive l'uomo.... perché non potrei salire sulle più alte vette del pensiero e del sentimento? ». Deputato al Parlamento dal 1865 al 1876, a 45 anni è nominato Senatore; […] È il primo che affronta in Italia il problema della lotta antitubercolare; […] L'operosità scientifica di Paolo Mantegazza culmina con gli studi di antropologia e la sua fama di antropologo è diffusa all'estero - non certo meno che In Italia. Fece creare a Firenze la prima Cattedra Italiana di Antropologia e ne prese l'insegnamento nel 1878. Studiò la teoria della pangenesi, l'efficacia della selezione sessuale, atavismo, efficacia dell' solamento geografico per la produzione delle varietà umane, la craniometria […].

Mantegazza insomma, benché alcune sue idee – comuni all’epoca - non siano più condivisibili (auspicava una politica coloniale più audace, sosteneva l'eugenetica, accusava gli ebrei di essere “stretti in una catena tenacissima di frammassoneria religiosa, morale e sociale” che li portava a “disinteressarsi del paese che abitano”, considerava l'uomo più attivo intellettualmente della donna e l'uomo civilizzato del “selvaggio”, eccetera), ha la statura dello scienziato e intellettuale a tutto tondo nonché del politico di cui si è perso lo stampo, uno di quelli che sembrava avere davvero a cuore il bene comune. Forse non era tanto strano per uno dei padri della Repubblica, ma ogni tanto fa bene rammentarsi che un tempo la politica era una missione più che una professione, ed era affidata a persone straordinarie che occupavano un posto di rilievo perché avevano dei meriti e qualcosa da dire, e non per avere accesso ai privilegi della casta o perché “figli di”. 
Ne “Le estasi umane”, ciò che Mantegazza cerca di fare è innanzitutto stabilire che cos’è l’estasi, che lui esprime con il simbolo matematico di “infinito” (∞) e arriva alla conclusione che non esiste una definizione esatta o scientifica per questo termine (sarà infatti lui a proporre una classificazione dell’estasi in affettiva, estetica e intellettuale): alcuni la identificheranno come la passione amorosa; altri come il picco del sentimento religioso o i rapimenti del poeta, dello scrittore o dello scienziato alle prese con i misteri della vita e della scienza, o dell’appassionato nella contemplazione di opere d'arte o di scene della natura, oppure nell’ascolto della musica; i più come intensa emozione affettiva o come semplice sensazione, elevata al massimo grado, legata al piacere dei sensi (vista, gusto, olfatto, eccetera); e altri, ignoranti e poveri di spirito, non riusciranno nemmeno a immaginarsela. 

Ma per Mantegazza l'estasi confina coll'ebbrezza, coll'allucinazione, col piacere, col sonnambulismo, col delirio, con la catalessi; senza essere né l'una né l'altra di tutte queste cose - resta cioè il fatto che possono esistere piaceri intensissimi senza estasi e allo stesso modo l'estasi può essere slegata dal piacere, ma essa è comunque al di sopra di tutte le altre sensazioni, e da questo nasce la definizione di piccole e grandi estasi. Vista la sua formazione accademica a Mantegazza ciò che preme è soprattutto chiarire il processo fisiologico legato alla sensazione estatica o, per dirla con le sue parole, di “segnare l'evoluzione del processo estatico, come Darwin e i darwiniani hanno tentato di fare per le forme dei viventi”. Il riferimento a Darwin non è casuale, perché Mantegazza riconosce anche agli animali la capacità di sperimentare estasi, per quanto “semplicissime, passeggere” – estasi muscolari e vegetative, musicali, estetiche - il che prova che le dissertazioni di Samorini (come lui stesso ammette nel suo libro) hanno almeno un precedente illustre. Le osservazioni sugli animali occupano tutto il terzo capitolo del suo libro. Di fatto però “Le estasi umane” si regge sulla semplice osservazione della realtà, e riporta opinioni e congetture che hanno prevalente natura filosofica. Non mancano riferimenti a studi ed esperimenti su sonno, sonnambulismo e in particolare sull’ipnosi effettuati da famosi studiosi, tuttavia alcuni rapporti di causa-effetto sono difficilmente dimostrabili, e Mantegazza li argomenta senza addurre prove scientifiche. Del resto se è possibile monitorare le fasi del sonno, come dimostrare (ad esempio) l’amor patrio e l'estasi che questo può generare? Se anche fosse fattibile, non credo qualcuno abbia mai avuto l'occasione di farlo. Certamente le sue riflessioni sulle estasi semplici e complesse della fantasia, su quelle provocate dall'arte oratoria, o quelle legate all'amore materno e all'amor filiale, o alla religione o a altri ambiti, sono molto intuitive e condivisibili. Anche l'arte ha esplorato le varie sfaccettature dell'estasi molte volte. Ne riparleremo spesso in seguito, a cominciare dal prossimo articolo.

La cisterna

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Il paese ha bisogno di riforme, riforme che non possono più essere rinviate. Occorre rendere più flessibile il mercato del lavoro. Non si può pensare alla scuola come a un ammortizzatore sociale. Siamo disponibili al confronto con l’opposizione e le parti sociali. Quante volte abbiamo ascoltato distrattamente queste frasi al telegiornale? Talmente spesso che, ne sono sicuro, ormai hanno per noi perso di significato. Non facciamo nemmeno più caso a chi le pronuncia e a quale sia il contesto dal quale tali frasi emergono. Frasi buttate lì e alle quali non prestiamo più attenzione, consci come siamo che chi le pronuncia ha come unico fine quello di ottenere voti, con i quali ottenere potere e con il quale ottenere benefici personali. I recenti episodi che hanno visto come protagonisti burocrati statali dai nomi eccellenti, pescati come mille altri loro predecessori con le mani nel sacco, tra episodi di clientelismo e vicende di peculato, ci fanno indignare, se non addirittura rabbrividire, però continuiamo a tirare avanti per la nostra strada, a capo chino, brontolando al cielo e sperando, dentro di noi, che qualcuno abbia il coraggio di cambiare le cose. Eppure la storia ci insegna che l’umanità si è trovata più volte di fronte a situazioni di questo genere. La corruzione sempre più diffusa all’interno delle cosiddette democrazie ha fatto in modo che queste ultime sfociassero in qualcosa di ben peggiore. Le dittature nazi-fasciste che insanguinarono l’Europa per tutta la prima metà del Novecento, giusto per fare un esempio, vennero in risposta alla crisi strutturale dei sistemi parlamentari. Tutte le grandi dittature sono sorte a causa dell’illusione del popolo di poter restaurare una democrazia non più rispondente alle necessità pubbliche.
La strada è stata sempre la stessa… impoverimento economico della società, accrescimento della corruzione, eventuale (ma non sistematica) guerra civile e insediamento di poteri forti per il ripristino di un certo grado di stabilità. In un certo qual modo fu lo stesso percorso che portò, già duemila anni fa, alla nascita dell’Impero romano sulle ceneri della Repubblica.
Sulla base di tali illustri precedenti non possiamo fare a meno di temere che tutto questo possa ripetersi - è quello che immagina Nicola Lombardi, autore de "La Cisterna", un eccezionale romanzo distopico pubblicato solo qualche mese fa per merito dell’attenta oculatezza di Dunwich Edizioni.
"La Cisterna"è uno di quei libri che si leggono tutto d'un fiato, uno di quei pochi casi dove ci si trova immersi in un’atmosfera talmente coinvolgente che il desiderio di procedere nella lettura prende il sopravvento sulle umane necessità quali il mangiare, il bere e il dormire. Credo in realtà di aver esordito altre volte con una frase come questa ma, lo sapete meglio di me, scrivere recensioni non è il mio mestiere e quello che mi viene da gettare in pasto a questo blog, al termine della lettura di un libro o della visione di un film, è esclusivamente ciò che mi sgorga dai pori della pelle. Mi capita ormai sempre più di rado di trovarmi immerso in pagine di potenza descrittiva ed evocativa pari a quelle de "La Cisterna" e, nonostante manchi ancora un mesetto alla fine dell'anno, credo che tale titolo verrà ricordato dal sottoscritto come la più piacevole scoperta del 2015.
Riporto qui di seguito il breve testo estratto dalla quarta di copertina: "Nuovo Ordine Morale. Una feroce dittatura militare. Un nuovo sistema carcerario estremo in cui le Cisterne rappresentano il terribile strumento per una radicale epurazione della società. Giovanni Corte, giovane pieno di speranze, conquista l’ambito ruolo di Custode della Cisterna 9, nella quale dovrà trascorrere un anno. E comincia così per lui un cammino – inesorabile, claustrofobico, allucinante – lungo gli oscuri sentieri dell’anima umana, verso il cuore buio di tutti gli orrori che albergano fuori e dentro ciascuno di noi".

L'idea è incredibile ma nemmeno poi tanto, visto che, come detto, l'umanità ha più volte generato orrori paragonabili, se non superiori, a quelli immaginati da Nicola Lombardi. La novità in questo caso è l'ambientazione italiana, quella in un imprecisato futuro sorto sulle ceneri della quarta repubblica, ennesimo fallimento politico del nostro paese, un futuro in cui sorge la soluzione che dovrebbe sradicare per sempre la corruzione, il clientelismo e tutti gli altri cancri che ben conosciamo; una dittatura così feroce da immaginare e realizzare una cisterna, un enorme silo di cemento e acciaio al quale vengono "consegnati" gli indesiderabili della società: ladri, assassini, stupratori e, naturalmente, gli oppositori del regime. Un’enorme cisterna al cui interno i colpevoli, o presunti tali, vengono gettati dalla cima senza tante storie.
I più fortunati riusciranno a rompersi l'osso del collo nella caduta, gli altri periranno lentamente, immersi in un infernale groviglio di carne umana, cercando istintivamente di non farsi ingoiare da quella montagna di disgraziati destinati ad una morte terribile. Niente cibo per i condannati, niente luce, niente di niente: la società li ha dimenticati nell'istante stesso dello "scarico". La morte, una morte orrenda, è l'unica via d'uscita. Senza eccezione alcuna. Giovanni espirò con cautela, in maniera da non rendere evidente il nervosismo che lo aveva quasi pietrificato, mentre un invisibile meccanismo oleodinamico faceva scorrere all’interno del muro circolare la porta di vetro e metallo. Fu un soffio, un fruscio setoso. E il piccolo locale conosciuto come Chiusa si mostrò ai suoi occhi. […] Si tratta di un angusto spazio delimitato da pareti di cristallo che si protendeva per circa un metro entro la circonferenza della cisterna. Una sorta di balconcino, in pratica, sostanzialmente ampio quanto la cabina di un ascensore, stretto e chiuso su ogni lato, sospeso sopra l’oscura voragine circolare gremita di corpi in agonia. [… La parete di fondo della Chiusa, infatti, era costituita da una seconda porta a due battenti, denominata tecnicamente Varco di Scarico (ma che nel gergo parallelo e più spiccio usato dagli addetti ai lavori era la Dolente, a richiamare l’iscrizione posta da Dante sopra l’entrata dell’Inferno). […] Ciò che stava avvenendo all’interno della Chiusa era inesorabile, nella sua semplicità. La Dolente si era spalancata protendendo verso l’abisso i suoi battenti e nel contempo la piattaforma gommata che fungeva da base aveva preso a ruotare in avanti. Un piccolo tapis roulant. […] Giovanni aveva sentito racconti secondo i quali vi erano condannati che preferivano di gran lunga procurarsi la morte per caduta piuttosto che affrontare un’agonia la cui durata non sarebbe stata valutabile. La cosa, naturalmente, era possibile qualora la distanza tra la Chiusa e lo strato superficiale degli ospiti fosse apprezzabile; in caso contrario, era pensabile che una caduta volontariamente autolesiva potesse provocare solo menomazioni o dolorose ferite. Si diceva che non fossero rari i casi i cui anche chi stava già disteso sopra l’ammasso di corpi cercasse la morte sfruttando l’arrivo dei nuovi arrivati posizionandosi in modo tale da farsi rompere i collo. Non mancavano neppure racconti incentrati sul cannibalismo, che si diceva fosse praticato dagli ospiti delle Cisterne giunti all’estremo grado di abbruttimento, disperazione e pazzia. 

Nicola Lombardi, ferrarese, classe 1965, non è certamente un nome nuovo per chi si aggira tra le meraviglie della letteratura fantastica di casa nostra. Già vincitore del Premio John W. Polidori di Nero Press con l’horror palindromo “I ragni zingari” (originariamente uscito in cartaceo attraverso le mitiche Edizioni XII), è autore di numeri racconti e romanzi, tra i quali “Madre nera”, una storia “in bilico sull’orlo degli abissi in cui custodiamo i segreti dell’anima”.
Mi sento di dire che con “La Cisterna” Nicola ha veramente fatto il botto. Nel mio piccolo, da lettore nella media senza una grande capacità analitica, trovo “La Cisterna” veramente efficace per la sua capacità di descrivere situazioni dai toni estremamente cupi e drammatici, inseriti in un ambiente estremamente limitato (non solo in termini di spazio), senza tuttavia rendere la lettura né soffocante né claustrofobica. Un protagonista che si offre spontaneamente per il ruolo di boia ufficiale del regime, che addirittura partecipa a un concorso e lo vince sbaragliando una moltitudine di candidati per poterlo ottenere, potrebbe di primo acchito respingere un po’ le simpatie dei più, ma posso assicurarvi che si fa dannatamente in fretta a entrare nei suoi panni e a fare il tifo per lui.
Sembra quasi impossibile, ma è la pura realtà. Giovanni Corte non ci viene presentato come un ragazzo che si trova calato in una realtà che nessuno di noi vorrebbe mai affrontare, Giovanni Corte non è un pavido che sceglie semplicemente di stare dalla parte del più forte per convenienza. Tutt’altro. Egli, almeno inizialmente, è un deciso sostenitore del regime, nel quale vede l’unica soluzione ai problemi del mondo. Se ancora non bastasse, Giovanni Corte si offre per il posto di lavoro più discutibile al solo fine di poter uscire, dopo un anno esatto, al successivo cambio della guardia, con le tasche piene di denaro da poter spendere liberamente su quelle spiagge esotiche a lui promesse, come bonus pensione, dal feroce NOM.
Eppure, nonostante le premesse, qualcosa in lui riesce ad avvicinarci. Solo dopo poche pagine quell’immaturo boia di stato (anzi, del “Nuovo Ordine Mondiale”) riesce ad entrare in sintonia con noi lettori. Ne seguiamo le vicende, ne condividiamo le angosce e ci sentiamo sollevati quando i suoi “piccoli” problemi quotidiani si risolvono. Ciò però non equivale a condividere il suo pensiero, non equivale a comprendere coloro che si macchiano di quelle colpe giustificate dai tempi. Sarebbe come assolvere i simpatizzanti dei regimi nazifascisti del secolo scorso. Non reagire, non contrapporsi, non criticare, sono tutte scelte che rappresentano una sorta di accettazione e di complicità. Ho ragione o mi sbaglio? Una domanda a cui non saprei rispondere. Non saprei nemmeno come finirei per comportarmi se mi ritrovassi catapultato in un mondo in cui ogni giorno è buono per morire senza ragione. E quando il giovane condannato gli passò accanto - smunto, con alcune ecchimosi da percosse sul viso – Giovanni non si aspettava certo che gli rivolgesse la parola. “Ho solo lanciato… volantini…all’Università”.

Immagini: Arturo Benvenuti - K.Z.: Disegni degli internati nei campi di concentramento nazifascisti (edizioni BeccoGiallo)
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