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There's something in... The Fog

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E alcuni, in sogno, ebbero conferma dello spirito che ci colpiva così: a nove braccia di profondità, ci aveva seguiti dalla regione della nebbia... (Samuel Taylor Coleridge, La ballata del vecchio marinaio)

Vidi "The Fog" per la prima volta ai tempi della sua uscita nelle sale, anche se probabilmente con diversi mesi di ritardo rispetto alle prime visioni. Il gestore di quel piccolo cinema di paese che frequentavo da ragazzino, l'ho già raccontato tante volte, non era esattamente un fenomeno in termini di reattività, ma aveva sicuramente un gran talento nella scelta dei film da proporre (non che in questo caso fosse necessario, visto che John Carpenter era ormai sulla bocca di tutti grazie alle allora recentissime imprese slasher di Michael Myers).
Sebbene nell'archivio della mia memoria "The Fog" fosse rimasto per anni catalogato come uno dei tanti filmetti anni Ottanta dalla trama sciocca, mi era sempre rimasto quello strano senso di angoscia, tesa e palpabile, che provai in quel lontano giorno per tutta la durata del film. Rivisto ripetutamente negli anni Duemila e, per l'ennesima volta, giusto qualche sera fa, non posso che confermare quella vecchia sensazione: quelle atmosfere perennemente snervati girate da Carpenter e sceneggiate da Debra Hill sono ancora tutte lì, per nulla erose dai quarant'anni di cinema horror che nel frattempo sono trascorsi.
D'altra parte John Carpenter è sempre stato un maestro nell'ottenere il massimo risultato partendo dal nulla e non sarà certo un caso se sono tutti firmati da lui quei pochissimi film che oggi, alla mia veneranda età, mi fanno ancora paura.

La piccola città costiera di Antonio Bay festeggia il centenario dalla sua fondazione. I residenti, mentre si preparano per le celebrazioni, appaiono inconsapevoli della tragica storia che ha dato origine al loro piccolo insediamento, né sanno nulla della leggenda legata alla fatidica ricorrenza; faticano anche a mettere in relazione tutti quegli strani, piccoli avvenimenti, che iniziano a capitare loro. Solo quando una piccola imbarcazione si perde in una nebbia densa alcuni iniziano a sospettare qualcosa di più sinistro di semplice evento meteorologico.
Noi spettatori invece già sappiamo più o meno tutto, grazie a quei memorabili cinque minuti iniziali (tra l'altro aggiunti in fretta e furia dal regista per rimediare a un minutaggio insufficiente) nei quali un anziano del paese racconta la leggenda a un gruppo bambini raccolti attorno al fuoco. E detto, tra noi, mi chiedo come mai quando iniziano i casini a nessuno venga in mente quella vecchia storia, visto che è probabilmente un secolo che viene tramandata oralmente...  mais c'est la vie.

Cento anni prima, esattamente il 21 aprile 1880, l'Elizabeth Dane, un veliero carico di lebbrosi, si stava avvicinando alle coste della California per cercare un luogo adatto dove prendere terra e morire in pace. L'arrivo del comandante Blake e del suo equipaggio non era tuttavia cosa gradita agli abitanti della zona e, come spesso accade, un gruppo di cospiratori prese la drammatica decisione di impedirne lo sbarco: accesero un falò sulla spiaggia e, complice la nebbia fitta che nel frattempo era calata, diressero il veliero a schiantarsi dritto sugli scogli. La leggenda vuole che, esattamente cent'anni più tardi, le anime senza pace degli annegati sarebbero tornate in cerca di vendetta. Solo in seguito, nel corso del film, scopriremo che la stessa Antonio Bay fu costruita con l'oro di Blake, prontamente depredato dal relitto della nave. Di quanti altri motivi potrebbero aver bisogno dei "revenant" per cercare giustizia?

Antonio Bay, piccolo paese metafora di una nazione nata da un genocidio, deve quindi affrontare i fantasmi che tornano dalle nebbie del passato per esigere il loro tributo di sangue. Non è sicuramente questa l'unica volta che John Carpenter inserisce dei messaggi politici all'interno dei suoi film. Sebbene in altri casi (Essi vivono, Fuga da NY, Distretto 13) le critiche al sistema siano piuttosto palesi, qui è necessario fare uno sforzo in più per arrivarci. Specialmente da parte dello spettatore americano medio, che festeggia il Thanksgiving ignorando (o fingendo di ignorare) che i suoi tanto amati Padri Pellegrini, a cui risale la festività, non sono poi molto diversi dai fondatori di Antonio Bay (anche nella fiction, e non certo per caso, è un religioso la pietra angolare del massacro).

Le analogie con il precedente "Halloween" sono numerose e piuttosto evidenti. La location innanzitutto è uno dei motivi principali che si presentano nei film di Carpenter: Antonio Bay non è molto dissimile da Haddonfield, così tipicamente americana ma allo stesso tempo così anomala. Come quest'ultima, anche Antonio Bay sembra infatti completamente isolata dal resto del mondo: tutto si svolge entro i suoi confini e, nel momento in cui la soluzione più logica sarebbe quella di far intervenire l'esercito, la guardia nazionale o gli agenti federali, la città si chiude ancora di più su se stessa, finendo per barricarsi dentro una chiesa, ultimo baluardo di una resistenza approssimativa (un baluardo tra l'altro scelto malissimo, viste le premesse). Ma è forse proprio questo meccanismo della "camera chiusa" la chiave del successo carpenteriano, meccanismo che il regista americano avrebbe portato al suo livello più alto con la futuristica Manhattan di "1997: Fuga da New York".
Se in "Halloween" il Male si scatena dopo qualche anno di ospedale psichiatrico, in "The Fog" l'attesa dura un secolo... ma la mattanza che infine si scatena è più o meno invariata. Rivoluzionario è invece il fatto che ad Antonio Bay, infrangendo ogni ca##o di regola, chi fa sesso sopravvive.

Gli spunti offerti da The Fog sono innumerevoli e non basterebbe un'intera enciclopedia per elencarli tutti. Basti riflettere sull'Elizabeth Dane, il veliero fantasma che appare tra le nebbie in una scena memorabile, perché si spalanchi un mondo di riferimenti reali (vedi caso della Mary Celeste) e letterari... l'ovvio mito dell'Olandese Volante, il poema Rokeby di Walter Scott, e La ballata del vecchio marinaio di Coleridge, citata in apertura.
Soprattutto "La ballata" sembra aver influenzato Carpenter che, esattamente come in "The Fog", inizia con il racconto di un vecchio marinaio sopravvissuto a una tempesta in pieno oceano (come il protagonista di "Una discesa nel Maelström" di Poe, che il regista americano ha citato fra i titoli di testa). Non starò qui certo a raccontarvi tutto, ma credo che basti sapere che anche in Coleridge c'è una vittima innocente (nella fattispecie un albatro), c'è un vascello fantasma che emerge dalla nebbia, c'è il perseguimento della vendetta e, soprattutto, c'è un'anima costretta a vagare nell'inutile ricerca della redenzione. Come un novello Nazareno, Padre Malone, discendente del padre fondatore al cui "alto scopo" era stato sacrificato l'equipaggio dell'Elizabeth Dane, è lui stesso in cerca di redenzione, per sé e per la sua gente. Una redenzione che non posso dire se sarà compiuta, pena rivelarvi il finale del film.

E infine c'è la nebbia. Quella stessa nebbia che secondo la mitologia nordica separa il mondo dei vivi dal mondo dei morti. "Le porte tra i mondi fluttuano con la nebbia" scriveva Marion Zimmer Bradley (Le nebbie di Avalon, 1983), "e si aprono al volere del viaggiatore”. Quella stessa nebbia che avvolge il Niflheimr, l'inferno della mitologia norrena governato da Hel, figlia di Loki, dove nessuno può recarsi finché è in vita. Quella stessa nebbia che avvolge lo Stige e l'antica città di Dite, così che gli sguardi di Dante e Virgilio, nella loro discesa infernale, faticano a posarvisi.
Nulla come la nebbia simboleggia l'incertezza. L'incertezza per ciò che sta in essa, per ciò che sta oltre essa, e per ciò che da essa proviene. E allora conviene guardarsi dalla nebbia, quando questa fa capolino oltre la nostra finestra.
Non so cosa sia successo stanotte ad Antonio Bay. Dalla nebbia è uscito qualcosa che ha cercato di distruggerci e improvvisamente è svanito. Ma se tutto questo non è stato solo un incubo, da questo momento nessuno andando a letto sarà più sicuro di risvegliarsi vivo. A tutte le barche al largo che ricevono la mia voce io dico: "Tenete d'occhio il mare, scrutate l'oscurità: la nebbia è in agguato".
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Il presente articolo è parte della quinta edizione della rassegna estiva "Notte Horror", ideata e realizzata da una combriccola di blogger che, in questo modo, intendono omaggiare l'omonimo programma che, tra gli anni Ottanta e i primi Novanta, ha incollato ai teleschermi un'intera generazione. Due post ogni martedì, uno programmato alle ore 21:00, l'altro alle 23:00. Tre semplici regole: 1) tassativamente horror; 2) preferibilmente tamarrata; 3) possibilmente anni 70-80-90.
Abbiamo iniziato proprio il 10 luglio dai blog della Bolla e di Cassidy, abbiamo proseguito martedì scorso sui blog di Frank R. e di Kris Kelvin, ci siamo visti due ore fa da Marco Contin e proseguiremo settimana prossima sul blog di Alfonso Maiorino, che ci porterà alla scoperta di un grande classico delle nostre notti horror.

Il programma ufficiale lo trovate in cima alla colonna qui a destra (e rimarrà lì fino a settembre). I link ai post successivi saranno palesati di volta in volta, se avrete la pazienza di seguire la rassegna dall'inizio alla fine. Non mancate, mi raccomando!

Obsploitation: Rewind

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"...per tutto questo, e per molto altro ancora, credo che non abbia praticamente alcun senso continuare. Seppur con le mani tremanti, che mi costringono a dover correggere di continuo i refusi, è giunto il momento di scrivere la parola fine. Obsploitation chiude affinché Obsidian Mirror possa sopravvivere".
Con queste parole, nel dicembre del 2015 calava il sipario su Obsploitation, quel mio piccolo tentativo di operare su un secondo blog che, dopo due anni di crudele agonia, fallì miseramente.
Sono passati quasi mille giorni da allora. Un'eternità. Mille giorni durante i quali, di tanto in tanto, il mio occhio ha però malinconicamente continuato a scivolare su quelle consunte pagine digitali alle quali mi ero tutto sommato affezionato. Avevo fatto bene a chiudere? Avevo fatto male? C'era ancora speranza oppure la lapide che avevo posato stava bene là dov'era? Dubbi in realtà non ce ne sono mai stati: la chiusura di Obsploitation fu necessaria per motivi che non starò qui a ripetere, ma che, anche se non eravate presenti a quel tempo, potete benissimo immaginare.
E se non eravate qui al quel tempo, forse è bene a questo punto fare una piccola digressione e provare a spiegare cos'era Obsploitation, magari usando le stesse parole che usai nel primissimo articolo...
...Obsploitation è innanzitutto un blog tematico: su Obsploitation si parlerà solo di cinema, quel particolare tipo di cinema che non trova spazio su Obsidian Mirror, un cinema sporco di sangue, un cinema intriso di violenza, ma anche un cinema sensuale, che non mancherà vi affascinarvi. Ma perché Obspolitation? 
A questo punto partiva un lungo pippone sulla mia fanciullezza che stavolta vi risparmio. In breve andavo a riferire di quanto apparivano favolosi quegli anni Settanta che io stavo guardando solo con gli occhi di un bambino, di come il mondo stesse cambiando, e bla bla bla... e di come di quegli anni mi fosse rimasto solo qualche vago ricordo in bianco e nero di me aggrappato alle gonne di mia madre.
...ed è proprio da quei ricordi in bianco e nero che nasce Obsploitation, da quei meravigliosi film che oggi non siamo più capaci di fare, da quei film dove anche solo la locandina era un'opera d'arte. Lo scopo di Obsploitation è anche quello di aggiungere un po' di colore a quel bianco e nero. Questo è il punto di partenza. Dopodiché vedremo: la strada da percorrere è ancora tutta da stabilire.
Il percorso di Obsploitation, come sappiamo, è durato due anni. Due anni attraverso i quali abbiamo toccato alcuni capisaldi del "cinema bis". Abbiamo affrontato il cinema horror, il poliziottesco, il western, il giallo, il gotico... abbiamo messo tanta carne al fuoco, tanto sangue e naturalmente una buona dose di sesso, che in certi frangenti non guasta mai.
Ma perché vi sto raccontando tutto questo? Perché quest'estate, per tutto il mese di agosto, Obsidian Mirror si trasformerà in Obsploitation Rewind!

Nella pratica, mi divertirò a riproporre su Obsidian Mirror una piccola selezione di quei vecchi articoli che giacciono tristi tra le pieghe di un blog che fu tale. Detto in un altro modo, invece di mettere in pausa il blog come faccio di solito, continuerò a essere presente, seppur con delle "repliche", nella speranza di fare cosa gradita a coloro che ad agosto in vacanza non ci vanno e che, con poco ottimismo, rimangono alla ricerca un angolo di blogosfera aperto tra le tante serrande abbassate.
Non sarà ovviamente uno spudorato copia e incolla di cose già viste come fanno i canali televisivi nei mesi più caldi: cercherò nel limite del possibile di commentare ciò che scrissi all'epoca, contestualizzando i vari argomenti che andrò a riproporre. Ammetto che non è forse una scelta ottimale quella di annunciare questa piccola iniziativa oggi, a pochi giorni dal suo inizio e in un periodo in cui la maggior parte degli internauti è in tutt'altre faccende affaccendato... Mi immagino lo sgomento di chi dovesse collegarsi per sbaglio a ferragosto e dovesse magari trovare una nuova grafica (cosa che in effetti sto valutando)...
Non sarà invece una sorpresa per tutti coloro che sono qui oggi, puntuali come sempre, a leggere questa introduzione nonostante la calura e l'irrefrenabile tentazione di correre al mare e mollare tutto il resto.
Ma Obsploitation Rewind è solo l'aperitivo, un piccolo assaggio di ciò che avverrà il prossimo autunno quando... Lo dico? Non lo dico? Sì, lo dico....

Obsploitation is about to return!
Un primo abbozzo di idea, se devo essere onesto, era già germogliato due anni fa mentre mettevo la parola fine all'ultimo post del vecchio blog: un'idea che mi fu data da un paio di lettori fissi che, come forse avrete intuito, suggerirono di trasformare Obsploitation una rubrica fissa di Obsidian Mirror. 
Questa sarà infatti la nuova veste di Obsploitation: non la riapertura del vecchio blog (che a questo punto potrei anche decidere di oscurare), ma un nuovo appuntamento a cadenza casuale che troverà il suo spazio proprio qui, sgomitando con le mille altre iniziative che il sottoscritto (mannaggia a me) sta portando avanti con tanto, troppo, ottimismo.
Il nuovo Obsploitation sarà intriso di tantissime novità: non sarà più uno spazio limitato esclusivamente al cinema di genere, come lo era il blog omonimo, bensì si ramificherà lungo diversi percorsi paralleli che avranno sangue, sesso e violenza come filo conduttore (altrimenti che razza di Obsploitation sarebbe?).
Ci occuperemo ancora di cinema, ovviamente, con la rubrica "Obsploitation Classics", dove riprenderemo il discorso interrotto a suo tempo, ma avremo anche "Obsploitation Library" e "Obsploitation Comics", dove proveremo a cercare le stesse forti sensazioni nella letteratura e nel fumetto. Alcuni episodi riceveranno l'etichetta "Obsploitation Cult", sotto la quale finiranno le mie più sentite raccomandazioni...
Ancora non basta? Avremo anche "Obsploitation Sounds", "Obsploitation Visions", "Obsploitation Extreme" e, solo per i più impavidi, "Obsploitation Vomit". Non siate troppo impazienti a cercare risposte alle vostre domande: avremo tutto il tempo di entrare nel dettaglio... adesso è il momento di "Obsploitation Rewind".



Banditi a Milano

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La nuova vita di Obsploitation inizia oggi e, come annunciato qualche giorno fa, proveremo a fare un piccolo ripasso di quanto era apparso sul blog omonimo che chiuse i suoi battenti un migliaio di giorni fa. Senza pretendere di realizzare un "best of" che, senza ombra di dubbio, risulterebbe piuttosto discutibile, proverò a riproporre alcune cosette che, a memoria, non riuscirono troppo male. L'articolo di oggi fu uno dei primissimi ad uscire su Obsploitation: era esattamente il 16 febbraio 2014 e, dannazione, mi sembra quasi passato un secolo.
I primi giorni di vita di Obsploitation furono piuttosto frenetici: il materiale che avevo preparato prima ancora di iniziare era parecchio ma, non per questo mi feci prendere dalla frenesia della pubblicazione a ritmi serrati (avendo già una discreta esperienza, prevedevo già da allora che sarebbero arrivati periodi di magra). Avevo già scritto parecchia roba, come stavo dicendo poc'anzi, e immagino sia un po' come quando sai che arriverà la cicogna e inizi con largo anticipo a infognarti la casa di fuffa ingombrante che poi, nel giro di qualche anno, non saprai come fare per liberartene. L'articolo che proverò a riproporre oggi, tra i tanti, era stato uno di quelli a mio parere più interessanti. Innanzitutto perché l'argomento trattato affondava le sue radici in documentati fatti di cronaca italiana che, come sapete, sono un'inesauribile fonte di spunti per un blogger come il sottoscritto; in secondo luogo "Banditi a Milano" (1968), il film che quei fatti Carlo Lizzani provò a mettere in scena, divenne il capostipite di un genere (il poliziottesco) che da lì a qualche anno sarebbe diventato di culto. E non solo per me.

Il parto di quell'articolo non fu semplicissimo, lo devo ammettere. Ricordo che spesi un sacco di tempo a cercare e a studiare vecchi articoli dell'epoca perché, come è ovvio che sia, non me la sentivo di sparare sentenze su quel Pietro Cavallero esclusivamente sulla base di un film. Ancora oggi, per inciso, conservo nei "preferiti" del mio browser questo articolo di Repubblica curato da una delle firme più note del giornalismo italiano del secolo scorso. Immagino che mi fu di grande ispirazione...
Ma bando alle ciance. Ecco quindi, subito dopo il banner di "Rewind", cosa scrissi all'epoca a proposito del celebre film di Carlo Lizzani...

Tecnicamente “Banditi a Milano” arriva un po’ prima degli anni Settanta (è datato infatti 1968), ma è a lui che tutti i film del decennio successivo faranno riferimento. Carlo Lizzani ebbe l’intuizione di aprire una strada vincente che i vari Alberto De Martino, Bruno Corbucci, Damiano Damiani, Enzo Castellari, Fernando Di Leo, Sergio Martino, Umberto Lenzi e chi più ne ha più ne metta, avrebbero percorso in seguito. Qualcuno potrebbe obiettare che prima di “Banditi a Milano” ci furono altri tentativi di aprire il genere (sto pensando a Elio Petri, per esempio), ma preferisco riferirmi a quei titoli come agli ultimi colpi di coda di quella corrente nota come “neorealismo” di cui il poliziottesco, senza comunque discostarsene troppo, rappresenta la variante “noir”.


La pellicola prende spunto da un fatto di cronaca che insanguinò il capoluogo lombardo nel lontano 1967 e che monopolizzò i titoli dei quotidiani per diversi mesi. Probabilmente il nome di Pietro Cavallero non dirà molto alla maggior parte di voi, ma se c’è qualcuno tra i miei lettori che anagraficamente veleggia attorno al mezzo secolo, allora ne avrà perlomeno sentito parlare. All’epoca dei fatti chi vi scrive galleggiava all’interno di una placenta, per cui non posso far altro che ricorrere al web per ricostruire gli avvenimenti.
Erano gli anni del cosiddetto boom economico, anni in cui l’Italia fu teatro di un fenomeno oggi praticamente impensabile. Il tenore di vita degli italiani migliorava di anno in anno, gli stipendi crescevano e quasi tutte le famiglie, dopo anni di privazioni, potevano ormai permettersi la lavatrice, il frigorifero e la tanto agognata televisione. Anche le automobili erano ormai diffusissime sulle nostre strade e, su queste basi, si modellavano le prime trasformazioni di linguaggio e di costume. Sul fronte cinematografico, il neorealismo dei Visconti, dei De Sica, dei Rossellini lasciava il posto alla commedia all’italiana di Steno e di Salce. La speranza, che gli italiani avevano perduto in pellicole come Ladri di biciclette e Riso amaro, veniva ritrovata nei volti sorridenti di Alberto Sordi, Walter Chiari e Raimondo Vianello.
Fu in quello scenario che la banda Cavallero, figlia di un’epoca di benessere, fece la sua comparsa.

Pietro Cavallero, detto il Piero, era il capo indiscusso. Uomo di grande carisma e invidiabile cultura, aveva trovato nel suo vecchio amico Sante Notarnicola il suo esecutore più sanguinario. I due si conobbero all’inizio degli anni Sessanta tra i tavoli di un bar di corso Vercelli a Torino. Di estrazione proletaria, fortemente politicizzati, Cavallero e Notarnicola reclutarono l’ex partigiano Adriano Rovoletto proprio nelle serate trascorse nelle locali sedi della FGCI. La molla che li muoveva era la rabbia sociale, la voglia di riscatto tipica della classe operaia di quegli anni. Come la storia recente aveva loro insegnato, la rivoluzione era l’unica strada da percorrere per l’autodeterminazione. Ma la rivoluzione aveva un prezzo: niente soldi, niente rivoluzione. Ma dove stavano i soldi, se non in banca? Fu così che i figli del quartiere Barriera entrarono in banca, e lo fecero con le pistole e i passamontagna. La banda Cavallero si rese responsabile, nell’arco di soli 4 anni, di ben 18 rapine, 5 omicidi e 27 feriti. Una tecnica da veri professionisti, che raggiunse il suo apice con il “triplete” del 12 novembre 1965: tre banche rapinate in 45 minuti! Mentre la polizia faceva irruzione in una banca, i tre stavano già rapinando quella successiva. “La prima banca serviva per mangiare, la seconda, la terza e la quarta per fare la rivoluzione”, dissero in seguito al processo.


Ma l’ideologia originale del gruppo, la lotta di classe, sfociò un giorno inevitabilmente nella necessità quasi fisiologica dei soldi facili, e quindi della rapina. Un’orgia di violenza incontrollabile che si concluse tragicamente il pomeriggio del 25 settembre 1967, una data che i milanesi ricorderanno a lungo.
A bordo di una Fiat 1100 rubata, la banda Cavallero si diresse verso il Banco di Napoli di largo Zandonai, in zona fiera. Oltre ai tre elementi storici, quel giorno fu reclutato un ragazzo di 17 anni, Donato Lopez (detto Tuccio), alla sua prima esperienza criminale.
Ma qualcosa andò storto. Un cassiere riuscì ad azionare l’allarme, i banditi si diedero alla fuga ed iniziò una delle più incredibili fughe tra le strade del centro. Oltre 40 volanti della polizia si lanciarono all’inseguimento dei quattro. Sirene urlanti e sgommate si udivano fino ai piani alti degli edifici circostanti. Mitra e pistole fecero fuoco, da una parte e dall’altra, in una corsa folle che proseguì per oltre mezz’ora. Poi, quando tutto sembrava ormai perduto, i quattro uomini impazziti iniziarono a sventagliare di proiettili anche i passanti. Fu una carneficina. Al termine di quel giorno maledetto si contarono 4 morti e 19 feriti. Adriano Rovoletto fu catturato subito dagli agenti, che a malapena lo strapparono alla folla inferocita, intenzionata a fare giustizia con le proprie mani. Donato Lopez fu prelevato nella propria casa di Torino il giorno seguente. Cavallero e Notarnicola resistettero una settimana vagando nelle campagne attorno ad Alessandria. Infine il cerchio si chiuse anche attorno a loro. Al processo la condanna non potè che essere l’ergastolo.

Solo pochi mesi più tardi Carlo Lizzani, sulla scia dell’emozione suscitata dagli avvenimenti sopra descritti, realizzò quello che oggi chiameremo un “instant-movie”. A dare il volto a Pietro Cavallero nella finzione cinematografica ci avrebbe pensato un grande Gian Maria Volontè, che solo due anni prima, ancora sotto la direzione di Carlo Lizzani, aveva lavorato in “Svegliati e uccidi”, ispirato alle imprese di Luciano Lutring, famoso rapinatore milanese che agì nella prima metà degli anni Sessanta. Credo che qualunque aggettivo su Volontè oggi sia supefluo, ma in questo contesto vale la pena ricordarlo per alcuni dei suoi film-simbolo ispirati alla storia italiana: I sette fratelli Cervi (1968), Sacco e Vanzetti (1971), Il caso Mattei (1972), Lucky Luciano (1973), Il Caso Moro (1986) e molti altri ancora.
Sante Notarnicola fu interpretato dal leggendario Don Backy, che molti ricorderanno per i suoi successi discografici, ma che ebbe anche un’interessante carriera come attore. L’anno successivo, sempre per Carlo Lizzani, interpretò assieme a Terence Hill il lungometraggio “Barbagia (La società del malessere)”, ispirato alle vicende di Graziano Mesina, un altro nostro famoso bandito.
Adriano Rovoletto e Donato Lopez furono interpetati rispettivamente dai Ezio Sancrotti e Ray Lovelock, volti che rivedremo spessissimo nel decennio successivo in grandi classici del poliziottesco italiano.
Una menzione particolare per il grande Tomas Milian (il commissario di polizia) che qui quasi stentiamo a riconoscere, tanto lontano è dalla sua più nota immagine del “Monnezza”, e per l’allora giovanissima Carla Gravina, alla quale fu riservato poco più di un cameo.

Ma che dire di questo “Banditi a Milano”? È un film di pura cronaca, che ripercorre esattamente gli avvenimenti così come sono accaduti, senza lasciare il minimo spazio alla fantasia o all’improvvisazione. Anche una semplice frase come quella che esce dalle labbra di Cavallero in fuga, preoccupato che la sua famiglia possa soffire a causa sua (“Una sola cosa da fare: arrivare a Torino, far fuori mia moglie e mia madre e poi spararmi”) è un particolare colorito ma realmente accaduto. Per sottolineare l’estrema aderenza ai fatti, Carlo Lizzani decide di inserire un lungo “cappello” iniziale, girato sullo stile dei vecchi cinegiornali (chi frequentava i cinema trenta o quarant’anni fa certemente se li ricorderà), un’introduzione che riassume il fenomeno malavitoso delle realtà urbane di quegli anni. Una scelta che lascia spiazzati e che, coraggiosamente, sfida lo spettatore a proseguire sulla fiducia o ad abbandonare la visione.
Ho usato l’aggettivo “coraggioso” non a caso. "Banditi a Milano"è indubbiamente un film coraggioso sotto tutti i punti di vista: basti pensare alla non facile necessità di dover mettere in scena un inseguimento per le strade di Milano solo pochi mesi dopo i fatti, quando il ricordo della strage era ancora così vivido e l’asfalto era ancora caldo del sangue dei suoi concittadini.
Oggi film del genere non se ne fanno più. E quando dico “del genere” intendo dire “di tale spessore”, perché, inutile negarlo, la cronaca continua incessantemente a fornire idee alla finzione cinematografica. Ma i casi di oggi non sono più adatti al grande schermo. I casi di oggi finiscono in prima serata sui canali Mediaset e, come a preannunciarne la vuotezza, vengono chiamati “fiction”. Pensate per un attimo al cast di “Banditi a Milano” e confrontatelo con quello che oggi dovrebbe esserne l’eredità: ebbene, pur con tutto il rispetto per Raoul Bova e Claudia Pandolfi, siamo davvero su un altro pianeta.

"Banditi a Milano" non può che finire nei CULT per direttissima!

Sei donne per l'assassino

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Secondo appuntamento con Obsploitation: Rewind e secondo ripescaggio nella memoria più remota del sottoscritto: questa volta si tratta del leggendario "Sei donne per l'assassino" di Mario Bava, altro film che definire fondamentale è quasi riduttivo.
Era il 26 marzo 2014 la data in cui decisi di far uscire la recensione che tra qualche istante andrete a leggere o a rileggere. Praticamente è passato un secolo.
A quel tempo, ricordo, fui a lungo combattuto sulla scelta di far uscire l'articolo su questo blog oppure di proporlo su Obsploitation: Mario Bava ben si adattava infatti all'impostazione che avevo dato al The Obsidian Mirror delle origini e, quasi senza farlo apposta, non era poi nemmeno molto che avevo intrattenuto i miei quattro lettori di allora con le recensioni de La maschera del demonio e de La frusta e il corpo, due tra i miei personali guilty pleasures firmati dallo stesso regista sanremese. Come andò poi a finire ormai lo sappiamo ma, stavo riflettendo, quale migliore occasione di questo rispolvero estivo per mettere una definitiva parola fine a quel tarlo di coscienza?
Dopo Banditi a Milano di Carlo Lizzani, che ha inaugurato il filone poliziottesco, quale naturale proseguimento potrebbe essere meglio di “Sei donne per l’assassino", unanimemente riconosciuto come il primo giallo all’italiana della storia?

È bene a questo punto precisare che, secondo una diversa scuola di pensiero, Mario Bava avrebbe inaugurato il filone già due anni prima con il classicissimo “La ragazza che sapeva troppo” (1962), film di indubbio valore che però inserirei più propriamente in una categoria di stampo più, ehm, diciamo “hitchcockiana”, sia per il chiaro riferimento a “L’uomo che sapeva troppo” (1934 e 1956), sia per il tema della follia (come movente, ma non solo), sia per l’utilizzo del bianco e nero che rievoca le atmosfere dei migliori lavori del regista inglese (“Psycho” usciva tra l’altro proprio in quegli anni). Ma vediamo cosa scrissi su Obsploitation quattro anni fa a proposito di “Sei donne per l’assassino"...

Questo “Sei donne per l’assassino” è innegabilmente diverso. Si direbbe siano passati vent’anni da “La ragazza che sapeva troppo”. Le atmosfere sono completamente diverse. Qui c’è innanzitutto il colore, che diamine! Mario Bava ha mostrato al mondo come girare le scene di suspense in Technicolor! E quel  colore non è assolutamente lo stesso colore dei film “hitchcockiani” a lui contemporanei (“Gli uccelli”, 1963 e “Marnie”, 1964). La fotografia di “Sei donne per l’assassino” è satura di rosso, il rosso del sangue, e di giallo, quel giallo che solo pochi anni dopo un certo Dario Argento avrebbe trasformato in un fenomeno di massa.

Ed è molto facile per chi conosce a memoria ogni singola scena girata da Dario Argento, da “L’uccello dalle piume di cristallo” (1970) a “Opera” (1987), ritrovare in questo Bava tutti gli ingredienti che codificheranno il giallo all’italiana e ne faranno un genere che tutto il mondo ci avrebbe invidiato e che, con risultati spesso discutibili, ci avrebbe copiato. Troviamo per la prima volta in questo Bava la figura dell’assassino psicopatico che si aggira nell’ombra indossando un impermeabile nero e guanti dello stesso colore, lo stesso del già citato “L’uccello dalle piume di cristallo” e di “Profondo Rosso” (1975). Troviamo per la prima volta in Bava una macchina da presa che riprende le scene degli omicidi utilizzando l’allora rivoluzionaria soggettiva dell’assassino, il tutto condito da litri di sangue, efferata ed insistita violenza negli omicidi e, naturalmente splendide e seducenti ragazze. Ma le analogie non si fermano qui: come non riconoscere nella suggestiva scena iniziale, girata all’esterno di una villa nel corso di un temporale, la scena iniziale di "Suspiria” (1977)? Come non riconoscere nell’atelier della contessa Cristiana Cuomo, fulcro pulsante di questo “Sei donne per l’assassino”, la prestigiosa accademia di danza di Friburgo, che Argento avrebbe scelto come dimora per una delle sue “tre madri”? E come non riconoscere la scena dell’annegamento di una ragazza nella vasca da bagno la stessa identica scena che Dario Argento utilizzerà in “Profondo Rosso”? Dario Argento, è vero, aggiungerà poi un tocco sadico tipico dei suoi film, scegliendo di utilizzare l’acqua bollente, ma quasi certamente lo farà mutuando un altro omicidio presente nel capostipite baviano.

Se siete arrivati a leggere fin qui sperando di trovare uno straccio di trama o un riassunto in poche righe di ciò che succede in “Sei donne per l’assassino”, beh, mi dispiace di avervi deluso. Nei limiti del possibile cerco sempre, in generale, di evitare di dilungarmi con parole che si possono facilmente trovare altrove. Preferisco accennare alle sensazioni che un film mi ha trasmesso. E questo film in particolare regala diverse sensazioni contrastanti: la paura e l’angoscia, naturalmente, ma anche il fascino della sua maestosa fotografia, del sapiente mix di luci e ombre, dei suoi contrasti tra il giorno e la notte. L’ambiente principale è quello di un atelier di alta moda, di giorno popolato da favolose modelle, vocianti ragazze che rendono l’atmosfera ariosa, allegra e positiva. Nello stesso luogo di notte non rimangono che nudi manichini, che lo trasformano in un luogo da incubo, nell’anticamera di un inferno dove, ad ogni passo può celarsi il più terribile dei pericoli. Lo stesso contrasto lo troviamo anche negli esterni, o nella “bottega” antiquaria dove qualcuno andrà incontro al proprio destino. E cosa c’è di più inquietante di un ambiente notturno pieno di manichini, se non un ambiente notturno pieno di oggetti di antiquariato? All’inizio parlavo, tutt’altro che impropriamente, di “gotico”: tecnicamente manca solo il castello e un paio di fantasmi per fare di “Sei donne per l’assassino” un gotico puro ma, se provate a dare uno sguardo alla magnificenza di Villa Sciarra a Roma, che nel film ha prestato le sue stanze al suddetto atelier, capirete da soli che ai canoni del gotico ci andiamo davvero molto vicino.

Ricordo che la prima volta che vidi “Sei donne per l’assassino”, molto tempo fa, non feci molta attenzione a ciò che avevo davanti agli occhi. Non avevo capito. Lo scambiai per un filmetto come tanti altri, quelli di cui non vale la pena conservare nemmeno il più flebile ricordo. Così feci, infatti, e me ne dimenticai al punto che qualche giorno fa, nel corso di una seconda visione (quella che in realtà credevo essere la prima), ne ricavai, prima solo una sensazione, poi lentamente con il passare dei minuti, una ferma certezza di deja-vu. Come avevo potuto, proprio io, rimuoverlo dalla memoria in quella maniera? La realtà è che, sebbene “Sei donne per l’assassino” abbia segnato un importante solco, la sua trama e, più in generale, il suo ritmo risultano nel loro insieme un po’ claudicanti e, agli occhi dello spettatore disattento, la visione potrebbe risultarne in un certo qual modo deludente. Tutto ciò non toglie però un grammo dal suo valore complessivo e, seppure altri film di Mario Bava risultino essere invecchiati meglio, vale la pena dedicare un paio d’ore della propria vita per recuperare un pezzo di storia del cinema, un cinema che oggi non siamo ahimè più in grado di fare.

Non serve discuterne: come potrebbe questo film non essere un CULT?

Il medaglione insanguinato

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Spoletium, 241 a.C.: sulle pendici del Monteluco, presso una curva del torrente Tessino, affluente del Maroggia, in posizione assai ridente per la chiostra di montagne verdeggianti che le fanno corona, un insediamento, le cui origini affondano nella preistoria, diviene colonia romana. Spoletium, 571 d.C.: strappata dai longobardi al dominio bizantino, la città diviene sede di un vasto e potente ducato. Spoletium, 1155 d.C.: la città, ancor florida e potente sebbene il ducato si avviasse alla decadenza, viene assalita e distrutta da Federico Barbarossa. Spoletium, 1775 d.C.: una bambina scompare in circostanze misteriose mentre, in quello stesso istante, un quadro appare improvvisamente su una delle pareti del soggiorno di una villa fuori città. Per entrambi gli avvenimenti, apparentemente slegati tra di loro, non viene trovata alcuna spiegazione. Resta indiscutibile la straordinaria somiglianza tra la bambina scomparsa e una figura al centro del dipinto. Spoleto 1975 d.C.: la città presenta un aspetto vetusto, con i suoi numerosi edifici medievali e del Rinascimento, le vie strette e tortuose, spesso a cordonata, e i numerosi cavalcavia. Il quadro è allo studio degli esperti. Una figura in bianco, apparentemente una bambina, cerca di sfuggire terrorizzata ad un gruppo di persone (contadini?) armate di falci e bastoni. Il suo sguardo è rivolto verso l’alto, in direzione di una seconda figura femminile, adulta, che precipita nel vuoto circondata dalle fiamme. Sovrasta l’intera scena una figura demoniaca, che si staglia, appena distinguibile se non fosse per il suo colore rosso fuoco, sulle nuvole sullo sfondo.

Fu con l'incipit qui sopra che il 20 giugno 2014 The Obsidian Mirror si congedava temporaneamente dai suoi lettori, trasferendo armi e bagagli a Karpathos, nel Dodecaneso, sulle cui spiagge il sottoscritto avrebbe poi trascorso un paio di settimane in totale ozio. L'idea di inserire quell'incipit, con il rimando ad un post programmato per uscire su Obsploitation due giorni più tardi, mi parve ottima: avrebbe creato quel tocco di mistero e di conseguenza avrebbe trascinato l'audience, o almeno così speravo, verso l'appuntamento previsto. Il dettaglio che si trattasse della recensione di un film non fu dichiarato, anche se la natura stessa di Obsploitation lo suggeriva.
Ad ogni modo fu così che il 22 giugno ripresi dal punto in cui mi ero interrotto...

Spoleto 1975 d.C.: il regista Massimo Dallamano presenta il suo ultimo film, “Il medaglione insanguinato”, la storia di un documentarista britannico, interprato da Richard Johnson, inviato nella città umbra dalla BBC per una ricerca sull’iconografia demoniaca. Egli si troverà a dover far luce sulla vicenda di un misterioso dipinto apparso misteriosamente in quei luoghi due secoli prima.

Ce n’era abbastanza per attirare la mia attenzione, non credete? Come potrebbe un blogger appassionato di leggende e misteri rimanere indifferente di fronte a simili presupposti? Se poi aggiungiamo il fatto che la figlia del protagonista (Emily) era la fotocopia sputata della bambina scomparsa nel 1700 (guarda caso, Emilia), allora c'erano abbastanza elementi per mettersi a scrivere...

In realtà avrei tanto voluto arrivare a scrivere, ad un certo punto, che la storia del quadro e della bambina scomparsa, raccontata da Dallamano, avesse qualche fondamento reale. Avrei voluto magari poter scrivere che il quadro esiste davvero e che è conservato e tuttora visibile presso qualche museo o, meglio ancora, appeso alla parete di un’antica chiesa spoletina. Purtroppo, ahimè, non è così. Nonostante le mie affannose e speranzose ricerche in rete non ho potuto che giungere alla conclusione che si tratta di pura finzione cinematografica. Lo stesso quadro, che ho sopra descritto e che vedete in un’immagine a corredo di questo articolo, non è altro che una tela dipinta apposta per l’occasione. Sono spiacente se qualcuno dei miei lettori sia rimasto deluso, ma è la triste realtà. Anzi, no. Ora che ci penso quel quadro, anche se farlocco, da qualche parte deve pur essere finito, magari in un magazzino dimenticato a Cinecittà. Una ricerca pertanto potrebbe anche essere possibile ma, evidentemente, l’impresa è quasi disperata e, detto tra noi, molto poco interessante.

Decisamente più interessante è invece la carriera di Massimo Dallamano, regista milanese prematuramente scomparso, autore di pellicole cult come “Cosa avete fatto a Solange?” (1972) e “La polizia chiede aiuto” (1975). Una carriera cinematografica che Dallamano iniziò, nelle vesti di direttore della fotografia, partecipando a due pietre miliari del western all’italiana, vale a dire “Per un pugno di dollari” (1964) e “Per qualche dollaro in più” (1965) del grande Sergio Leone. Mica pizza e fichi. Vale la pena aggiungere che, come il protagonista de “Il medaglione insanguinato”, anche il nostro regista vanta radici da documentarista: tra i suoi “successi” Dallamano può infatti annoverare le riprese che riuscì a fare a Mussolini e alla Petacci quel 29 aprile 1945 in Piazzale Loreto.

Massimo Dallamano realizza questo “Il medaglione insanguinato” e lo fa affidandosi completamente alla grande espressività dell’allora undicenne Nicoletta Elmi, la ragazzina simbolo del giallo all’italiana anni Settanta. Scoperta da Mario Bava (“Reazione e catena”, “Gli orrori del castello di Norimberga”) e già protagonista in capolavori come “Chi l’ha vista morire?” (Aldo Lado, 1972) e “Le orme” (Luigi Bazzoni, 1974), la piccola Nicoletta Elmi viene forse ricordata maggiormente per la sua breve apparizione nella parte dell’inquietante Olga di “Profondo Rosso” (Dario Argento, 1975) o forse, con mio sommo dispiacere, per la parte dell’adolescente dark Benedetta Valentini nella serie TV demenzial-popolare “I ragazzi della 3°C” (1987-88).

Scelta azzeccatissima quella di Dallamano: nonostante la giovane età, Nicoletta Elmi riesce a bucare letteralmente il video, rubando la scena ad affermate stelle internazionali del calibro di Joanna Cassidy (Blade Runner, Fantasmi da Marte), Richard Johnson (Incubo sulla città, Operazione Crossbow), Lila Kedrova (Zorba il greco, L’inquilino del terzo piano) e Ida Galli (La dolce vita, Il gattopardo). Riguardare oggi la piccola Nicoletta è un’esperienza incredibile. Abituati come siamo a vedere all’opera pseudo-attori incapaci di una minima espressione (e non sto parlando solo di bambini), ci fa rimpiangere un’epoca in cui potevamo, orgogliosamente, mostrare al mondo un simile talento. Un’incredibile capacità, la sua, di oscillare tra la figura della giovane vittima innocente e quella del demone infernale. In altre parole una presenza che mette davvero paura, dalla prima all’ultima scena. Decisamente più azzeccato quindi è il titolo internazionale (“The Night Child”) che perlomeno centra in pieno, anche se avrebbe potuto farlo meglio, il vero fulcro attorno a cui ruota la narrazione. Il titolo italiano e, peggio ancora il sottotitolo (“Perché?”), è assolutamente fuorviante e, personalmente, mi ha fatto storcere un po’ il naso.

Altra grande protagonista di questa pellicola è senza ombra di dubbio la città di Spoleto, con i suoi vicoli, le sue piazze e i suoi monumenti. Tra un’inquadratura e l’altra ci soffermiamo a visitare la chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, con un affresco raffigurante l'uccisione di Thomas Becket, attraversiamo il Ponte delle Torri, citato da Goethe nel suo “Viaggio in Italia”, ci fermiamo a bere una cosa in piazza della Signoria, a pochi passi dal Duomo. Il tutto accompagnato dalle bellissime musiche di Stelvio Cipriani. A chi non l’ha mai visitata dico “guardatevi questo film e vi verrà voglia di farlo”.

Con questi presupposti “Il medaglione insanguinato” non può che essere un grande film, anche e soprattutto per la grande mano del regista e del direttore della fotografia, che sono stati capaci di dosare immagini e colori in maniera sorprendente e vivace. Eppure… eppure alla fine un po’ di amaro in bocca rimane. Sarà per via del finale telefonato, sarà per via di una sceneggiatura che fa acqua da tutte le parti, con dei dialoghi improbabili e delle situazioni a dir poco grottesche. “Il medaglione insanguinato” è un film che è partito in quarta, con grandi idee e grandi potenzialità, ma che alla fine, per qualche incomprensibile motivo, si è un po’ perso per strada. È un peccato perché le basi per diventare un film immortale come il già citato “Profondo Rosso” o come, giusto per fare un altro esempio, “La casa dalle finestre che ridono” (Pupi Avati, 1976) c’erano tutte. È un peccato anche perché Massimo Dallamano era arrivato a tanto così dal fare il botto e, di sicuro, se un incidente stradale non ce lo avesse portato via a soli 59 anni sarebbe riuscito a raggiungere l’Olimpo dei più grandi.

Un’ultima doverosa nota per commentare le illazioni relative al fatto che questo film celerebbe messaggi pedofili e incestuosi. Sono presenti, in effetti, alcuni momenti in cui l’attaccamento della piccola Emily al genitore rasenta il patologico. Il suo tentativo di escludere tutte le donne che si avvicinano al padre ha un qualcosa di troppo esageratamente immaturo per non essere notato. Emily, orfana di madre, amplifica al massimo il sentimento verso il genitore superstite e in lei, credo che questo sia perfettamente comprensibile, emerge prepotente il complesso di Edipo. Come è noto, tutti i bambini nella prima infanzia “amano” inconsciamente il genitore di sesso opposto e, in un certo senso, “odiano” l’altro, in cui vedono un rivale a e cui vorrebbero sostituirsi. Nessuno di noi solitamente ha memoria di quel periodo e di questi sentimenti ma, secondo Freud, essi possono ripresentarsi nei nostri sogni di adulti. Nel nostro caso Emily si trova a metà strada tra l’infanzia e l’età adulta, ha subito una grave perdita nel suo recente passato e, per non farsi mancare nulla, viene trapiantata in una Spoleto inquietante dove le viene ventilata la possibilità di essere la reincarnazione di una strega che lì visse e lì fu messa al rogo duecento anni prima.
Niente messaggi incestuosi e pedofili, quindi. Massimo Dallamanoè stato anzi bravissimo a plasmare correttamente la psicologia di una undicenne calata in una situazione complessa. Il fatto che qualcuno poi abbia colto significati diversi mi pare un po’ tirato per i capelli.

Non gli mancava poi molto per diventare un cult... peccato.

Avere vent’anni

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«Avevo vent'anni... Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.» (Paul Nizan)

Quando uscì questo articolo,  il 29 novembre 2014, Obsploitation stava già affrontando i primi suoi periodi di crisi. Quasi due mesi erano trascorsi dal post precedente e c'erano già i primi segnali che l'idea di poter gestire un secondo blog, parallelo ad Obsidian Mirror, fosse lì lì per naufragare.
Furono due gli avvenimenti che mi diedero modo di uscire dal torpore. In primo luogo l'iniziativa sorta in seno al solito gruppo di blogger cinefili, che avevano lo scopo di diffondere sensibilità attorno ad un argomento spinoso al quale, ahimè, non si dedica mai abbastanza attenzione, vale a dire la ricorrenza del 25 novembre, giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne. I blogger coinvolti, tre al giorno, si impegnarono a pubblicare un articolo sull'argomento a partire appunto dal 25 novembre di quell'anno e fino alla fine del mese.
In secondo luogo ci fu la prematura scomparsa di una delle regine della commedia sexy all’italiana anni Settanta. Sto parlando naturalmente di Lilli Carati, all’anagrafe Ileana Caravati, giovane interprete di B-movies oggi elevati allo stato di cult e, in questi ultimi anni forse ancora più di allora, icona exploitation fra le più desiderate.

A coloro che si aspettavano un post-necrologio che, in quattro e quattr’otto, si trasformasse nella solita divagazione perbenista sugli anni più travagliati della vita di Lilli Carati, risposi che no, non era Obsploitation il posto giusto da cui mettersi a sparare sentenze. Lilli Carati non era più tra di noi e tutto quello che era stato detto e fatto non aveva più importanza. Era giunto il momento del silenzio. Era giunto il momento di ricordare Lilli Carati nella versione splendida che seppe offrire alla macchina da presa di Fernando Di Leo nell’ormai lontano 1978. Ecco cosa ne scrissi all'epoca.

Considerato uno dei film più controversi del regista pugliese, “Avere vent’anni”, visto oggi con gli occhi di un adulto che ne ha passate di ogni, può apparire una boiata stratosferica. Nulla da eccepire e, se devo proprio ammetterlo, rivedendolo qualche giorno fa prima di scrivere questo post, sono arrivato a perdermi, per sopravvenuto sonno, anche la famosa scena di letto fra la Carati e Gloria Guida.
Non è così strano, ve lo assicuro. Abituato ormai da anni a considerare Fernando di Leo come l’Autore ispirato di pellicole quali “Brucia ragazzo brucia” o “I ragazzi del massacro”, sembra quasi incredibile che questo “Avere vent’anni” possa portare la sua firma. Almeno per i primi nove decimi del film. Almeno fino a quella allucinante scena finale, che si sgancia prepotentemente dalla insulsaggine che permeava il film fino a quel momento per trasformare improvvisamente “Avere vent’anni” da dimenticabile a indimenticabile.

E pensare che quel violentissimo finale, dove le due ragazze venivano violentate a morte e in cui la nostra Lilli Carati finiva sventrata con un ramo piantato nella vagina, fu tagliato dalla censura e proiettato nelle sale cinematografiche in una versione edulcorata che ne sovvertiva completamente il significato. Privato di quel finale, di “Avere vent’anni” rimangono solo le allegre imprese di due belle ragazze alla ventura, tra un espediente e l’altro e tra un letto e l’altro. Una sequenza di situazioni boccaccesche che si possono riassumere nella battuta che le sue protagoniste non fanno che ripeterci per novanta minuti: “Sono giovane, bella e incazzata”.
Alla luce di quel finale, recuperato con un quarto di secolo di ritardo solo nella versione integrale datata 2004, quel “Sono giovane, bella e incazzata” acquista un significato più sinistro. Essere belle, giovani e incazzate negli anni Settanta non pagava, ci stava dicendo Fernando Di Leo. Va bene la liberalizzazione sessuale, va bene l’emancipazione, va bene la contestazione, ma… se eri una donna, allora era diverso, perché quegli furono sì anni formidabili, ma lo furono solo per gli uomini. Un messaggio forte e controcorrente sebbene, vale la pena precisarlo, “Avere vent'anni” sia stato realizzato con un decennio di ritardo rispetto agli evocati anni della contestazione. Tutto ad un tratto quel film, guardato distrattamente mentre si è intenti a fare altro, smette di essere quello che sembra e ti pianta un calcio improvviso negli attributi, lasciandoti indifeso come una sardina in un convegno di gatti.

È proprio qui che scopriva le sue carte quel regista che temevi essersi perso per strada, risucchiato dalle tentazioni erotiche degli anni del riflusso. Fino a quel momento eri pronto a bocciare implacabilmente quella direzione troppo poco convinta e quella sceneggiatura maldestra… e invece… invece…
A livello interpretativo, per inciso, il livello rimane uno schifo: delle performance delle due attrici rimane, anche con tutta la buona volontà, ben poco da salvare. Mi dispiace. Avrei davvero voluto spendere ben altre parole per questo post di commiato da Lilli Carati ma, in tutta onestà, non mi sento di mentire. Posso solo dire che Lilli Carati riusciva, in “Avere vent’anni”, ad imporre la propria personalità in maniera abbastanza convincente, prevalendo nettamente sulla sua insipida collega bionda e su tutti i personaggi di contorno, inclusi quel Vincenzo Crocitti o quel Ray Lovelock le cui lunghe carriere artistiche potevano lasciar sperare in ben altro. Ci tengo a precisare, per il rispetto che ho dell’arte, che è escluso dalla lista dei bocciati il compianto Vittorio Caprioli, uno dei maggiori talenti che il nostro cinema abbia mai avuto (qui nel macchiettistico ruolo di Michele Palumbo, detto "il Nazariota").

Ditemi voi se non è un cult questo....

Cani arrabbiati

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Rileggere oggi l'articolo che scrissi su Obsploitation il 25 maggio 2015 è straniante. Avevo già più volte in precedenza esaltato l'operato di Mario Bava, indiscutibilmente uno dei miei registi preferiti, ma quella volta le cose andarono diversamente. Non dico che nella mia recensione lo feci a pezzi (sarebbe stato irrispettoso), e nemmeno finii per dire che non mi piacque (perché in fin dei conti non fu così), ma non riuscii a trattenere quel certo disappunto che sono sicuro traspare in diverse occasioni, specialmente nella "chiusa" dove scrissi, senza mezzi termini, che mi parve solo un "gran bell'esercizio di regia".
Un giudizio piuttosto duro che, oggi a mente fredda, mi chiedo se non fosse un tantino esagerato.
Avevo visto per la prima volta "Cani arrabbiati" solo nei giorni precedenti alla mia recensione, sebbene da diverso tempo quel titolo mi strizzasse l’occhio, e da allora non ho più avuto l'occasione di affrontarlo di nuovo. Non ne conservo un ricordo nitidissimo e devo ammettere che, se non mi fossi andato a rileggere tutto questo, non avrei davvero saputo cosa rispondere a un ipotetico interlocutore che mi ponesse la domanda "Lo hai visto? Ti è piaciuto?".
Eppure, quel twist finale che ai tempi definii "un po' troppo telefonato" mi appare oggi come un'idea grandiosa. Possibile che in soli quattro anni un parere possa cambiare diametralmente? O forse è solo un'illusione legata a un ricordo che nel tempo si è alterato? Dovrei andarmelo a rivedere per poter rispondere... Nel frattempo, vi lascio con l'articolo incriminato.


La genesi di “Cani arrabbiati” è soffertissima: roba da Guinness dei primati. Completata attorno alla metà degli anni Settanta, la pellicola, a causa di una sequenza infinita di problemi, da quelli economici (il fallimento della casa di produzione) ai soliti scazzi con la censura, arriva sugli schermi con vent’anni di ritardo e grazie soprattutto all’ammirevole impegno di Lea Lander Kruger, la protagonista femminile del film, che ne recupera i diritti e lo fa riemergere dall’oblio. Proiettato per la prima volta al BIFF di Bruxelles nel 1995, “Cani arrabbiati” avrà bisogno di ulteriori dieci anni per arrivare in Italia, grazie ad un passaggio su Sky datato 2004 con il titolo misteriosamente cambiato in un meno consono “Semaforo rosso”.

Tra l’altro, sempre a proposito di titoli, va precisato che “Cani arrabbiati” è stato presentato anche all’estero in diverse versioni e con montaggi diversi. Si dice che ne esistano addirittura sei versioni differenti, nelle quali sono state inserite (o rimosse, se preferite) scene in testa e in coda alla pellicola. Scelte a mio parere discutibili perché l’originale baviano funziona benissimo così com’è, senza la necessità di lunghi spiegoni finali o di lunghe introduzioni, che non fanno altro che annoiare (le prime) o spoilerare (le seconde). L’originale “Rabid Dogs” (questo il titolo inglese) si è trasformato nel 2002 in “Kidnapped”, titolo che rivela molto di più di quanto era forse nelle intenzioni del suo Autore.
Scrivere qualcosa sulla trama è un gioco da ragazzi, tanto apparentemente semplice è la storia narrata: il solito gruppo di banditi, dopo aver rapinato un portavalori, si dà alla fuga in auto mentre, neanche a dirlo, una volante della polizia si getta al suo inseguimento. Tipico incipit di quasi tutti i poliziotteschi dell’epoca, a quanto pare. Uno dei banditi esce di scena quasi subito (un classico), mentre i tre superstiti si tolgono dalla brutta situazione prendendo in ostaggio due ragazze: una delle due viene sgozzata subito mente l’altra, Maria, non sarà altrettanto fortunata.
Fuggire con un'auto già segnalata non è mai una buona idea e, altro passaggio obbligato del poliziottesco, giunge quindi ben presto il momento di trasferirsi tutti, ostaggio compreso, su una vettura diversa. Il caso vuole che i malviventi incrocino la loro strada con quella di Riccardo, un uomo che sta trasportando d’urgenza il figlioletto morente all’ospedale: approfittando di un semaforo rosso il cambio macchina è cosa fatta e (contando anche il bambino) gli ostaggi, da questo momento in avanti, diventano tre. È qui che il film prende una piega diversa e si trasforma in un road movie cattivissimo ambientato, quasi completamente, sull’autostrada assolata di un pomeriggio di metà estate.

Niente corse folli tra le strade di una città, quindi, niente inseguimenti, niente incidenti, niente semafori rossi saltati con conseguenti capottamenti di malcapitati cittadini, niente bancarelle di frutta travolte e spazzate via, niente di niente. Inaspettatamente, l’ora abbondante che ancora ci separa dai titoli di coda viene (quasi) tutta girata all’interno del circoscritto abitacolo della macchina, tra pianti, lamenti e qualche imprevisto di troppo, inclusi maldestri tentativi di fuga da parte dell’ostaggio femminile e occasionali violenze da parte dei malviventi, sempre più nervosi con lo scorrere dei minuti. La narrazione perde così molto del suo ritmo, ma ne guadagna in claustrofobia e la convivenza forzata getta le basi per i successivi avvenimenti. Ben presto si scatena il conflitto non solo fra gli ostaggi e i rapi(na)tori, ma anche fra i tre complici, e mentre il caldo asfissiante  esacerba gli animi già sovreccitati la prospettiva della fine del viaggio, un non ben precisato luogo indicato dal capobanda, evoca timore e sollievo insieme. Non vi racconterò altro, se non che nel finale arriverà un twist che darà a tutto un bel colpo di spugna, anche se va detto che quello che era pensato come un colpo di scena noi, spettatori del duemila, lo avevamo intuito da molto tempo.

Una menzione speciale va alle ottime interpretazioni, che riescono a risollevare in maniera decisiva le sorti del film. Prima fra tutte quella del sempre sottovalutato Don Backy, che rende in maniera perfetta il personaggio dell'omicida schizofrenico a lui assegnato (chiamato “Bisturi” per via dell’arma da lui prediletta per affettare chiunque gli si pari davanti); di George Eastman (all'anagrafe Luigi Montefiori), un volto perfetto per il personaggio di “Trentadue” (nome che fa riferimento alle sue parti basse), anche lui completamente folle e con l’aggravante delle sue evidenti turbe da maniaco sessuale all’ultimo stadio; di Maurice Poli, che con la sua calma e fermezza e i lineamenti che paiono scolpiti nella roccia incarna perfettamente la fisionomia dell'aristocratico “Dottore”, colui che, all’interno della banda, si rivela essere l’unico con i piedi per terra; di Riccardo Cucciolla nella parte dell'ostaggio maschile, il tenero padre di famiglia che tradisce però un'imperscrutabilità di fondo della quale scopriremo la ragione soltanto sul finire; ma soprattutto di Lea Lander Kruger, personaggio femminile e vittima predestinata, che riesce a intensificare il livello di angoscia anche quando il film, com’è naturale, inizia a mostrare palesi cenni di cedimento.

Restringere fisicamente di molto il campo d'azione permette alla regia di non distogliere mai l'attenzione da alcuno dei personaggi (eccetto il bambino che, difatti, rimarrà privo di sensi per tutto il tempo), le cui interazioni portano un po' bidimensionalità a figure che altrimenti, probabilmente, sarebbero state rese in modo più macchiettistico. In tal senso, che piaccia oppure no, questa a mio parere si rivela una scelta vincente.
Ancora una volta, con questa pellicola, Mario Bava apre una nuova strada: dopo aver tracciato il solco del giallo all’italiana con “Sei donne per l’assassino” (1964), il nostro reinterpreta il filone del poliziottesco, mettendo da parte i classici topoi del genere, e realizza qualcosa di decisamente diverso. Un film opprimente e claustrofobico il cui meccanismo di fondo sarà più volte riutilizzato negli anni a venire: basti pensare a “Le iene” di Tarantino (Reservoir Dogs, 1997), il cui titolo la dice lunga su quanto il regista americano abbia tratto ispirazione, per l’ennesima volta, dalle nostre parti.
Questo è dunque un film che consiglierei? Aldilà del suo valore storico e delle vicissitudini produttive che lo hanno portato ad divenire un cult, “Cani arrabbiati” è un Bava anomalo, molto diverso da quelli che personalmente definisco capolavori. Pare più un esercizio di regia che un prodotto cinematografico con un preciso scopo ed intento artistico. Un calo d'attenzione durante la visione del film è inevitabile, considerata la monotona ambientazione e le oggettive difficoltà nello sviluppare situazioni che si discostino dall’idea di base, il che ad un certo punto porta lo spettatore a chiedersi quando mai avranno fine quei novanta minuti. Il finale, per quanto geniale e ben congegnato per l'epoca, è come ho già detto ampiamente telefonato e ciò non aiuta a risollevare le sorti della pellicola.

Magari ai tempi non mi era nemmeno piaciuto, ma questo film rimane indubbiamente un oggetto di culto

Play Motel

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La fine di agosto si avvicina e con essa arriva al capolinea anche questo piccolo speciale dedicato ai ripescaggi cinematografici dal blog che c'era una volta e che ora non c'è più.
In un certo senso è stato come salire in soffitta e riaprire quel vecchio baule della nonna sepolto dalla polvere dei secoli: in mezzo a tanta fuffa qualcosa di buono torna sempre alla luce.
Inizio solo ora a spiegarmi il motivo per cui il progetto Obsploitation, nella sua forma originale, finì per perdersi. Credo fosse principalmente per via del suo essere monotematico. Scrivere di cinema è piacevole, soprattutto se si tratta di un cinema che si è sempre apprezzato e, in certi casi, anche idolatrato, ma rimane pur sempre un'attività limitante.
Il blog su cui siete oggi, e che tra pochi giorni riprenderà il suo corso normale, ha il pregio di non annoiarmi mai, cambiandosi così frequentemente l'abito. Dopo un agosto di Obsploitation, che si somma ad un luglio altrettanto pregno di argomenti cinefili, inizio a percepire un po' di nausea ed è ora di correre decisamente ai ripari.
Sarà un caso, ma la recensione di "Play Motel" che ripropongo oggi fu anche l'ultima che scrissi per Obsploitation prima della sua chiusura. Era il 18 settembre 2015...

Scrivere un articolo su “Play Motel”, lungometraggio girato nel 1979 dal semisconosciuto regista biellese Mario Gariazzo, non è cosa semplice. Innanzitutto ne è difficile la catalogazione: potrebbe essere un giallo all’italiana con delle sfumature softcore, spesso confinanti nell’hard, oppure un semplice crime-movie demenziale sfociante nel grottesco. In qualunque modo la vogliamo guardare, questa pellicola prende e mette insieme il peggio dei vari generi a cui s’ispira ma, per quello strano fenomeno che mai capiremo, qualcuno è riuscito pure a elevarla a livello di cult, pur se limitatamente alla scena trash. Per “Play Motel” Gariazzo dispone di una squadra con due punte d’eccezione: una venticinquenne Anna Maria Rizzoli, all’apice del suo splendore, e il leggendario Ray Lovelock, indiscusso protagonista del poliziottesco italiano di quegli anni. Poteva il nostro buon Mario Gariazzo, con siffatto biglietto da visita, scaraventare nel cesso un’occasione dalle potenzialità così evidenti? Ebbene sì, tutto ad un certo punto finì nel cesso. Ma fu non certo colpa sua.
Alla fine degli anni Settanta il cinema italiano stava ormai raschiando il barile in tutti i suoi generi più acclamati all’estero: il giallo all’italiana era ormai stato mostrato in tutte le sue salse e l’erotic-horror aveva già sparato quasi tutte le sue cartucce per mano del solito Joe D’Amato. In ogni caso, le due cose messe assieme non generarono mai nulla di buono e “Play Motel” ne fu la definitiva conferma.
In un cinema italiano ormai alla canna del gas, di fronte ad un pubblico ormai palesemente orientato verso un erotismo sempre più esplicito, i produttori cercavano di virare la loro offerta sulla morbosità del nome di grido inserito in un contesto a luci rosse. In uno scenario del genere furono centinaia, se non migliaia, le pellicole massacrate a posteriori da inserti hard non previsti dal copione originale e uno di questi, come avrete indovinato, fu proprio “Play Motel”. Mentre Gariazzo dirigeva Lovelock e la Rizzoli, convinto di avere tra le mani la possibilità di realizzare un giallo in stile Dario Argento (indiscutibili alcuni omaggi a “Profondo Rosso” inseriti dal regista piemontese nel girato originale), la produzione, in gran segreto, stava già lavorando agli inserti hard da inserire nella versione definitiva.
Altrove, infatti, un terzo nome “di grido” stava già girando le sue parti davanti a una diversa cinepresa: era la discussa attrice e modella svedese Marina Hedman Bellis, meglio conosciuta con il nome d’arte di Marina Lotar (o se preferite Marina Frajese), una delle più controverse stelle del firmamento porno anni Ottanta. Quando la faccenda venne infine alla luce gran parte del cast ufficiale, tra cui Ray Lovelock, Anna Maria Rizzoli e lo stesso regista Mario Gariazzo, fece le valige e se ne andò sbattendo la porta, abbandonando il film al suo destino. Nulla di grave, perlomeno dal punto di vista degli imperturbabili produttori: il film uscì infine nelle sale e, perlomeno nella versione che è giunta sino a noi, il primo quarto d’ora è infatti totalmente appannaggio di Marina Lotar, alla quale viene semplicemente richiesto di fare ciò che la prorompente svedesona meglio sa fare. Tutto quello che rimane del lavoro di Gariazzo è una specie di “giallo pallido” all’italiana nel quale, di tanto in tanto, uno svogliato omicidio spezza l’inesauribile catena di amplessi, il più delle volte superflui se non ai fini di estendere il minutaggio e renderlo compatibile con la distribuzione. Peccato perché la trama gialla, se fosse stata meglio sfruttata, poteva davvero portare a qualche risultato interessante.

Siamo a Roma, in un motel appena fuori città dove facoltosi uomini d’affari sfogano i loro appetiti sessuali (e le loro fantasie più sfrenate) con procaci ragazze disponibili a concedersi per denaro. In questo esclusivissimo angolo di piacere tutti gli ospiti, chi prima chi dopo, finiscono nella trappola tesa da individui senza scrupoli che scattano immagini compromettenti alle coppie occasionali. Stiamo parlando di un giro di ricatti a causa dei quali uomini e donne finiscono per perdere non solo la rispettabilità, ma anche la vita per mano di un misterioso omicida. Chi si occuperà di indagare su quanto sta avvenendo? La polizia? Certo che no. Sarà una coppia di amanti, Patrizia (Anna Maria Rizzoli) e Roberto (Ray Lovelock) che, dopo aver trascorso qualche ora di intimità in una stanza del “Play Motel”, si troverà suo malgrado coinvolta nella vicenda. Nella necessità di far sparire un cadavere, il misterioso assassino ritiene infatti un’ottima idea quella di nasconderlo nell’auto della coppia la quale, dopo essersi allontanata dal motel, finirà per fare la macabra scoperta.

Ed è qui che entra in gioco lo strano meccanismo che fa sì che la polizia, anziché occuparsi in prima persona della vicenda, coinvolge i due poveretti in una situazione a dir poco surreale. Di fatto saranno i due, con appostamenti e quant’altro, a dipanare il mistero. In particolare, Patrizia verrà incaricata di contattare il presunto fotografo della banda di ricattatori, che la costringerà ad un’estenuante (e non troppo sofferta) sessione di nudo, e poi le verrà chiesto di penetrare nel motel di nascosto e ottenere le prove necessarie ad incriminare i ricattatori. Vien da chiedersi come mai la polizia non si occupi direttamente delle indagini: forse non esistono donne poliziotto adatte a missioni così rischiose? Ci si chiede anche come mai Roberto e Patrizia non mandino subito a quel paese il commissario De Santis (Anthony Steffen) e le sue richieste assurde, e si mettano a giocare agli investigatori dilettanti con tutti i rischi che ne conseguono. Lungi dal preoccuparsi seriamente per la sua incolumità, quando la ragazza si troverà in serio pericolo De Santis e lo stesso Roberto si mostreranno preoccupati solo che Patrizia non mandi a monte l’operazione.

Ma questa disinvoltura di fondo, devo dire, sembra un classico di questo tipo di produzioni, in cui spesso gli agenti polizia si limitano a fare congetture e regalare perle di saggezza senza combinare granché, arrivando poi alla soluzione del crimine grazie a un intervento esterno, o comunque più per un caso fortuito che per la loro abilità di investigatori.
Un giallo ambientato nel mondo della prostituzione? Di primo acchito sembrerebbe interessante e, probabilmente, nella mente di Mario Gariazzo questo film interessante lo era veramente. E invece no.
Quando sembra che la vicenda stia per prendere una piega diversa, che stia per offrire un minimo brivido o un po’ di suspense, ecco che arriva inesorabile la scena di sesso che azzera e appiattisce tutto. Un vero peccato, ripeto, perché i presupposti per un bel giallo c’erano tutti. Alla fine, in tutto questo disastro, ci solo però alcune cose da salvare. Prima tra tutte quella sequenza menzionata prima in cui una superba Anna Maria Rizzoli, per meglio supportare la sua parte di infiltrata della polizia, offre all’obiettivo di un fotografo una serie di scatti davvero memorabili. In secondo luogo le numerose e probabilmente involontarie situazioni al limite del grottesco che, nonostante tutto, riescono a strappare ben più di un sorriso: il commissario De Santis, tanto per dirne una, risale all’identità di una delle tante accompagnatrici attraverso la consultazione dell’archivio di pubblicazioni erotiche della polizia. Chi avrebbe mai detto che la polizia tenesse un archivio di riviste porno nei propri uffici?! Geniale!! Tutto il resto è poco o nulla. Si salvano dal disastro anche la stupenda fotografia di Aldo Greci, un po’ sbiadita nella versione tv-rip da me visionata, e la superba colonna sonora di Ubaldo Continiello che ancora oggi, a una settimana di distanza dalla visione di "Play Motel", continua a risuonarmi nel cervello.

Le inquadrature alla geniale pseudo-rivista "Confidenze Erotiche" sono momenti di grande cinema.


Traditi dalla fretta #8

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Lasciatoci alle spalle anche il mese di agosto, è tempo di un nuovo episodio di Traditi dalla fretta, la nostra ormai classica rubrica di segnalazioni il cui scopo è quello di fare il punto su tutto ciò che è stato detto e fatto mentre l'autore di questo blog si faceva i fatti suoi altrove.
Con il mese di agosto si è concluso anche quel piccolo esperimento di riproposizione di materiale già apparso anni fa nel vecchio e ormai abbandonato blog Obsploitation. Non resta a questo punto che l'ardua domanda: com'è andata? Difficile dirlo. Se dovessi guardare solo alle statistiche di blogger, dovrei dire che è stato un disturbo che mi sarei tranquillamente potuto evitare.
In realtà, non avendo una pietra di paragone (ad agosto, gli anni passati, questo blog ha sempre chiuso per ferie) non saprei dire se i risultati siano quelli tipici del mese più fiacco dell'anno oppure se siano maggiormente dovuti alla noia di ritrovarsi davanti a delle repliche, seppur riproposte a distanza di tempo dalla loro prima pubblicazione.
Comunque siano andate le cose, a questo punto poco importa andare a scervellarsi con i dettagli. Era in ogni caso un'operazione necessaria per poter rilanciare adeguatamente Obsploitation, nella nuova forma che andremo insieme a scoprire nel tempo che manca alla fine di questo 2018. Nel frattempo lasciatemi mettere da parte il cinema, che ultimamente ha fin troppo monopolizzato il blog e che, non posso che ammetterlo, sta iniziando a provocarmi un rigetto da sovradosaggio. Discorso accantonato, passiamo oltre.

Ritorna in libreria la grande fantascienza sovietica
L'UOMO ANFIBIO

Lo avevo già notato su Facebook, per poi dimenticarmene, un giorno del mese scorso quando, girovagando senza meta, finii per atterrare sulla pagina della (a me) ignota Agenzia Alcatraz. Capirete bene la mia sorpresa, ovviamente piacevole, nel momento in cui solo qualche giorno fa mi ritrovai a sfogliare le consistenti pagine de "L'uomo anfibio" di Aleksandr Beljaev.
Siamo davanti forse a una delle iniziative più interessanti di questo 2018, ovvero la riproposizione di un genere di letteratura che, a parte pochi casi, non ha mai trovato spazio in Italia e forse in tutto il mondo occidentale. Se vi chiedessero infatti di citare un'opera di fantascienza sovietica, quanti di voi sarebbero in grado di andare oltre "Solaris" di Stanisław Lem? Ben pochi di voi, ci potrei giurare...
Ed è guarda caso proprio "Solaris" il nome della collana che fa il suo esordio sui nostrani scaffali con "L'uomo anfibio", e che proseguirà, a stretto giro di pubblicazione, con due opere di Aleksandr Bogdanov, "Stella Rossa" e il suo prequel "Ingegner Menni", a cui farà seguito, nella primavera del prossimo anno, "Aelita" di Aleksej Tolstoj. Per approfondimenti vi rimando all'ottimo articolo pubblicato sul sito della Wu Ming Foundation e vi lascio con la sinossi della prima uscita.
Nella torrida estate argentina una presenza sinistra semina scompiglio e terrore fra gli abitanti delle coste, i pescatori lo chiamano il diavolo del mare. Un giorno la creatura salva una ragazza di nome Guttiere dall'annegamento e, da quel momento, farà di tutto per rivederla. Tra implicazioni morali all'avanguardia nell'utilizzo della scienza e una storia d'amore tanto incredibile quanto impossibile, il racconto dello scrittore russo anticipa di novant'anni "La forma dell'acqua" del regista Guillermo del Toro.

Arrivata già al terzo numero la nuova Dimensione Cosmica
DIMENSIONE COSMICA

L’uovo della fenice galattica si è schiuso: sotto lo sguardo benedicente dell’editore Solfanelli risorge DIMENSIONE COSMICA, glorioso periodico che negli Anni Ottanta, e oltre, fu un punto di riferimento a livello nazionale per la narrativa fantastica e d’anticipazione, contribuendo non poco a definire i contorni di una “via italiana” alla letteratura dell’Immaginario. Diretta da Gianfranco de Turris e da Adriano Monti-Buzzetti, la nuova serie della rivista riparte con autori affermati,  giovani promesse e un ricco menu di saggi, racconti e studi.
Questo è un perfetto esempio di come una rubrica come "Traditi dalla fretta" possa fare egregiamente il suo lavoro: ci sono volute infatti ben tre uscite perché mi accorgessi di questa nuova emanazione di un periodico storico come "Dimensione cosmica" che, nato come fanzine, fu uno dei capisaldi della pubblicazione di narrativa fantastica e d’anticipazione, che vide i suoi natali quarant'anni fa per mano di Michele Martino e Marino Solfanelli, padre dell'attuale editore. Tra l'altro lasciatemi dire che, all'interno dello scenario editoriale italiano di questi ultimi tempi, è sempre più raro trovare una pubblicazione che non solo arrivi a tre numeri, ma che lo faccia a ritmi che un tempo erano la norma e che ora tristemente sono un'eccezione. Credo non serva sottolineare che tutte e tre i numeri finora usciti, da febbraio ad oggi, si sono visti catapultare senza troppi dubbi nel mio carrello digitale. Maggiori informazioni sul sito e sul gruppo Facebook dedicato.

Segnalazioni, divagazioni, varie ed eventuali 
MEDITERRANEA

Dai periodici alle antologie il passo e breve e, nonostante il genere non sia tra i miei preferiti, non ho potuto fare a meno di notare questa pubblicazione che, per inciso, risale alla primavera scorsa.
Avrei in realtà voluto segnalarlo già un paio di mesi fa, in occasione della precedente edizione di "Traditi dalla fretta", ma, per tutta una serie di motivi, tra cui non ultimo lo spazio, avevo deciso di soprassedere, senza tuttavia annodarmi opportunamente il fazzoletto.
Mediterranea è un’antologia che contiene dieci racconti di sword and sorcery ambientati nei territori bagnati dal Mare Nostrum in cui potrete trovare i più importanti autori della fantasia eroica italiana come: Donato Altomare, Alessandro Forlani, Enzo Conti, Adriano Monti Buzzetti, Alberto Henriet, Mauro Longo, Andrea Gualchierotti, Lorenzo Camerini, Andrea Berneski, Francesco Brandoli e Riccardo Brunelli. Sono presenti anche due apparati critici di saggisti del calibro di: Enrico Santodirocco (autore di Conan La leggenda) e Marco Maculotti (fondatore di AXIS mundi). L’introduzione e la curatela è affidata a Francesco La Manno, mentre la copertina è stata realizzata da Andrea Piparo. I nomi come vedete sono notevoli e da soli dovrebbero bastare come garanzia di qualità per una pubblicazione ispirata alla mitologia greca, che ci auguriamo non resti un caso isolato. Maggiori informazioni sul sito dell'editore.

Dal collettivo Crypt Maraiders Chronicles...
THANATOLIA

Vede la luce un'interessante antologia la cui genesi si deve alle ardite menti di Alessandro Forlani e Lorenzo Davia che, nell'estate ormai lontana di due anni fa, si chiesero quali storie avrebbero potuto essere raccontate nella grottesca ambientazione di un cimitero grande come un continente.
A cura di Alessandro Iascy e patrocinata da Heroic Fantasy Italia, è arrivata la risposta a quell'annosa domanda sotto forma di Thanatolia, prima uscita del collettivo Crypt Marauders Chronicles, un "progetto aperto", come recita la presentazione, nel quale si invitano aspiranti autori ad ambientare le proprie storie nella tetra Thanatolia, in un universo di scrittura creativa condivisa a tema Sword and Sorcery.
"Un intero continente destinato a millenaria necropoli, custodito da due città mercantili (Handelbab e il porto di Tijaratur) che vivono del commercio di tesori e manufatti. Tombaroli spregiudicati, necromanti ed eccentrici avventurieri esplorano le tombe e riforniscono i mercati: ma scavare troppo a fondo può essere pericoloso, specie dove giace una terribile entità".
Oltre ai racconti di Lorenzo Davia e Alessandro Forlani, creatori del progetto, Thanatolia comprende storie di Fabio Andruccioli, Andrea Atzori, Alberto Henriet, Mauro Longo, Luca Mazza, Domenico Mortellaro e Laura Silvestri.
Copertina di Vincenzo Pratticò e illustrazioni interne a cura di Alex Reale. Per approfondimenti non mancate di visitare i blog dei due ideatori (linkati sopra) e il sito Heroic Fantasy Italia, che negli ultimi mesi ha dedicato una sua sezione ai racconti a tema Crypt Marauders Chronicles, alcuni articoli di approfondimento e, di recente, una bella recensione.

Un mostro si aggira per Bangor e tocca al Re dell'horror scoprire cosa sia la paura
LA PELLE DEL RE

L'ultima segnalazione relativa a un'uscita estiva, ma non per questo meno importante, è dedicata alla fatica estiva di una vecchia conoscenza del blog: quel Fabio Lastrucci che, dopo aver giocato con Stan Laurel e Oliver Hardy, si prende la briga di andare a disturbare un altro dei capisaldi della cultura popolare.
In una commedia nera che rivisita i più celebri cliché kinghiani troviamo il re dell'orrore protagonista di una partita a scacchi in cui la posta in palio è la sua stessa testa.
L'infernale villain di un suo libro è saltato fuori dalle pagine del romanzo per attuare una vendetta sanguinaria cresciuta all'ombra delle classifiche dei bestseller mondiali. Dietro il naso finto del killer si nasconde l'avversario di una vita, sguinzagliato nella lugubre villa di Stephen King in cerca di soddisfazione e, in un vorticoso inseguimento, cercherà di attuare i propri propositi andando a caccia della gatta-portafortuna Sally.
Basta non si risveglino gli altri colleghi che infestano gli incubi dello scrittore, tutti maledettamente somiglianti ai tranquilli abitanti del quartiere residenziale. Come l'infermiera Wilkes del 37 A, o il prete da un occhio solo oppure Cojo, l'enorme cagnaccio affamato di natiche umane e la sua passione insaziabile per i clown.
Ultima uscita nella collana Imperium Horror di Delos Digital, "La pelle del re" di Fabio Lastrucci è un must per tutti gli amanti di Stephen King, i quali sapranno senza dubbio cogliere tutte le citazioni palesi o nascoste presenti tra le righe. Ecco qui infine le coordinate GPS per l'acquisto.

Musica, mostre, spettacoli, eventi, concorsi e tutto ciò che è condivisibile sul blog
TRIESTE S+F FESTIVAL

Si svolgerà dal 30 ottobre al 4 novembre 2018 il Trieste Science+Fiction Festival, la principale manifestazione italiana dedicata alla fantascienza, che oggi svela il poster della nuova attesissima edizione: un disegno originale realizzato dall’astro emergente dell’illustrazione italiana Matteo De Longis, che vanta collaborazioni con la Marvel e Sergio Bonelli Editore.
Il poster della 18° edizione di Trieste Science+Fiction Festival ritrae una ragazza super high tech, catturata nel gesto universale e immediato di un selfie sullo sfondo dello skyline di una metropoli iperglobale.
Trieste Science+Fiction Festival è il più importante evento italiano dedicato ai mondi della fantascienza e del fantastico. Cinema, televisione, new media, letteratura, fumetti, musica, arti visive e performative compongono l'esplorazione delle meraviglie del possibile. Fondato a Trieste nell'anno 2000 ha raccolto l'eredità dello storico Festival Internazionale del Film di Fantascienza di Trieste svoltosi dal 1963 al 1982, la prima manifestazione dedicata al cinema di genere in Italia e tra le prime in Europa.
La selezione ufficiale del Trieste Science+Fiction Festival presenta tre concorsi internazionali: il Premio Asteroide, competizione internazionale per il miglior film di fantascienza di registi emergenti a livello mondiale, e i due Premi Méliès d’argento della European Fantastic Film Festivals Federation per il miglior lungometraggio e cortometraggio di genere fantastico europeo. La sezione Spazio Italia ospita il meglio della produzione nazionale. Immancabili, infine, gli Incontri di Futurologia dedicati alla scienza e alla letteratura, in collaborazione con le principali istituzioni scientifiche, e la consegna del premio alla carriera Urania d'argento (organizzato con l'omonima testata letteraria) ad un maestro del fantastico.
Trieste Science+Fiction Festival è organizzato dal centro ricerche e sperimentazioni cinematografiche e audiovisive La Cappella Underground con la collaborazione e il sostegno di: Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Comune di Trieste, Università degli Studi di Trieste, Fondazione CRTrieste, Fondazione Benefica Kathleen Foreman Casali.
La sede principale del Trieste Science+Fiction Festival è il Politeama Rossetti grazie alla collaborazione del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia. Il palazzo della Casa del Cinema, sede delle maggiori associazioni di cultura cinematografica triestine, sarà il quartier generale della manifestazione e con la collaborazione del Teatro Miela ospiterà le sezioni collaterali del festival, mentre altre iniziative e programmi speciali si svolgeranno nella sala d'essai del Cinema Ariston.
Per informazioni: http://www.sciencefictionfestival.org/

La verità sul caso Kenneka (Pt.1)

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Kenneka Jenkins (1998-2017)
Curioso come certi avvenimenti, anche i più strani, a volte tendano a ripetersi. In un certo senso, viene a mancare la possibilità di utilizzare l'aggettivo "singolare" nel riferirsi a storie che la logica ci porterebbe a definire tali. Sono sicuro ricorderete il mio lungo articolo di qualche anno fa dedicato al caso di Elisa Lam, la ragazza ventunenne che trovò la morte fra le mura del Cecil Hotel di Los Angeles: una morte sulla quale furono sprecate intere biblioteche di supposizioni per cercare di trovare una spiegazione a una sequenza di situazioni, di casualità e di coincidenze che aveva quasi dell'incredibile. Senza il "quasi". 
A distanza di un anno esatto dagli avvenimenti che andremo qui di seguito a narrare affrontiamo oggi il caso di Kenneka Jenkins, una diciannovenne afroamericana il cui corpo senza vita fu trovato, una domenica mattina, prigioniero della cella frigorifera delle cucine del Crowne Plaza Hotel a Rosemont, Chicago, nell’Illinois. 
La prima similitudine è già abbastanza evidente: senza troppe difficoltà ammetterete che una cella frigorifera è un luogo piuttosto pittoresco dove morire, così come pittoresca è la cisterna d’acqua sul tetto dell’Hotel Cecil dove venne trovato il corpo senza vita di Elisa Lam… ma questo è solo uno dei tanti aspetti che, come vedremo, mi hanno portato a mettere in relazione i due casi.
La seconda similitudine è che la vicenda di cui parleremo oggi è impreziosita (passatemi il termine) da numerosi video di sorveglianza dell’hotel che hanno avuto modo di catturare immagini che definire inquietanti è dir poco. 
Il punto essenziale, sul quale vorrei però spendere due righe sin da subito, è che entrambi i casi, per come si sono sviluppati e per come sono stati gettati in pasto alle masse, offrono infinito carburante all’immaginazione: nel giro di poche ore dai fatti lo scatenarsi del tam-tam mediatico è diventato subito incontrollabile, attirando una folla sterminata di pseudo-esperti, investigatori improvvisati e con essi i soliti inevitabili complottisti, pronti a dimostrare tutto e il contrario di tutto attraverso le teorie più complesse e fantasiose. 
Senza voler alimentare il delirio che si è venuto a creare, e nel religioso rispetto verso il dolore della famiglia e lo sgomento che le persone normali provano di fronte a casi come questo, proverò a raccontare la storia di Kenneka Jenkins così come l’ho vissuta io, insignificante testimone di una vicenda avvenuta lo scorso anno, in questo stesso giorno di settembre, dalla parte opposta dell’oceano. 
Partiamo da quello che per me è stato l’inizio, vale a dire da un breve video nel quale sono incappato otto o nove mesi fa, accorgendomi con un pizzico di ritardo del bordello mediatico che stava facendo vibrare la rete. 


Si tratta, come avrete intuito, di uno dei tanti contributi presenti sul tubo provenienti dai video di sorveglianza che il Crowne Plaza Hotel mise a disposizione degli inquirenti nei giorni successivi ai fatti. Ne troverete migliaia di video simili in rete, molti dei quali rielaborati utilizzando i più svariati sistemi di post produzione (filtri, zoom, slow-motion) nel tentativo di evidenziare quei particolari rivelatori che, per quanto mi riguarda, trovo piuttosto opinabili. 
Siamo attorno alle 3:20 del mattino di sabato 9 settembre 2017 e la ragazza barcollante che vediamo nel video è Kenneka Jenkins (aka Kenneka Martin) negli suoi ultimi istanti di vita. La osserviamo risalire e ridiscendere un corridoio, senza una meta apparente. Nella seconda metà del video osserviamo la stessa Kenneka fare il suo ingresso nelle cucine dell’hotel, e con la solita andatura incerta procedere attraverso il locale fino a scomparire dietro un angolo, subito oltre il quale vi è la cella frigorifera del tipo “walk-in” dove la diciannovenne farà capolinea. Nel video diffuso dalla polizia non si vede il momento esatto in cui la ragazza entra nella cella frigorifera, e questo particolare innescherà le più fantasiose ipotesi tra cui quella, inevitabile, che Kenneka non avrebbe fatto tutto da sola ma sarebbe stata “aiutata” da qualcuno nascosto nell’ombra. Scorrendo in slow-motion il video infatti sarebbero numerosi, secondo alcuni, i momenti in cui la ragazza sembra quasi essere “trattenuta” o “tirata” da qualcuno che, consapevole della presenza delle telecamere, si cela con grande perizia dietro gli angoli non visibili. Si noterebbe soprattutto nella parte conclusiva del video, giusto un secondo prima che Kenneka scompaia per sempre dall’occhio della telecamera. Qualcuno di voi ha avuto la stessa impressione? Personalmente, tutto ciò che vedo è una tizia ubriaca che fatica a stare in piedi.

Nel video non si vede, ma il freezer è proprio là dietro.
Il fatto che Kenneka Jenkins stesse passando un brutto momento dal punto di vista etilico mi pare evidente, e ce lo conferma il rapporto del medico legale: com’è intuibile, la diciannovenne sarebbe deceduta per ipotermia a causa dell'esposizione prolungata al freddo nel congelatore dell'hotel che, secondo le specifiche, è progettato per mantenere una temperatura di 13 gradi sotto lo zero; al congelamento avrebbe contribuito la forte intossicazione da alcool che, come noto, è un fattore che causa la dilatazione dei vasi sanguigni e facilita la dispersione del calore (inoltre l'alcool provoca ipoglicemia, e quindi sottrae combustibile che il corpo userebbe per produrre calore). Il tasso alcolemico rilevato dagli esami post-mortem risultò infatti pari a 1,12 g/l, livello che genera appunto perdita di autocontrollo e perdita di equilibrio (secondo il nostro codice della strada, per darvi una pietra di paragone, un livello di 0,80 g/l è già considerato reato). L’andatura barcollante di Kenneka è quindi pienamente giustificata. 

Il rapporto tossicologico avrebbe inoltre evidenziato positività alla caffeina (che risulterebbe anche a me, se mi facessero un esame adesso) e al topiramato, un farmaco noto per il trattamento dell'epilessia e dell'emicrania, soggetto a prescrizione medica. Questo è in effetti il particolare più strano: nonostante la famiglia abbia tenuto a precisare che a Kenneka non fosse stato mai prescritto topiramato, il livello del farmaco rilevato nel sangue (3000 ng/ml) era nell'intervallo terapeutico (2400-8000 ng/ml). Torneremo comunque più tardi su questo punto che, personalmente, ritengo fondamentale. Cerchiamo invece di capire prima di tutto cosa ci faceva una ragazza così giovane, conciata in quella maniera, in giro di notte da sola per i corridoi di un albergo. 
Poche ore prima, alle 23:30 del venerdì, Kenneka Jenkins lascia la sua casa nel West Side, dove vive con la madre Teresa Martin e la sorella Leonore Harris, per recarsi a una festa con gli amici organizzata in una camera d'albergo al Crowne Plaza Chicago O'Hare Hotel & Conference Center a Rosemont. Le telecamere riprendono le ragazze fare il loro ingresso in albergo quindici minuti dopo la mezzanotte. Più tardi, alla 1:30 del sabato, Leonore parla per l’ultima volta al telefono con la sorella (o si scambiano dei messaggi, secondo altre versioni). Tutto sembra assolutamente normale, per Teresa e per Leonore. Nulla più che un sabato notte come tanti altri, un sabato notte che la sorella maggiore sta trascorrendo fuori casa in compagnia dei suoi amici. Le luci si spengono, gli occhi si chiudono; finché, alle 4 di mattina, lo squillo del telefono non rompe il silenzio.
CONTINUA

Kenneka e le sue amiche fanno il loro ingresso al Crown Plaza. La mezzanotte è passata solo da pochi minuti.

La verità sul caso Kenneka (Pt.2)

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Un selfie di Kenneka Jenkins con sua madre
LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Alle 23:30 del venerdì, Kenneka Jenkins lascia la sua casa nel West Side, dove vive con la madre Teresa Martin e la sorella Leonore Harris, sale sull’auto prestatale dalla madre e passa a prendere alcune sue amiche con il proposito di recarsi prima al cinema e poi al bowling, trascorrendo così serenamente qualche ora in compagnia. Qualcosa però, probabilmente una telefonata, fa in modo che i piani cambino e che le ragazze decidano di recarsi invece ad una festa di compleanno, organizzata in una camera d'albergo al nono piano del Crowne Plaza di Rosemont. Sulla strada per l'hotel, le ragazze si fermano per comprare una bottiglia di Hennessy Cognac, qualche lattina di energy drink, un altoparlante bluetooth e, secondo quanto successivamente dichiarato dalle stesse ragazze, un po' di maria “che non si sa mai”. Non sono ovviamente qui per giudicare la lista della spesa delle quattro amiche, perché da ragazzo di puttanate ne ho fatte anch’io, però lasciatemi dire che il cognac è davvero uno strano carburante da mettere nel serbatoio. E lo definisco “strano” perché ancora oggi, dopo anni di piccole esperienze alcoliche, lo considero una schifezza imbevibile di cui non giustifico nemmeno l’esistenza. Sulla questione degli energy drink non mi esprimo, perché 1) ai miei tempi non esistevano e 2) perché l’unica volta che ho assaggiato quella merda, l’ho subito sputata. Nulla da dire nemmeno sulla maria, considerando che ha praticamente messo d’accordo tre generazioni. Mi pare anzi che sia roba già ampiamente sdoganata, e non mi stupisco che il suo fascino possa resistere invariato ancora oggi.

Ad ogni modo, tornando a noi, un quarto d'ora dopo mezzanotte i video di sorveglianza riprendono Kenneka in compagnia di altre tre ragazze, Irene Roberts, Monifah Shelton e Shamaya Winder, fare ingresso nella hall dell’albergo. La festa a questo punto può dirsi già iniziata e, con essa, per Kenneka si è messa in moto la macchina del destino. Ciò che succede nelle ore seguenti, in una delle stanze del nono piano (la 926), è testimoniato da un video in streaming inviato live su Facebook.

Irene Roberts nel video girato al Crowne Plaza.
Nel riflesso dei suoi occhiali si distingue un tizio
con una T-shirt rossa. La figura al suo fianco
potrebbe essere Kenneka (notare i jeans sdruciti).
Il potere perverso che il social network di Mark Zuckerberg è in grado di esprimere ha qualcosa di inquietante: il video, registrato da Irene Roberts e condiviso sulla pagina di Monifah Shelton (che ad oggi conta qualche milione di visualizzazioni), ci mostra per quasi tutto il tempo il primo piano di Irene Roberts con un paio di occhiali a specchio e l’atteggiamento della stronzetta che ce l’ha solo lei. Riflesso nei suoi occhiali possiamo sbirciare il lato opposto della stanza d'albergo dove, secondo alcuni, sembrerebbe che vi sia Kenneka seduta. L’ho guardato attentamente, ma onestamente tutto ciò che vedo è una tizia che guarda verso la camera, che ogni tanto dice qualcosa e che, quando il joint passa dalle sue parti, lo afferra senza disdegno.
C’è in effetti però qualcosa di strano in quel video, a partire dalla sua stessa esistenza. Non mi è chiaro, per essere precisi, lo scopo di tale ripresa, visto che non succede praticamente nulla. Sulla presenza dell’immagine riflessa di Kenneka non posso che fidarmi di ciò che scrivono in rete, visto che la mia conoscenza della sfortunata giovane si limita a quelle poche immagini trovate sul web (una madre, al contrario, potrebbe riconoscere la figlia anche solo da un piccolo particolare).
Piccolo inciso: certo che ne hanno di fegato questi ragazzi, a farsi riprendere mentre fumano. Se lo avessi fatto io trent’anni fa avrei preso tanti di quegli schiaffi che ancora sarei qui a girare in tondo. Fine dell’inciso.

Esiste anche un secondo video, girato sempre nello stesso luogo e negli stessi istanti, che offre una succosa panoramica dell’ambiente. Si vede un ragazzo che si atteggia a baby-gangster, ma più che altro si vedono ragazzi che fanno cose da ragazzi: ridono, scherzano, cantano, ballano… e si vede chiaramente anche Kenneka, così da tacere chiunque volesse sollevare dubbi sulla sua effettiva presenza alla festa. Tra l’altro si sente nettamente qualcuno, forse la stessa Kenneka, che dice “Let’s go!”, frase che potrebbe interpretarsi come “La festa è finita. È ora di andarcene a casa”.
Un terzo video di pochi secondi, postato da lei stessa su Snapchat alle 2:17, ci mostra infine Kenneka di fronte allo specchio dell’adiacente bagno: Kenneka, che sembra perdere l’equilibrio nel momento in cui si volta verso la porta, inizia già a mostrare i primi indizi dello sballo in balia del quale le telecamere di sorveglianza l’avrebbero sorpresa un’ora più tardi.

Kenneka Jenkins nel video girato di fronte allo
specchio del bagno della camera numero 926.
A questo punto le resta poco più di un'ora di vita.
La ragazza alle sue spalle è Monifah Shelton.
Attorno alle 3 di mattina la festa si è ormai avviata verso la sua conclusione. Secondo quanto riferito dai presenti, mentre tutti si trovano in quella parte del corridoio adiacente l’ascensore, in attesa dell’arrivo di quest’ultimo, Kenneka realizza di aver dimenticato alcune cose, tra cui il suo telefono. Alcuni presenti tornano nella stanza per cercare e, trascorsi circa 10 o 15 minuti senza trovare nulla, ritornano nel corridoio. Kenneka a quel punto non c’è già più: evidentemente sta dirigendosi, barcollando, verso il frezeer.
Una delle amiche con cui Kenneka si era accompagnata quella sera viene informata e, attorno alle 3:30, iniziano disperate le ricerche. Altri video di sorveglianza testimoniano il girovagare di ragazzi e ragazze tra i corridoi dell’hotel in quel lasso di tempo. Nessuno di loro fra l’altro appare incerto nel suo incedere, come a dimostrare che non tutti hanno esagerato con il bere.
Attorno alle 4:00 qualcuno decide di telefonare a casa della madre, nell’eventualità che Kenneka possa aver fatto rientro da sola (abbandonando tutti gli effetti personali, inclusa l’auto del genitore). Con l’occasione le fanno sapere, e qui davvero non vorrei essere stato nei panni di chi ha fatto quella telefonata, che l’amica pare svanita come la neve al sole. Esauste, verso le 5 le tre compagne di merende si mettono al volante dell’auto della madre di Kenneka e si dirigono verso l’abitazione di quest’ultima per restituire il veicolo e il cellulare di Kenneka e confessare di aver rinunciato a cercare l’amica.
A questo punto, a Teresa Martin non resta che precipitarsi sul luogo della scomparsa e fare il diavolo a quattro per avere notizie della figlia. Tra i gestori dell’albergo che prendono sottogamba la disperazione della donna, e le forze di polizia che tardano a mettersi in moto, ci vorranno 24 ore prima che il cadavere di Kenneka Jenkins sia individuato. Non sarebbe forse cambiato nulla per Kenneka (o forse sì?), ma indiscutibilmente per una madre in preda all’angoscia si tratta di un tempo allucinante.
Il 20 ottobre la polizia conferma che il caso Jenkins è stato archiviato come “morte accidentale” e, direi piuttosto discutibilmente, rilascia le foto post-mortem del cadavere di Kenneka Jenkins. Fotografie che non fanno altro che sollevare ulteriori domande. Essendo immagini di natura personale, non posterò link su questo blog, ma chi non resistesse al fascino del macabro può trovare facilmente quello che cerca utilizzando le keyword “Kenneka”, “Body” e “Dead” in qualsiasi motore di ricerca. Le agghiaccianti immagini del cadavere congelato di Kenneka Jenkins mostrano inesplicabilmente parti del suo corpo di esposte, incluso il seno. Come mai? Questa è solo una delle tante domande a cui si cerca una risposta. Le immagini del cadavere, così come le centinaia di video postati da tanti youtuber che si sono improvvisati investigatori, non sembrano fornire una risposta definitiva. Anzi, l’effetto è paradossalmente quello opposto e, come già fu per Elisa Lam, il caso è uno di quelli destinati a rimanere per molto tempo, se non per sempre, senza la parola fine.
Killer nascosti nell’ombra, maniaci stupratori, complotti… si parla addirittura di trafficanti di organi umani. Mancano solo le scie chimiche e i cerchi nel grano. Ma se la soluzione fosse invece davvero la più semplice? Proviamo a scavare un po’ nel torbido.
CONTINUA

Il corpo senza vita di Kenneka Jenkins viene portato via. Sono trascorse ormai 24 ore.

La verità sul caso Kenneka (Pt.3)

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LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Occorrono solo venti minuti a Teresa Martin per coprire le 16 miglia che separano la sua abitazione, nel West End, all’Hotel Crown Plaza di Rosemont, giusto adiacente all’aeroporto internazionale O’Hare di Chicago. Solo qualche ora prima le ragazze avevano percorso lo stesso tratto di strada in quarantacinque minuti abbondanti ma, si sa, l’urgenza di arrivare non era per loro la stessa. Teresa entra nella hall dell’albergo poco dopo le 5 del mattino e al suo arrivo chiede aiuto al personale di turno, domandando di poter visionare i video di sorveglianza; riceve però un rifiuto in quanto, come da prassi, l’accesso a simili sistemi di video-sorveglianza necessita di una formale richiesta da parte delle autorità. La donna allora chiama il dipartimento di polizia di Rosemont e si sente rispondere che, a causa dell’elevato numero di falsi allarmi, è necessario attendere alcune ore prima di poter presentare rapporto. Ciò avviene alle 13:15 di sabato pomeriggio.
La polizia prende visione dei video tra le 15 e le 16 dello stesso giorno, senza tuttavia trovare nulla. In preda alla disperazione, Teresa Martin decide di fare a modo suo e, attorno alle 18, si mette a bussare di porta in porta, chiedendo agli ospiti dell’hotel notizie di Kenneka. Una decisione coraggiosa che, forse senza essere sostenuta da un piano preciso, sblocca la situazione.
L’hotel, a seguito delle innumerevoli lamentele, chiama la polizia che, giunta nuovamente sul posto, accetta di prendere nuovamente visione dei filmati. Sono circa le 22 quando emerge dall’ombra la figura barcollante di Kenneka Jenkins, ripresa dalle telecamere alle 3:20 di quella tragica mattina. Tre ore dopo la polizia informa i familiari dell’avvenuto ritrovamento del cadavere della ragazza nella zona cucine dell'hotel, nello specifico in un’area chiusa per lavori di ristrutturazione e di conseguenza non frequentata da nessuno, sebbene il freezer, piuttosto curiosamente, fosse acceso e funzionante (benché vuoto). “Si tratta di un’area interdetta agli ospiti dell’hotel”, afferma il portavoce della struttura alberghiera, Gary Mack. E questo particolare direi che non può essere messo in dubbio. 


Ora che abbiamo tutte le carte in tavola, perlomeno quasi tutte, possiamo provare a tirare alcuni fili e vedere cosa c’è all’altro capo. Kenneka Jenkins, come abbiamo già detto, viene ritrovata all’interno di un congelatore, a faccia in giù, il braccio sinistro sotto il ventre, e con una piccola abrasione a un piede (tra l’altro privo della scarpa, poi trovata un po’ più in là). Il punto che più fa discutere è il seno esposto, particolare a cui molti si sono appellati per supportare l’ipotesi della violenza. Le immagini post-mortem mostrano Kenneka con addosso ancora la giacca di jeans visibile nei video di sorveglianza, gli stessi jeans sdruciti, sebbene abbassati in vita di qualche centimetro di troppo, e il reggiseno sollevato. Ipotesi stupro? Anche no. 
Esiste in medicina un fenomeno denominato “paradoxal undressing”, secondo il quale le persone che congelano a morte finiscono per togliersi di dosso i vestiti. Questa teoria potrebbe spiegare i vestiti rimossi. Come riportato da questo articolo, la spogliazione paradossale riguarda “un’alta percentuale di vittime dell’ipotermia, ma non è supportato da evidenze scientifiche. Sembra che le persone, mentalmente confuse quando entrano in uno stadio di ipotermia piuttosto grave, comincino a togliersi i vestiti che dovrebbero tenerli caldi, aumentando così la perdita di calore. Per questo molto spesso, in città, le vittime di questo fenomeno sono state confuse con vittime di violenza sessuale. Alcuni dicono sia dovuto a malfunzionamento dell’ipotalamo. Altri lo imputano ai muscoli che contraendosi e rilassandosi, porterebbero ad un’improvvisa ondata di sangue alle estremità, facendo provare una falsa sensazione di calore. Altri ancora parlando di paralisi dei nervi nelle pareti dei vasi sanguigni, che porta ad una vasodilatazione e quindi a sensazione di calore. Purtroppo pare che nessuna delle persone che arrivano a questo stadio riesca a sopravvivere se non con aiuti esterni…"

Un tale fenomeno, alimentato dall’alta percentuale di alcol, che agisce come vasodilatatore, nel sangue, potrebbe facilmente spiegare il reggiseno sollevato e i jeans abbassati in vita: una falsa sensazione di calore avrebbe indotto Kenneka a spogliarsi. 
Il punto più controverso è però un altro: osservando le immagini pubblicate in rete non possiamo fare a meno di notare il sistema di apertura della cella frigorifera. Anche a un profano come me non può sfuggire la relativa complessità del meccanismo esterno; e quando dico “relativa”, intendo dire che ritengo grottesco che una ragazza di diciannove anni, in uno strato di ubriachezza che definire pietoso è niente, possa aver avuto la lucidità di sganciare il fermo, tirare verso di sé una pesante porta di acciaio e infilarvisi dentro. Di contro l’apertura dall’interno è diametralmente semplificata, evidentemente per ragioni di sicurezza: c’è solo un pomello e basta spingerlo. È vero che se uno vede un pomello, di primo acchito gli viene da ruotarlo, ma diamine… è mai possibile che in una situazione di estremo pericolo uno non le provi tutte, per quanto ubriaco? Spingere una porta che poco prima avevi tirato non dovrebbe essere altrettanto naturale di un pomello ruotato? 

Meccanismo di apertura della porta del freezer incriminato. Vista dall'esterno (sopra) e dall'interno (sotto)
Non ci resta quindi che aprire un piccolo spiraglio a un’ipotesi diversa dalla pura morte accidentale. O forse sto esagerando? Si dice che siano i piccoli particolari quelli su cui occorre soffermarsi. Sono le sottili stranezze quelle che alla fine ribaltano la prospettiva, quei dettagli praticamente insignificanti che in genere passano davanti agli occhi senza che uno ci faccia più di tanto caso. Sono anche queste le cose che a volte contribuiscono a mandare in galera gli innocenti. Ma non ditemi che nessuno di voi ha notato nulla di strano in tutto ciò che ho narrato in questi giorni. Non ditemi che non vi sono stati momenti in cui avete pensato “Mmmh, che strana questa cosa”, per poi proseguire sulla fiducia, scacciando immediatamente ogni pensiero che, in quel momento, vi era parso fuori luogo? 
Pensate, anche solo per un istante, alla location: il “Crowne Plaza Chicago O’Hare Hotel & Conference Center” (date un’occhiata al sito web) è un fottutissimo hotel a cinque stelle. Sarà anche che sono americani e che, come tali, sono abituati a fare tutto in grande, ma mio dio, le feste di compleanno a cui partecipavo io se andava bene si facevano in una cantina o, nei rari casi in cui avevamo dei soldi in tasca (e a diciott’anni erano davvero rari), si pigliava e si andava in una discoteca fuori Milano, dove si otteneva il massimo del divertimento con il minimo della spesa. Eppure qui abbiamo una festa per il diciannovesimo compleanno di una persona, con la disponibilità di qualche centinaio di dollari per prendere una camera al Crowne Plaza e pagarci on-top annessi e connessi. Aggiungo che è strano anche che trenta persone possano salire nella stessa camera d’albergo senza che nessuno abbia niente da ridire. Qui da noi, se provi a far salire uno in camera da te, fossi anche nel più fatiscente degli alberghi del più rancido caruggio genovese … beh, col belino che te lo lasciano fare. E come riesci a far casino tutta la notte in un albergo del genere? Nessuno si è lamentato? Eppure il giorno dopo, quando la madre si mette a bussare a tutte le porte, gli ospiti non ci mettono neanche un secondo a chiamare la polizia. Queste “stranezze”, con tutta probabilità insignificanti nel discorso generale, a me danno un attimino da pensare. A voi no? 

Alcune immagini di Kenneka Jenkins riprese dalle telecamere di sorveglianza
Ma la stranezza indubbiamente più grande è rappresentata dallo stato pietoso in cui Kenneka viene vista vagare per i corridoi solo un’ora dopo il video Snapchat nel quale, tutto sommato, appare ancora decisamente lucida. Io non sono uno che si ubriaca spesso, specialmente mai in quella maniera, ma mi chiedo se un crollo così repentino sia nella norma. Se c’è qualcuno che ne sa più di me in proposito, anche per esperienza indiretta, è invitato a farsi avanti. A me pare difficile. Dovrebbe essere molto più graduale la discesa nello sballo, no? E qui veniamo al punto che avevamo lasciato in sospeso qualche giorno fa, vale a dire il topiramato. 

Il topiramato, come abbiamo visto, è un farmaco noto per il trattamento dell'epilessia e dell'emicrania ed è soggetto a prescrizione medica. Nonostante la famiglia abbia tenuto a precisare che a Kenneka non fosse stato mai prescritto, il livello del farmaco rilevato nel sangue era decisamente troppo alto. Come mai? 
Se proviamo a cercare in rete il foglietto illustrativo di questo farmaco, distribuito con il nome commerciale di Topamax®, notiamo che l’elenco degli effetti collaterali è piuttosto esteso: ne ho contati più di cento, tra cui crisi convulsive, confusione, disorientamento, perdita di coscienza, capogiri, disturbi del linguaggio, tremori involontari o scuotimenti, movimenti del corpo rallentati o diminuiti, movimenti muscolari involontari anormali o ripetitivi, rigidità muscolare, perdita di coordinazione, sensazione di instabilità quando si cammina… per arrivare, in casi estremi, a emorragie, cecità, impotenza. Può addirittura portare ad atti di autolesionismo e a tentativi di suicidio. Uno scenario confortante, no? Ma la parte più interessante è quella in cui si dice che “durante il trattamento con Topamax® è necessario evitare di bere alcol”…

La verità sul caso Kenneka (Pt.4)

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Monifah Shelton e Kenneka Jenkins
 LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Come sono finiti 3000 ng/ml di topiramato nel sangue di Kenneka Jenkins? Questo è un gran bel mistero e così, a sensazione (ma potrei sbagliarmi), potrebbe anche essere questa la chiave per arrivare alla verità. Essendo ormai escluso che la ragazza ne facesse uso personale per motivi terapeutici, ci basterebbe teoricamente capire come è finito lì, visto che il Topamax® può uscire dalle farmacie solo dietro presentazione della ricetta medica. 
Dicevamo la volta scorsa che si stava aprendo un piccolo spiraglio a un’ipotesi diversa dalla pura morte accidentale. A questo punto lo spiraglio inizia ad allargarsi. Se non Kenneka, sicuramente qualcun altro quella sera se ne andava in giro con delle compresse di Topamax® in tasca; e quelle compresse, per motivi a noi ancora ignoti, sono finite disciolte nel sangue di una ragazza. 
Mmmh, mi viene da dire, sta a vedere che siamo di fronte a una “cena con delitto” delle più classiche. Basterebbe, rifletto, capire se qualcuno dei presenti abbia un motivo medico per prendere topiramato e, voilà, ecco trovato uno che ha degli scheletri nell’armadio. Prima di pensare al peggio però, mi sono detto, lasciami controllare un’ultima cosa. Può essere che, nella mia ingenuità, mi sia sfuggito un punto fondamentale, vale a dire l’esistenza di certi individui disagiati che usano mix di alcol e topiramato per sballarsi meglio.
Vado a googlare la questione, ma non trovo nulla. Non ci speravo. Anche perché non riesco proprio a figurarmi l’aspetto di eventuali pusher di topiramato all’opera nelle backstreets di Chicago. Scopro però che, secondo uno studio coordinato da uno psicofarmacologo dell’Università del Maryland, il topiramato ha anche un robusto effetto terapeutico nel trattamento della dipendenza da alcol e cocaina. 
Piccola digressione: si tratta di quel fenomeno denominato “drug repositioning” e cioè la scoperta, generalmente casuale, di nuove indicazioni d’uso per sostanze già esistenti. Abbiamo avuto due celebri esempio in passato: 1) il Viagra, pericoloso nei cardiopatici per i quali il farmaco era stato inizialmente pensato, ma che è poi risultato essere provvidenziale per i disturbi di erezione e 2) l’Aspirina, pericolosa in quanto capace di favorire le emorragie, che si è però rivelata preziosa per evitare la formazione di trombi nei vasi sanguigni. Fine della digressione. 
A questo punto, al di là di tutte le mie noiosissime parentesi, siamo molto vicini alla certezza che Kenneka Jenkins quella notte non abbia fatto tutto da sola. Qualcuno di sicuro le ha facilitato l’assunzione di un mix devastante di alcol e topiramato. Magari a sua insaputa. E in questo nuovo scenario non sarebbe poi così sbagliato iniziare a parlare di omicidio

L'interno della famigerata camera #926. Dopo tutto quello che abbiamo detto, voi ci dormireste ancora?
Ebbene sì. Questa è la vera novità rispetto all’altrettanto singolare caso di Elisa Lam che abbiamo visto in precedenza. Qui ci sono tutti gli estremi per poter affermare che le cose non stanno come hanno cercato di farci credere. E aggiungo qualcos’altro: se dovessimo decidere di avvalorare questa nuova ipotesi, riesce davvero difficile credere che qualcuno possa aver drogato Kenneka in assoluta autonomia. Quasi sicuramente più di una persona avrebbe dovuto, se non essere coinvolta, perlomeno accorgersi dell’anormalità di ciò che stava accadendo. Qualcuno allora sta mentendo? Forse più di uno? Forse tutti? 
Occorre quindi riconsiderare le dichiarazioni dei compagni di Kenneka con un occhio un po’ più severo. Secondo quanto era stato riferito dai presenti, mentre tutti si trovavano in corridoio in attesa dell’ascensore Kenneka si era resa conto di aver dimenticato le chiavi della macchina e il telefono. Alcuni erano rientrati nella stanza per cercare gli oggetti dell’amica, e una volta ritornati nel corridoio videro che Kenneka non c’era più. Ho provato a immaginarmi la scena, e di secondo acchito mi pare già più strana. C’è una ragazza che non si regge in piedi (ma che, di contro, ha la lucidità sufficiente per pensare alle chiavi e al telefono) e cosa fanno tutti? La lasciano lì da sola. Begli amici! A completare il curioso siparietto (neanche fossimo in un film di Stanlio e Ollio), nessuno si accorge che l’ascensore arriva al piano, che Kenneka vi si infila dentro tutta sola e che se ne va, ormai dimentica dei suoi effetti personali. Tutto questo nonostante l’ascensore non disti che pochi metri dalla porta della camera #926. Nessuno se ne accorge: anzi, secondo quanto poi testimoniato tutti rimangono a cercare per circa 10-15 minuti. 

La camera numero 926 si trova solo a pochi metri dallo sbarco ascensori
Quanto postato da Shamaya Winder qualche giorno dopo su Facebook sembrerebbe rivedere la questione: "Non siamo mai andati via. Eravamo in piedi vicino alla porta della nostra camera. Mi ha detto di andare a prendere il suo telefono dalla stanza ed è quello che ho fatto.". Se questo è ciò che è successo, allora come ha fatto Kenneka a sparire? Su questa e su tante altre piccole contraddizioni non poteva non soffermarsi l’attenzione degli investigatori i quali, nei giorni immediatamente successivi ai fatti, identificarono e interrogarono numerose persone, molte delle quali presenti al Plaza la fatidica notte della festa. 
Le identità di tali persone non sono mai state rese pubbliche, ma alcune si possono facilmente indovinare, un po’ per logica, un po’ andando a leggere i post pubblicati dagli amici di Kenneka sui social nei giorni successivi ai fatti. Senza ombra di dubbio sono state ascoltate le tre ragazze che avevano accompagnato Kenneka al party, e cioè le già citate Irene Roberts, Monifah Shelton e Shamaya Winder. A questi possiamo presumibilmente aggiungere Kenneth Tart e Herman Toliver, all’epoca fidanzati rispettivamente con Irene e Monifah. Altri possibili nomi che, come vedremo, riceveranno nei giorni successivi un’attenzione speciale dai media, potrebbero essere: Deon Hardimond, Ty Sanders, Cornell Mitchell, Tyrone Thomas, Vonterius Williams, Chalo Anderson, Lerone Bradley, Rene Roberts, Shantika Elem, Abreonna Mays e Tiny Junious.

Alcuni dei protagonisti, diretti o indiretti, della vicenda - Dall'alto a sinistra e in senso orario:
Cornell Mitchell, Ty Sanders, Deon Hardimond, Shamaya Winder, Irene Roberts, Monifah Shelton 
Ad oggi, relativamente al caso Jenkins, sono stati generati 127 rapporti di polizia e sono stati condotti 44 interrogatori, 36 dei quali a persone che si trovavano all’interno della stanza #926. In tutto questo fioccare di nomi, rimane ancora un punto sul quale non mi sono ancora soffermato (chissà se ci avete fatto caso): vogliamo provare a capire di chi era la festa di compleanno? In parole povere, chi ha organizzato tutto e chi avrebbe potuto permettersi una camera al Crowne Plaza per festeggiare la propria personale ricorrenza. 
Non ci crederete, ma la festa era per il diciannovesimo compleanno di Irene Roberts, una delle tre amiche più strette di Kenneka. Riesce a questo punto difficile credere alla dichiarazione che le ragazze avessero inizialmente intenzione di andare al cinema e poi al bowling. E chi ha pagato il conto? Irene? Il suo fidanzato? 
Nessuno, a quanto pare, visto che la polizia è ancora oggi sulle tracce dei due individui (un uomo e una donna) che due giorni prima usarono una carta di credito rubata per affittare la stanza d'albergo. 

Una di quelle due persone è stata identificata, grazie alle telecamere poste sulla reception, nella ventiquattrenne Shaniqua Watkins, oggi ancora latitante e ricercata con quattro mandati di arresto a suo carico. Ecco quindi che, dopo tante illazioni, viene finalmente alla luce un po’ di marciume. Non che non ce lo aspettassimo, no? Non passa poi nemmeno un mese che Herman Toliver, il fidanzato di Monifah, viene arrestato per furto d’auto. La pozza di marciume si allarga sempre di più. 
Quella che inizialmente sembrava essere un’allegra brigata inizia pian piano a trasformarsi in qualcos’altro. Si può usare la parola “gang” in un post? Spero di sì, perché è quella che, in questo frangente, mi pare più centrata. Con questo non voglio dire che tutti i partecipanti a quel dannato party fossero dei delinquenti, ma non posso nemmeno credere che la presenza di alcuni di essi nella compagnia non fosse nota a tutti. E a questo punto non posso nemmeno credere che nessuno sappia come sono andate veramente le cose. Qualcuno lo sa e tace. Questa è la mia convinzione. 
Una convinzione rafforzata da un post che Irene Roberts postò su Facebook qualche giorno dopo il ritrovamento del corpo di Kenneka. Un post che ora non esiste più, così come non esiste l’intero profilo di Irene, e che diceva “I should have did some, I really thought they was playin this shit so crazy frfr” (Avrei dovuto farlo, ho davvero pensato che stessero giocando a questa merda così folle, per davvero).

CONTINUA

La Watkins effettua la prenotazione con due giorni di anticipo. Alle sue spalle un complice mai identificato.


La verità sul caso Kenneka (Pt.5)

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LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

The trick to being smart is knowing when to play dumb (Irene Roberts). 
Non avrei mai pensato, nel momento in cui mi accingevo a ungere d’inchiostro il mio primo foglio bianco, che questo articolo potesse occupare tanto spazio. L’argomento alla fine si è rivelato talmente complesso che ho dovuto spezzare il testo in cinque parti, per non far andare in vacca la sua leggibilità. Prima di mettere la parola fine avrò di gran lunga superato le seimila parole; praticamente, un romanzo breve. Mi chiedo se anche Tolstoj, mentre provava a buttar giù l’incipit di "Guerra e Pace", pensasse di starci dentro in poche pagine. 
Sta di fatto che nelle ultime sere, proprio come adesso, ogni qual volta spingevo in là il piatto sporco della cena per far spazio al computer, mi infilavo in una serie di tunnel talmente intricati che finivo sempre, invariabilmente, per smarrirmi. La vicenda di Kenneka Jenkins, lo avrete certamente notato, è assurdamente complicata. È complicata al punto che non sai mai se hai scovato tutti i piccoli dettagli, l’assenza di uno solo dei quali può davvero ribaltare la prospettiva. Ho corretto e ricorretto quanto scritto decine di volte, praticamente a ogni battito di ciglia. Ogni cinque minuti un particolare nuovo rimetteva in discussione quanto pensavo di aver compreso. Il nome della festeggiata, per esempio, l’ho scoperto solo nel momento in cui ne ho parlato (alla fine del post precedente) e ciò, inevitabilmente, mi ha costretto a correggere il testo sin dall’inizio.
Per non parlare degli innumerevoli nodi che ho dovuto sbrogliare, cioè una miriade di elementi in contraddizione tra loro che non ho potuto far finta di non notare. Il fatto è che si trovano in rete centinaia di fonti, tra articoli di quotidiani online, opinioni di youtubers, forum e blog di ogni genere, per tacer di tutti i social che da un anno a questa parte si sono scatenati sulla questione. 
Si è praticamente detto tutto e il contrario di tutto e lo si è fatto quasi sempre in maniera superficiale. Scrivere per esempio che due uomini avevano prenotato la camera al Crowne Plaza, come ho letto da qualche parte, non è solo un’informazione generica, ma taglia via di netto l’esistenza di Shaniqua Watkins. Scrivere che il corpo senza vita di Kenneka fu trovato con la maglietta sollevata fin sopra il seno, come ho letto da qualche parte, è inesatto, visto che c’è un video dove si vede chiaramente che Kenneka indossava il giubbotto di jeans direttamente sopra il reggiseno. Non solo è inesatto, ma è addirittura fuorviante, visto che lo si è scritto cercando di far passare a tutti i costi la teoria dello stupro (che se ci fosse stato, a meno di non pensare ad un clamoroso complotto, non sarebbe di certo sfuggito al coroner). 

Quello che resta, raschiando via tutto il superfluo, sono soltanto i fatti ed è esclusivamente su quelli che mi sono concentrato finora. Ed è stata una faticaccia, ve lo assicuro. Questo lungo articolo non avrebbe però altrimenti avuto senso. E adesso? Come va a finire questa storia? 
"Il dipartimento per la sicurezza pubblica di Rosemont ha chiuso l'indagine sulla morte di Kenneka Jenkins e ha classificato il caso come morte accidentale. Non ci sono elementi che portino a diverse conclusioni." 
Finisce nel modo più ovvio. Nel senso che non finisce. Nel senso che non punterò il dito accusatore contro questo o quell’individuo, anche perché, è bene ricordarlo, dietro tutti i nomi che ho citato sinora, amici e conoscenti di Kenneka Jenkins, ci sono delle persone reali. Non siamo in un giallo di Agatha Christie. Alcuni di essi avrebbero sicuramente qualcosa in più da raccontare, se solo volessero o potessero, ma altri, forse la maggior parte, sono persone sinceramente ferite dalla perdita di un’amica; doppiamente ferite dall’uragano di accuse con cui vengono travolte quotidianamente da un anno. 

Una delle teorie più popolari, che scatenano le discussioni su Facebook, Twitter e Instagram, è che qualcuno abbia venduto i favori sessuali di Kenneka a tre gangster in cambio di $200. Nulla di tutto ciò che si è detto a sostegno di questa tesi ha però delle basi solide: si basa solo sul fatto che gli amici di Kenneka si sono sempre comportati in modo piuttosto approssimativo su Facebook, scrivendo stati discutibili (come quello che ho citato più sopra) o lasciando controversi commenti ai post degli altri.
Come scrissi all’inizio, testuali parole, era però mia intenzione scrivere questo articolo “senza alimentare il delirio che si è venuto a creare, e nel religioso rispetto verso il dolore della famiglia e lo sgomento che le persone normali provano di fronte a casi come questo”.

È mia intenzione mantenere questa linea di condotta, cercando magari di spazzar via le ipotesi che non servono ad altro che a seppellire la verità sotto ulteriori strati di polvere. La teoria del complotto, per esempio, si reggerebbe su quel famoso video dove si vede per tutto il tempo Irene Roberts con un paio di occhiali a specchio. Non si contano ormai più le versioni di quel video dove sarebbe possibile, secondo i cosiddetti esperti, scorgere una quantità talmente imponente di indizi da far impallidire “Le bave del diavolo” di Julio Cortázar.
Davvero qualcuno riesce a vedere scene di stupro nel riflesso degli occhiali di Irene? Davvero qualcuno riesce a cogliere frasi come “They’re raping her” o “It’s big ain’t it”? Davvero qualcuno riconosce la voce di Kenneka dire “I’m enjoying myself” e poi, qualche istante più tardi, uscirsene con un “Help me”? Davvero qualcuno può interpretare la mimica facciale di Irene come una reiterata richiesta di aiuto? Io davvero non ci sono riuscito. Ammetto che, quando qualcuno me lo fa notare, posso anche credere di aver capito ciò che viene detto, ma la verità è che la mia comprensione dell’inglese (soprattutto di quell’inglese) non è sufficiente per esprimere un’opinione che non sia telecomandata. 
Esiste un’altra ipotesi secondo la quale la ragazza che si vede barcollare non sarebbe affatto Kenneka Jenkins, bensì una sua controfigura. L’idea sarebbe che Kenneka sia stata rinchiusa nel freezer ore prima, dopo essere stata violentata e assassinata, e che tutto ciò che vediamo non sia altro che una messinscena. Lo proverebbe il fatto che la ragazza barcollante non riesce a indossare in maniera naturale i vestiti di Kenneka, per via del culo troppo grosso e dei fianchi troppo larghi (se paragonati alle famose immagini di Kenneka girate di fronte allo specchio del bagno). Siamo alla follia! Ragazzi, ma secondo voi una madre non riconosce la propria figlia quando la vede in un video? 
E, dulcis in fundo, c’è la teoria del traffico d’organi, che giustificherebbe la scelta del freezer come soluzione contro il decadimento post-mortem. Eh già, perché non è detto che il coroner, con tutto quello che aveva da fare, si sia pure messo a contare se i reni e i polmoni erano ancora due. 

Tutto questo per dire che è un bene che da un anno a questa parte centinaia di persone si stiano affannando per cercare la verità, e sono sicuro che la maggior parte di esse siano in perfetta buona fede, ma credo sia anche opportuno rimanere con i piedi per terra, evitando di inventare teorie che non stanno né in cielo né in terra. Il rischio è che si gettino nel cesso tutte le residue speranze che un giorno giustizia per Kenneka Jenkins possa essere fatta, anche se ne dubito. Personalmente, dopo tutto questo lungo viaggio che abbiamo fatto qui sul blog, posso concludere di non essere affatto convinto della totale accidentalità della morte di Kenneka Jenkins. Ma credo che nemmeno la polizia ne sia convinta. 
Il vero problema, in tutta questa faccenda, è che non esiste un solo dannatissimo elemento che possa provare una cosa o l’altra. Decine di telecamere sparse ovunque, ma nessuna posizionata nel corridoio del nono piano e, soprattutto, nessuna puntata direttamente sull’ingresso di quel maledetto congelatore. Esistono però le prove che Kenneka Jenkins quella sera abbia assunto un mix di alcol e medicinali terrificante, un mix che nessuno con un po’ d’amor proprio ingerirebbe in totale spensieratezza. Se non si tratta di omicidio preterintenzionale nel senso stretto del termine, si tratta quindi, nella migliore delle ipotesi, di un “concorso di azioni colpose costituenti cause indipendenti nella produzione dell’evento”. Tutto ciò, se mi permettete, è altrettanto deprecabile. Qualcuno sa come sono andate le cose. Qualcuno non vuole parlare o non può parlare. Noi oggi non possiamo far altro che stare qui a guardare, sperando che un giorno possa essere fatta giustizia.


Da donna a strega: i culti arborei

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L'INTRODUZIONE SI TROVA QUI

Se è vero che nell’antichità ci furono due tipologie di divinità prevalenti, una pastorale (diffusa fra le popolazioni nomadi) e una agricola (tipica delle popolazioni stanziali che, come sappiamo, col tempo divennero le più numerose), sembra che il contributo della donna fosse centrale proprio nel culto di queste ultime: il probabile retaggio di una precedente società di cacciatori, collocabile verso la fine dell’età glaciale, che divenne sedentaria proprio in seguito allo sviluppo dell’agricoltura. A quei tempi è probabile che la religione fosse prevalentemente di tipo domestico e come tale praticata in misura maggiore dalle donne, e che, non si sa bene come né quando, la donna stessa sia divenuta depositaria della salvaguardia dei ritmi della natura, che determinavano i ritmi della produzione agricola, e dell’energia sessuale, dalla quale dipendeva la prosecuzione della vita. 
Sappiamo da varie fonti che alcuni culti prevedevano la prostituzione rituale femminile. Nella mentalità degli antichi il modo migliore di assicurare la fecondità del suolo era quella di operare una sorta di incantesimo, o sortilegio, tramite rapporti sessuali (veri o simulati) che, su piccola scala, rappresentassero quelli del Cielo con la Terra, rispettivamente il principio maschile e femminile della Natura, fino (talora) a inscenare il mistero della nascita.
Questa magia, che parafrasando James Frazer chiameremo imitativa o omeopatica, ispirata al principio di similarità, era tipica di un tempo remoto in cui l’uomo era fiducioso di poter modificare a proprio vantaggio l’ordine dei fenomeni naturali, forse ben prima di cercare di ottenere gli stessi effetti ricorrendo a preghiere o riti propiziatori dedicati a questa o quella divinità. In pratica, si pensava che fosse possibile ottenere l’effetto voluto, in questo caso la moltiplicazione delle messi e del bestiame, semplicemente imitandolo. Poiché prima o poi i risultati sperati arrivavano, non è affatto difficile comprendere come mai gli antichi riponessero tanta fiducia nell’efficacia di questo tipo di magia. È probabile che in una fase successiva l’alternarsi delle stagioni, con la fioritura e poi l’avvizzimento della vegetazione, venisse ricollegata a una sorta di declino della forza degli dèi, che si cercava di rigenerare attraverso gli sponsali divini, inscenati in veri e propri “drammi” in cui la distinzione fra pratica magica e religiosa era molto labile. Ad esempio, nei Grandi Misteri greci veniva inscenato il matrimonio fra Zeus e Demetra, interpretati dallo ierofante, momentaneamente reso impotente con una bevanda a base di cicuta, e da una sacerdotessa, che avveniva nel buio di una cripta dalla quale i due uscivano recando una spiga, frutto di quell’unione. 

Persefone
Nei Grandi Misteri di Eleusi la nascita del fanciullo divino nel mondo sotterraneo veniva collocata al tempo della vendemmia (“eleusis” significa avvento); ma questo tema mistico, che rappresenta la nascita nella morte, oltre ad essere molto antico appartiene tanto alla mitologia degli dèi che a quella degli eroi. 
Indizi dell’esistenza di antichi riti magici del tipo descritto si troverebbero, ancora una volta, nella tradizione e nel folclore, ma per forza di cose bisognerà restringere ogni considerazione alla sola Europa. Indizi, e non prove: se il patrimonio culturale italiano (ad esempio) risente di moltissime influenze diverse, è praticamente impossibile valutare come e fino a che punto l’integrazione fra diverse culture può aver alterato riti e usanze già presenti nel territorio. 
Prima che pascoli e coltivazioni intensivi e insediamenti umani li soppiantassero, boschi e foreste ricoprivano gran parte d’Europa. Non è difficile immaginare il timore e la reverenza che queste distese di verde dovevano provocare nell’osservatore, con il loro estendersi a perdita d’occhio e il loro ciclo vitale che, in confronto alla precaria esistenza umana, sembra quasi eterno. L’animismo finì per ispirare una forma di adorazione religiosa per gli spiriti della vegetazione. 
Tra l’altro, boschi e foreste furono probabilmente la forma più arcaica di santuari e templi: fra le popolazioni celtiche, ugrofinniche, germaniche, slave quanto fra quelle dell’Italia e della Grecia antica, i fedeli si radunavano per fare sacrifici e pregare nei boschi, meglio se impervi. Talora, come fra gli antichi Germani, i boschi erano sacri e, pena la morte, inviolabili. I templi di pietra che sorsero successivamente, con le colonne sormontate da una copertura orizzontale a simboleggiare i fusti e le cime degli alberi, si spostarono gradualmente sulle coste e nelle città. 
Presso gli antichi la concezione di spiriti incorporati negli alberi era legata alla convinzione che oltre a regolare la pioggia e il bel tempo questi rendessero fecondi gli animali e le donne. Secondo alcune tesi, fu un’evoluzione lenta e graduale avvenuta fra il Paleolitico e il Neolitico (ovvero risalente forse a circa trentamila anni fa) a portare con sé quel cambiamento ideologico per cui l’idea generica di fertilità finì per sovrapporsi a quella della fertilità femminile. 
Da qui nacque quella tradizione contadina conosciuta un po’ in tutta Europa come “portare il maggio”: a Calendimaggio, i giovani portavano una fronda verde a casa della donna amata, oppure innalzavano un giovane albero, in genere un abete o una betulla, davanti alla sua finestra. L’auspicio di fertilità implicito nel gesto era ovvio, così come quello rinvenibile nella tradizione di “innalzare il maggio” davanti alle stalle attestata anticamente nelle campagne. 

L'alzata dell'albero di maggio a Glastonbury.
Oltre a questa tradizione perpetrata dai singoli, esisteva la tradizione comune di un albero o palo del maggio (May Tree, May Bush o Maj Stang) scelto dall’intero villaggio. In primavera (ma anche il 23 giugno, San Giovanni e inizio dell’estate, e talora a Ferragosto) si usava prelevare un albero dal bosco e portarlo in paese, dove veniva addobbato e talvolta portato in processione di casa in casa; altre usanze comportavano il piantare un albero del maggio oppure appendere fronde verdi (normalmente di biancospino o sicomoro) davanti ad ogni abitazione, e tutta una serie di varianti territoriali come la cosiddetta “bambola del maggio”. Si organizzava inoltre una questua, con i giovani che andavano di casa in casa cantando canzoni e in cambio di un obolo, in genere cibo o vino, regalavano una fronda. Il senso era portare a contatto con chiunque potesse beneficiarne lo spirito fecondatore della vegetazione, ma si supponeva che le persone gli offrissero qualcosa in cambio, a mo’ di compensazione. Ormai, quasi ovunque la parte che riguarda l’albero è scomparsa ed è rimasta solo la questua, perdendo di vista il vero significato del rito. 
Tradizioni diverse sorsero quando lo spirito arboreo divenne antropomorfo, umanizzato, se non addirittura incarnato in un uomo o donna viventi. A poco a poco, infatti, spirito e albero vennero dissociati, vale a dire che più che il corpo fisico di uno spirito, l’albero cominciò a essere considerato nulla più che la sua dimora. Spesso, la raffigurazione vegetale scompariva del tutto, o quasi. 
Di ciò danno conto vecchie tradizioni come quelle della Rosa di maggio (comune soprattutto in Francia e Inghilterra) e degli Sposi di maggio (che ricorda l’antica usanza di unire in “matrimonio” due alberi a cui si conferivano attributi maschili e femminili), ma soprattutto quelle che appaiono equivalenti del Jack-in-the-Green (spesso tradotto come Gianni-nel-Verde) e del Verde Giorgio

Jack in the Green Festival - Hastings 2017
Il Jack-in-the-Green, la maschera del Maggio inglese, non è altro che uno spazzacamino rinchiuso in una gabbia di vimini ricoperta di fogliame che sfila per le strade ballando e raccogliendo offerte, e viene spesso ricollegato al Green Man, sebbene non manchi neppure chi, in maniera piuttosto opinabile, attribuisce la nascita di quest’ultimo al Cristianesimo (ne abbiamo parlato qui). Il Verde Giorgioè più semplicemente un giovane rivestito di foglie e fiori, comune presso le popolazioni slave e in generale nell’Europa dell’Est. Dopo la processione un fantoccio ricoperto di rami, simulacro del Verde Giorgio in carne e ossa, veniva gettato in acqua, al probabile scopo di propiziare la pioggia. 
Il Verde Giorgio fu quasi certamente la prima incarnazione di San Giorgio, il santo festeggiato il 23 aprile che, secondo la tradizione, morì, risorse e operò miracoli ma di cui, guarda caso, mancano notizie biografiche certe. San Giorgio è però famoso soprattutto per la leggenda nella quale salva un villaggio e i suoi abitanti da un temibile drago, ribaltando il significato archetipico di questo animale mitologico e facendone un simbolo del male (il drago è chiaramente collegato al serpente, antico simbolo di saggezza). Non è un caso neppure che, per tradizione, San Giorgio si evocasse a protezione contro le streghe. 
Ci sarebbero poi da menzionare quelle tradizioni in cui si rappresentava la morte simbolica del Carnevale, con la sua effige bruciata sopra a una catasta di legna; la lotta fra Estate e Inverno, il cui esito magico anticamente era influenzare il tempo e che, quindi, doveva vedere quest’ultimo sconfitto; oppure la cacciata della Morte, collocata a metà Quaresima (cioè nella quarta domenica di Quaresima), che serviva a scongiurare le epidemie e, appunto, la morte, e di conseguenza a richiamare la Vita, qui identificata con l’arrivo della primavera e poi dell’estate. Come se la morte, portatrice di lutto, fosse anche la più potente forza vivificante dell’universo.
CONTINUA

Traditi dalla fretta #9

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Non era previsto un nuovo appuntamento con Traditi dalla fretta così presto. Anche perché poi va a finire che parlare di periodicità di una rubrica che fa capolino sul blog a intervalli completamente casuali non avrebbe più senso. Mi accorgo invece che ci sono alcune cose che è il caso di segnalare prima che il tempo trascorra, le scavalchi e le renda obsolete.
Il mese di settembre è passato rapidamente, come se la sua pagina di calendario fosse stata strappata via da mani ignote mentre io mi trastullavo in questa coda estiva che sembrava non finire mai. Troppo bello per essere vero, mi dico adesso.
Lasciatoci alle spalle anche l'inestinguibile caso di Kenneka Jenkins, che ha praticamente monopolizzato il blog come solo pochi argomenti in passato hanno saputo fare, torniamo con i piedi per terra e proviamo a dare un'occhiata a tutte le cose che avevo lasciato in sospeso.
Sono tantissime le rubriche iniziate e mai portate avanti (o portate avanti a intervalli vergognosi).
Mi chiedo a volte se non sia il caso di alzare bandiera bianca e dichiarare alcuni progetti conclusi con un fallimento... ma poi mi dico che la voglia di ritornare su di essi potrebbe riproporsi senza preavviso in chi scrive, come è stato per Obsploitation, e allora lascio perdere e che vada come deve andare. In fondo c'è sempre tempo per mettere la parole fine alle cose, no?
Oggi, invece di parlare di progetti interrotti e abbandonati, sono qui per parlare di un particolare progetto che si sta risvegliando dal suo torpore per ritornare prepotentemente a galla. Il merito è tutto del collega blogger Ivano Landi che ha voluto rilanciare sul suo blog lo speciale che avevamo proposto qui nello scorso mese di maggio. Immagino ve lo ricordiate, no? Ebbene, a quattro mesi di distanza si torna a parlare di...

Quattro mesi dopo si torna a parlare di...

THE PLEASURE OF PAIN (PT.2)

Ed eccoci al via di questa seconda parte dello speciale The Pleasure of Pain, - scrive Ivano nel post introduttivo - che ambisce a proseguire il discorso sul rapporto tra piacere e dolore avviato a maggio sul blog The Obsidian Mirror ma da un punto di vista diverso, in un certo senso rovesciato, rispetto ad allora: se la prima parte dello speciale ruotava infatti attorno al tema del masochismo, qui l'accento cadrà invece sul sadismo. Ritengo perciò opportuno cominciare proprio dall'analisi delle differenza tra questi due diversi tipi di esperienza, che è qualcosa forse di non così immediato come può apparire a prima vista. Il sadico, per esempio, è spesso e volentieri, se non addirittura sempre, ben disposto ad accogliere su di sé una certa parte di dolore, più o meno elevata a seconda delle preferenze individuali. La differenza sostanziale con il masochista è che il sadico non è affatto disponibile a farsi sottomettere; è sempre lui a curare ogni dettaglio del quadro e il suo "padrone" non è altro in realtà che un burattino nelle sue mani. Oltre che, in molti casi, la sua futura vittima designata. Il sadico prova quindi in genere piacere nell'essere oggetto di violenza, ma solo nei modi e nei tempi da lui stabiliti. Guai se il suo momentaneo, e spesso non volenteroso carnefice, si azzardasse a decidere qualcosa di sua iniziativa: ne pagherebbe subito le conseguenze.
La seconda parte dello speciale The Pleasure of Pain, che avrà inizio il prossimo 12 ottobre e si protrarrà per quaranta giorni (ben oltre quindi il tradizionale mese degli speciali ossidianici), vedrà la partecipazione di alcuni tra gli ospiti che già presero parte alla parentesi di maggio... con alcune interessanti new entries.
Vi invito pertanto a precipitarvi sul blog di Ivano dove, guarda caso proprio oggi, se ne parla diffusamente.

Musica, mostre, spettacoli, eventi, concorsi
STRANIMONDI 2018

Sul filo di lana, anche quest'anno si torna a parlare di Stranimondi, l'ormai consueto appuntamento milanese con il fantastico. Quest'anno, oltre al tradizionale mercatino di libri dove solitamente lascio qualche litro del mio sangue, oltre ai consueti dibattiti e alle proverbiali presentazioni librarie, abbiamo l'abbinamento con ITALCON, il congresso italiano della fantascienza, fantasy e horror, e con esso la tanto attesa assegnazione dei Premi Italia.
Siamo ormai giunti alla quarta edizione (la terza per il sottoscritto) e ancora una volta sarà per me l'occasione per incontrare gli amici con i quali ho un rapporto remoto per gran parte dell'anno.
Oltre a questo saranno presenti straordinari ospiti nazionali e internazionali i cui nomi potete sbirciare nella locandina qui a lato.
Ancora una volta non so quanto tempo potrò dedicare alla manifestazione perché, come penso sia normale che sia, i miei weekend vengono in parte assorbiti da mille impegni ai quali non posso sottrarmi. Escludendo la giornata di sabato 6 ottobre (domani), in cui praticamente sono già a tappo, non mi resta che il giorno successivo. Inutile dire che se qualcuno là fuori ha in mente di passare da Milano, e vinto dalla monotonia della metropoli decidesse di fare un salto a conoscere il suo blogger prediletto, non ha che da contattarmi in privato. Ci vediamo quindi a Milano, presso la UESM di via Sant'Uguzzone, 8 (MM1 Villa S. Giovanni).

Dopo "Lost Tales Andromeda" e "Lost Tales Sword and Sorcery"
LOST TALES HORROR #1

Quasi senza preavviso, esce per i tipi di Lettere Elettriche il primo numero di una nuova variante del pulp magazineLost Tales, questa volta tutta dedicata all'horror e, nel caso specifico, a una delle creature più iconiche del genere, vale a dire lo zombi (o morto vivente, o revenant o come altro preferite chiamarlo).
All'interno saggi di Marco Siena, Davide Mana e Lucia Patrizi sulla figura dello zombie nel Novecento, due racconti ripescati dai remotissimi anni Trenta (Il sale non è per gli schiavi!, di G.W. Hutter, e Finotte, la morta, dello scrittore irlandese Henry De Vere Stacpoole), un paio di inediti a firma Alessandro Girola e Dante Gavioli e una selezione di sei storie tratte dai "Racconti dello Studio Liao" di Pu Songling sul tema della non-morte (a cura di Pietro Campodonico).
Andrea Piparoè autore dell’incredibile cover "Red Nights", come sempre scaricabile in formato wallpaper con le versioni EPUB e PDF dal sito dell'editore e naturalmente su tutti i migliori store online.
Insomma, pare proprio che alcuni appassionati stiano cercando di fare ritornare in auge il pulp nel nostro paese. E quale migliore occasione per far sì che questa tendenza proceda nella giusta direzione? Vabbè, avete capito, dai.

Segnalazioni, divagazioni, varie ed eventuali
LE CRONACHE DEL SOLE MORTALE

Skyllias, eroe solare di Micene, visita il misterioso Impero Oscuro di Creta, temuto nell’intera area geografica del mare Egeo, e scopre che è dominato dalla stregoneria. Axis, scienziato e negromante, è il nuovo sovrano di Knossos, e tiene prigioniera la regina Hesta. Inizia in questo modo una sorprendente avventura, ambientata in un’età minoica di fantasia. E Skyllias, prima di poter fare ritorno a Micene, dovrà confrontarsi con il mistero del Minotauro e affrontare Kedmos, il Campione di Creta.
Dopo aver segnalato la volta scorsa l'uscita dell'antologia "Mediterranea", dieci racconti di sword and sorcery ambientati nei territori bagnati dal Mare Nostrum, ecco un ulteriore tassello che va ad aggiungersi e a completare il discorso nel punto esatto in cui si era interrotto.
L'idea di spostare virtualmente questo tipo narrativa dalle classiche ambientazioni nordiche a quelle a noi più familiari è certamente apprezzabile, così come apprezzabile è l'idea di affidare questo nuovo tentativo ad una delle penne più interessanti del panorama italiano. Alberto Henriet, classe 1962, ha al suo attivo una serie di racconti editi in riviste professionali (“L’Eternauta”, “Futuro Europa” e “Nova SF*”) e in antologie (Futuraosta, Nel nome di Conan, Sangue sintetico), è appassionato di fantasy, avanguardie artistiche del primo Novecento (dadaismo, futurismo e surrealismo) e cinema visionario (ama in particolare Peter Greenaway e Alejandro Jodorowsky). Ha pubblicato un romanzo fantasy, Storia di un cavaliere gotico (Midgard, Perugia 2007), incentrato sul personaggio di Kylmer e cura la serie antologica “I Figli di Beowulf - Il nuovo fantasy italiano” per la Midgard Editrice di Perugia. Impreziosito dai saggi di Francesco La Manno e Lorenzo Pennacchi. Illustrazione di copertina di Andrea Piparo. Questo il link.

Segnalazioni, divagazioni, varie ed eventuali 
AIKAWA HIGH SCHOOL

La scuola superiore triennale Aikawa è frequentata da centinaia di studenti, ognuno con una storia da raccontare. Ma noi ascolteremo solo quelle più interessanti. Per esempio quella di Murase Takeshi, che ebbe in dono l'onnipotenza...
Chi avrebbe mai immaginato di avere un mangaka nel mio blogroll? Ebbene c'è e il suo nome è Inagheshi, alter ego di Ariano Geta, a sua volta alter ego di... e qui mi fermo.
Sorprendentemente uscito con un piccolo gioiello che ben poco ha da invidiare per l'accuratezza delle tavole e dei testi a quelle di un professionista affermato, il blogger in questione ci propone la lettura di Aikawa High School, primo numero (autoconclusivo) di una serie che ci aspettiamo esca con una frequenza superiore a quella di certi suoi colleghi del Sol Levante (mi viene in mente il caso di Suzue Miuchi, la cui opera più celebre è iniziata nel 1976 ed è ancora in fase di pubblicazione).
La vicenda ruota attorno al personaggio di Murase Takeshi, un adolescente dalle invidiabili doti intellettive ma dalle discutibili capacità di integrazione sociale. Cosa potrà succedere il giorno in cui un demone dovesse decidere di offrire a Murase uno dei più incredibili poteri di questa terra?
Inevitabilmente in debito col Death Note di Tsugumi ŌbaAikawa High School, finisce però per discostarsene nel sorprendente finale, che ovviamente non starò qui a rivelare. Un paio di euro spesi bene per una lettura da portare a termine tutta d'un fiato. Su Amazon si trova qui. Sul blog dell'autore se ne parla qui.

Segnalazioni, divagazioni, varie ed eventuali 
CHIAMATEMI MARLOWE

...ma Ariano "Inagheshi" Geta non è l'unico "blogroller" che negli ultimi giorni si è prodigato ad uscire con qualcosa di figo. Il vecchio Lucius Etruscus è finalmente riuscito a rendere al suo personaggio più rappresentativo l'onore della carta con una collezione assolutamente imperdibile.
Sto parlando di Marlowe (no, non "quel" Marlowe), l'investigatore bibliofilo che sorge sulle ceneri dell'omonimo personaggio di chandleriana memoria, superandolo a destra sulla strada della suspense (si scrive così?), del mistero e dell'ironia.
A parte gli scherzi, ebbi modo già qualche anno fa di leggermi tutti o quasi i racconti di Marlowe e mai come in quell'occasione (Chandler a parte) ebbi difficoltà a legger due righe di seguito senza dovermi fermare per spanciarmi dalle risate. Sì, lo so che forse è esagerato, ma quel Marlowe (sì, proprio "quel" Marlowe) era riuscito a toccare delle corde che nemmeno sapevo di avere.
Trovo quindi grandioso che un'antologia di racconti di tale spessore sia riuscita a finire su carta e a raggiungere, almeno si spera, una platea ben più numerosa di quella composta da visitatori occasionali.
Qualche coordinata? Qui trovate il libro, qui trovate il booktrailer e infine qui trovate il magazine dedicato all'onnipresente Etrusco. E se ancora non vi basta, la prossima segnalazione proviene ancora dall'Etruria...

Segnalazioni, divagazioni, varie ed eventuali 
LE INDAGINI DI ED E LORRAINE WARREN

L’arrivo nelle sale italiane di “The Nun” (2018) corona cinque anni di successo inarrestabile di un fenomeno su cui la casa cinematografica Warren Bros ha puntato moltissimo: quello che i fan chiamano Conju-verse o la rivista “Rue Morgue” Warrenology, cioè quell’universo narrativo (ora anche multimediale) nato dal successo del film “The Conjuring” (2013). Da allora i coniugi demonologi Ed e Lorraine Warren hanno conquistato un pubblico vastissimo, con i loro casi paranormali a tinte forti portati su schermo.
In realtà i due demonologi sono noti alle cronache dal 1972 e molto famosi dal 1976, quando parteciparono a quell’evento mediatico esplosivo chiamato Amityville. Negli anni Ottanta hanno scritto diversi libri sulle loro indagini e alcuni film televisivi già li hanno mostrati in azione ben prima che arrivassero su grande schermo: questo saggio è un piccolo manuale per conoscere meglio l’operato dei Warren, con traduzioni esclusive di brani dei loro libri (inediti in Italia) così da confrontarli con le versioni filmiche che ne sono state tratte.
Da “Amityville Horror” a “The Conjuring”, da “Ostaggio per il demonio” ad “Annabelle”, da “The Hunting in Connecticut” a “The Nun”: avrete il coraggio di affrontare le spaventose indagini di Ed e Lorraine Warren? Se la risposta è affermativa, questo è il link.

Ipnagogica

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Partiamo subito dal titolo: "Ipnagogica". Bello, eh? Ma cosa diavolo significa? Questa parola, ammettiamolo, non è proprio di uso comune, anche se è probabile che ognuno di noi prima o poi l'abbia sentita pronunciare.
La definizione più comune è quella psicologica, composizione del prefisso ipno- (dal dio greco del sonno Hypnos) con il termine greco ἀγωγός (che conduce).
Secondo l'enciclopedia Treccani la fase ipnagogica è infatti "quella fase di sonnolenza che precede l’addormentamento", fase che si contrappone a quella ipnopompica (legata al risveglio). Viene subito da pensare, mal celando un sorriso, che un libro il cui titolo invia riferimenti così diretti alla sonnolenza non possa essere che mortalmente noioso. Ma, tranquilli, non è così; sono solo io ad essere un pelino malizioso.
"La fase ipnagogica  - prosegue la Treccani -  è caratterizzata da un particolare stato fluttuante della coscienza e dal carattere vago e sfumato dei pensieri, durante la quale possono prodursi fenomeni a tipo di illusioni o di allucinazioni", insistendo tra l'altro sulle loro caratteristiche generalmente terrificanti. Sarà perché di solito io mi addormento di schianto, ma non credo di aver mai avuto un'esperienza del genere. Posso forse ritenermi fortunato, non lo so, ma leggendo un po' qua e là in giro per il web si direbbe che tutti, almeno una volta nella vita, finiscano per sperimentare questo fenomeno. Evidentemente la mia "volta nella vita" deve ancora arrivare; oppure è già arrivata, ma ha trovato in me un soggetto poco adatto.

Non dubito affatto, intendiamoci, che il fenomeno sia reale. Ciò che avviene nel breve passaggio attraverso la soglia della coscienza è qualcosa di veramente difficile da focalizzare e non escludo che sia proprio a quel breve attimo che andrebbero ricondotti i cosiddetti sogni lucidi, certe esperienze fuori dal corpo, le paralisi del sonno celebrate da Johann Heinrich Füssli o, più in generale, illusioni e allucinazioni nel loro senso più ampio. Ed è forse qui che dovremmo cercare di riformulare il significato di "Ipnagogico": non più ciò che conduce al sonno, bensì ciò che conduce a uno stato alterato di coscienza, non necessariamente indotto da fattori fisiologici.
Sono infatti proprio illusioni e allucinazioni il filo conduttore dei cinque micidiali racconti che Christian Sartirana ci propone nella sua breve raccolta, uscita già lo scorso anno per i tipi di Acheron Books e al cui titolo si deve questa mia lunga premessa.

Una porta aperta scardina definitivamente
le nostre difese, ci rende vulnerabili.
Illusioni e allucinazioni sono quelle che ruotano attorno a "La porta", forse non il più riuscito dei cinque racconti ma sicuramente quello più inquietante ed evocativo. Una trama piuttosto semplice e forse nemmeno tanto originale, ma dannatamente efficace. In fondo, cosa più di una porta ha un legame così stretto con la paura? Una porta chiusa è l'incarnazione dell'ignoto: temiamo ciò che vi si nasconde perché non ha forma ai nostri occhi. Non è un caso se così tanti film ci hanno messo in guardia dall'aprirle con leggerezza. Una porta chiusa scatena la nostra repulsione per gli spazi chiusi, il terrore per la solitudine, l'angoscia per l'abbandono con derive psicologiche che sfociano nei territori della sessualità . E qui siamo già dal lato opposto della porta, nel "dark side of the moon" delle soglie fisiche, per certi versi non meno preferibile dell'altro. Una porta aperta, viceversa, scardina definitivamente le nostre difese, ci rende vulnerabili, ci sottrae quel minimo sicurezza che pensavamo di esserci ritagliati attorno. E se infine quella porta aperta si dovesse improvvisamente chiudere? Magari sbattendo fragorosamente? Ecco che le due opposte paure si sommano, si elevano a potenza. E che dire di una porta, che teoricamente non può né aprirsi né chiudersi perché è dipinta su una tela, dovesse cambiare impercettibilmente e gradualmente il suo stato? Da che parte vorreste stare?

Forse vorreste scomparire, forse vorreste nascondervi dietro una maschera, dietro un nickname o un profilo farlocco. Forse vorreste omologarvi ai vostri simili, non abbastanza simili, confondervi come una goccia in un oceano in tempesta, in modo che nessuno possa puntarvi il dito addosso, parte insignificante di un intero che pensa per voi, che vive per voi. È il principio su cui si basa "Le facce bianche", altro interessante inganno dei sensi e della mente, metafora di una società tendente all'annullamento, dalla quale il difforme è dispensato dal far parte, spesso perché più terrificante di qualsiasi orwelliana distopia. Realtà? Illusione? Cosa conta, in fondo?
Realtà? Illusione? Cosa ci fa più orrore? Forse è la realtà stessa che ci fa orrore, quella realtà a cui apparteniamo e alla quale cerchiamo ogni giorno di sfuggire. Allucinazione? Magari potessimo rifugiarci in essa, con la certezza di non essere parte di questo mondo di sciacalli, sempre con lo sguardo diabolicamente rivolto alle sfighe degli altri. Lo sa bene Anna, perversa protagonista di "Una collezione di cattiverie", fra i cinque racconti quello dai presupposti all'apparenza più realistici. Solo all'apparenza, perché la realtà inizia a distorcersi ben presto, avvolgendosi in un uroborico ciclo di terrore, tra oggetti di aspetto innocente e di corrotta sostanza.

Chi guida quel carro funebre dai vetri così
sporchi da non poter scorgere nulla al suo interno?
Lo stesso aspetto innocente che può avere un luogo familiare come la propria casa, quella che magari si è scelta, dopo anni di sacrifici e di risparmi, per investirci la propria vita e i propri affetti, proprio come hanno fatto Filippo e Serena con quella casetta di campagna dalle parti di Casale Monferrato. È la premessa che ci introduce in quello che senz'ombra di dubbio è il segmento più potente della raccolta. Non è certamente la casa perfetta, quella che ci viene presentata ne "La memoria della polvere", ma per un attimo ci viene lasciato credere che possa esserlo, nonostante i fantasmi di un non lontano passato provino insistentemente a bussare alla porta. Questo è un racconto che secca la gola, che opprime i polmoni, che contamina la mente. Chi vive in quella vecchia casa, laggiù oltre gli alberi, in quella radura ormai inselvatichita? Chi guida quel carro funebre dai vetri così sporchi da non poter scorgere nulla al suo interno? Chi aspetta tutti i giorni, così pazientemente, quella donna davanti a una fabbrica chiusa tanti anni prima? E quella gente giù in paese? Realtà? Illusione? Allucinazione?

Lo avevamo pur detto che il vero orrore non è là fuori ma è dentro di noi, no? Anzi, il vero orrore siamo noi. Non siete convinti? Andate a chiederlo a Danny, il kafkiano possessore di una mano che non vuole fare il suo dovere. Premetto che di storie di mani che prendono il sopravvento sul resto del corpo sono piene le librerie. Ma ciò è poco male: vorrà dire che dopo William Fryer Harvey, Maurice RenardLucius Etruscus, da oggi mi verrà in mente anche "La manina" di Christian Sartirana, il racconto che apre l'antologia e che chiude questa piccola recensione. In questi frangenti sarebbe opportuno uscirsene con un preconfezionato "Last but not least", ma la verità è che "La manina" si discosta nettamente da tutti gli altri racconti e la formula di cui sopra dovrebbe prevedere un collegamento anche se minimo con tutto quello che lo ha preceduto. O sbaglio?
Siamo qui invece più dalle parti di Gregor Samsa, solo che fa mille volte più vomitare del suo corrispettivo kafkiano ("vomitare" nel senso buono del termine, ovviamente, sempre che un "senso buono" esista), perché se il personaggio dell'autore praghese era a suo modo simpatico, Danny riesce a rendersi insopportabile anche nella sua sventura. Mi chiedo però se fosse davvero quello l'intento dell'Autore, visto che il primo attore è circondato da personaggi se possibile ancora più sgradevoli, a partire dal padre ipocrita per arrivare ai colleghi stronzi, passando da uno spacciatore famelico.
Un noir dalle tinte forti, che rappresenta il degrado fisico e morale di un singolo all'interno di una società anch'essa decadente fino all'inevitabile apocalisse. E lì, tutto trova il suo senso.

L’impero italiano dei sensi (Pt.1)

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Mentre sul blog del collega e amico Ivano Landi entra ormai nel vivo lo Speciale "Pleasure of Pain II", sequel dell'omonima serie andata in onda qui lo scorso mese di maggio, ne approfittiamo per uscire con quello che in gergo dovrebbe chiamarsi "spin-off", ovvero un articolo che avrebbe tecnicamente qualcosa a che fare con il suo ispiratore ma che nella sostanza vive di vita propria. 
Oltre ad potersi considerare uno spin-off, ciò che mi auguro inizierete a leggere tra pochi istanti potrebbe anche rientrare esso stesso sotto la definizione di sequel, avendo già proposto un tema simile proprio nel corso dello Speciale già citato.
A conti infatti, in realtà, "L'impero italiano dei sensi"è molto più di un articolo derivativo: è un lungo excursus (talmente lungo che l'ho dovuto spezzare in tre parti) sulle vicende al limite del paradossale che uno dei film più importanti del panorama erotico di tutti i tempi ha dovuto affrontare per entrare nel nostro scalcinato paese. 
Ma non sarò io a parlarvene: per l'occasione lascio salire su questo palcoscenico, mentre io mi defilo dalla porta sul retro, uno tra i blogger più abili a scavare nel torbido della settima arte. Signore e signori, lasciate che vi introduca il mitico Lucius Etruscus, per un giorno svestito degli usuali panni di investigatore bibliofilo. A te il microfono, Lucius!

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L’impero italiano dei sensi
Il calvario di un celebre film giapponese alle prese con la distribuzione e la censura italiana: una storia inedita raccontata per la prima volta

In Italia nulla è come sembra, soprattutto nel campo dei film “scottanti”: e L’impero dei sensiè stato uno dei più clamorosi film scottanti, la cui fama supera di gran lunga la sua effettiva conoscenza: sin dalla prima notizia del suo arrivo, è stato un film-simbolo molto più citato che visto, nonché protagonista di una incredibile ma tipica storia di distribuzione italiana. 
Grazie alla quantità di archivi liberi di cui ci si può avvalere oggi, questa storia può essere finalmente raccontata, a più di quarant’anni di distanza. 
«Pensavo che [L’impero dei sensi] avrebbe scandalizzato i giapponesi, non gli occidentali.» Nagisa Ôshima intervistato da Aldo Tassone per “la Repubblica”, 10 giugno 1984 
Inviato speciale dal Pesaro Film Festival, per “la Repubblica” (7 giugno 1984) il giornalista Roberto Campagnani stila un breve vademecum dei generi cinematografici giapponesi ad uso dei lettori: un dizionario di sigle, case e nomi che in seguito diventeranno noti agli amanti del cinema, in un periodo poi – gli anni Ottanta – in cui i canali televisivi abbondano di produzioni dal Sol Levante. 
Fra yakuza, jidaigeki e chanbara, spunta un “roman-porno”, nome davvero ben poco giapponese. «Vuol dire stile romantico e pornografico», ci spiega l’autore. «È un genere inaugurato agli inizi degli anni Sessanta dalla casa di produzione Nikkatsu, nel tentativo, riuscito, di superare le crisi in cui versava in generale il cinema giapponese.» 
Forse l’etichetta “roman-porno” non ha l’ufficialità di cui è convinto il giornalista, né sembra destinata a futura memoria come le altre che la circondano, ma è sicuro che quel cinema giapponese a cui si riferisce ha in parte avuto eco anche in Italia. 
«Cossiga aveva scritto un copione degno del film giapponese “L’impero dei sensi”: voleva con Prodi un amplesso di straordinaria fantasia e intensità erotica. A patto che, subito dopo aver raggiunto il culmine, il partner morisse.» Bruno Vespa, La corsa (1998) 
Nel 1963 a Milano e nel 1964 a Roma esplode la passione per qualcosa la cui pronuncia divide l’Italia: il karate... che prima si dice karatè e poi si dice karàte, e ognuno poi lo pronuncia come gli pare. A febbraio del 1964 per la prima volta Diabolik esegue la tecnica marziale che per anni sarà suo marchio distintivo: lo shuto uchi, quel colpo del taglio della mano sul collo della vittima che di lì a poco avrebbe avuto successo anche cinematografico. È il decennio in cui ogni agente segreto dev’essere esperto di arti marziali giapponesi, se vuole conquistare il pubblico, come James Coburn– allievo di Bruce Lee– che si lancia in sgangherate mossette marziali ne Il nostro agente Flint (gennaio 1966, in Italia dal marzo successivo) o Dean Martin che cerca di fare del suo meglio in Matt Helm il silenziatore (febbraio 1966, in Italia dall’aprile successivo). Tutte tecniche giapponesi che nel decennio successivo verranno parodiate dall’ispettore Clouseau nei film de La Pantera Rosa, dimostrando che Peter Sellers era un atleta decisamente migliore dei vari “agenti segreti” del cinema. 

Se però negli anni Sessanta si vuole davvero ammaliare gli spettatori, non bastano le sole arti marziali giapponesi: bisogna andare in loco. James Bond sbarca in Giappone nel giugno del 1967 (in Italia, dall’ottobre successivo) con Si vive solo due volte, mentre la sua celebre controparte francese OSS117 c’era già stato nell’ottobre del 1966 (in Italia, dal marzo 1967) con A Tokio si muore. Non è più l’austero Giappone di Akira Kurosawa che faceva impazzire i cinefili e gli intellettuali sin dagli anni Cinquanta: quella raccontata dal cinema popolare era una terra esotica fatta di sesso e violenza, entrambi finti, entrambi da rivista pulp o da fumettone, e forse proprio per questo irresistibili. Ma che ne pensano i “locali”? Se Kurosawa è una gloria nazionale perché offre al Paese la dignità in tutti i festival del mondo, che ne pensano del nuovo format spionistico, fatto di pistolettate, pugni in faccia e donnine svestite? Dicono che è il momento di cominciare a dare all’Occidente quello che vuole. 
Nel marzo del 1965 arriva in Italia Tokio: divisione criminale (1962) di Shinji Murayama, a testimonianza di un interesse nostrano così grande da essere disposto a ciò che gli italiani odiano di più al mondo: vedere attori con gli occhi a mandorla. Che sono tutti uguali e non li distingui, ’sti cinesi... Il razzismo e l’ignoranza che gli italiani dimostreranno verso questi prodotti non ostacolerà il loro successo. Perché certe “parti anatomiche” non hanno distinzione di razza... e tirano più di un carro di buoi. Anche di buoi giapponesi. 
Insieme alle leggende del Medioevo giapponese, alle arti marziali e alle violente storie di mala, ci arriva anche il sesso: vero o presunto. Dalla torbida relazione in bianco e nero sommersa da cumuli sabbiosi de La donna di sabbia (febbraio 1964, in Italia dal gennaio 1968) al più ammiccante Le calde amanti di Kyoto (marzo 1964, in Italia dal luglio successivo: «Il film più peccaminoso, sexy, vietato, sconcertante della cinematografia giapponese»); da I proibiti amori di Tokio (luglio 1964, in Italia dall’agosto 1965: «un film scabroso, violento. Tutto proibito») a Sesso perduto (agosto 1966, in Italia dal maggio 1968: «Un argomento scottante portato per la prima volta sullo schermo»), fino a coinvolgere il Premio Nobel Kawabata con un film ispirato ad un suo romanzo: L’amaro giardino di Lesbo (febbraio 1965, in Italia dal settembre 1969: «Amata, desiderata e odiata per la sua bellezza sconvolgente»). 
È arrivato il ’68 e il sesso è libero (o piace pensarlo). Riscuotono sempre più successo i cinema a luci rosse aiutati anche da una certa ideologia di sinistra: la famiglia è un modello borghese opprimente e castrante, mentre il sesso libero – o la sua rappresentazione – è lodato e ben visto. È il momento perfetto perché arrivi in Italia l’opera definitiva sul sesso proveniente dal Giappone. O forse no?
«L’unico film vero sul sesso è “L’impero dei sensi”.» Gianni Amelio alla giornalista Anna Maria Mori, da “la Repubblica”, 1° dicembre 1987 
«Offrendo ad Ôshima soldi francesi», ci spiega Maureen Cheryn Turim nel suo The Films of Oshima Nagisa (1998), «Anatole Dauman gli offrì anche condizioni di produzione che non erano possibili in Giappone, e la consequenziale possibilità di fare un film che non sarebbe mai stato possibile fare nel Giappone di quel tempo.» 
La Turim riporta il succo di una sua intervista con Nagisa Ôshima svoltasi nel 1984. In essa il regista racconta dello spiazzamento degli europei davanti ad un titolo che, tradotto, indicava una “Corrida d’amore”: più di una persona gli ha risposto «Non sapevo che aveste le corride, in Giappone». A risolvere la situazione europea ci ha pensato lo stesso produttore Dauman, che approfittando del successo del libro di Roland Barthes, il cui saggio sul Giappone si intitola L’empire des signes (1970; in Italia, L’impero dei segni, Einaudi 1984), optò per L’empire des senses. «Non male come idea, no?» è il commento finale di Ôshima. 
La prima notizia del film arriva in Italia lunedì 17 maggio 1976, quando al cinema sono programmati film del tenore de Il solco di pesca («I due sex-simbols del cinema italiano per la prima volta insieme in un film di sconvolgente erotismo»), Campagnola bella («Successo delle contadine procaci e dagli istinti incontenibili e delle decisioni rapide. Vietato anni 18») e Casa di piacere («Una prima visione stuzzicante, un tester erotico a forti sensazioni hard-core. Decisamente vietato ai minori di anni 18»). Inoltre si anticipa che il giovedì successivo uscirà Giovannino col giovane Christian De Sica («Dopo “Paolo il caldo”, “La cugina”, “Malizia” e “Peccato veniale”, il nuovo divertentissimo erotico-sentimentale film tratto dal più bel romanzo di Ercole Patti»). Non stiamo parlando di losche sale dei bassifondi, piccoli cinema semi-nascosti dediti alla pornografia, bensì sale cittadine di cui si occupa una ricca distribuzione in grado di assicurarsi grandi pubblicità sui giornali. 
In questa data il giornalista Piero Perona, inviato speciale del quotidiano “La Stampa”, informa i lettori delle novità dal Festival di Cannes in corso in Francia. Ecco le sue parole per descrivere l’evento del giorno prima: 
«La massa dei festivaliers, esaurita la reazione troppo esigua dei due lungometraggi in concorso, si riversa in un cinemino della rue d’Antibes. Tutto esaurito mezz’ora prima dell’inizio, la coda che blocca il traffico, una protezione supplementare promessa e replicata. Siamo d’accordo: si inaugura l’attesissima Quinzaine de réalisateurs e il nome del regista Nagisa Oshimaè il più autorevole nel Giappone e nell’Oriente grazie a L’impiccagione, Sulle canzoni sconce giapponesi e La cerimonia. Tuttavia il titolo L’impero dei sensi e alcune dichiarazioni di Pierre De Mandiargues suggeriscono che ci troviamo di fronte a un’opera particolare. Le previsioni sono rispettate e il parterre si trova a contatto con il cinema d’autore più spinto nella recente storia dello spettacolo.» 
«I due interpreti Eiko Matsuda e Tatsuya Fuji, bellissimi, raffigurano una coppia di amanti che si vogliono furiosamente bene. Fanno di tutto, tutte le ore. Non simulano mai. Del resto il primo piano non mente e piuttosto ingrandisce le passioni e i desideri. Finché la donna (pare che si tratti d’un fatto vero degli Anni Trenta) soffoca l’innamorato che le aveva concesso qualsiasi licenza. Quindi ne taglia con un coltellaccio la parte migliore e vaga con quella stretta al petto per quattro giorni.» 
Tipico del grande giornalismo italiano svelare il finale con abbondanza di dettagli. 
«Al termine, domande a Oshima. Un raffinato non ha capito se il regista guidava rigorosamente gli attori oppure li lasciava liberi di improvvisare. Silenzio. Tra le file gorgoglia una risata livida.»

Sembra alquanto deludente il primo contatto de L’empire des sens con l’Italia, e la situazione non sembra cambiare il 21 maggio successivo, quando un altro inviato de “La Stampa”, il romanziere e giornalista Giovanni Arpino, giudica la fine della rassegna cinematografica all’insegna di un concetto curioso: «il tramonto dei film sul sesso». 
«L’età dei “guardoni” non è ancora entrata in crisi, ma le fortune del cinema erotico certamente sì.» Arpino ci racconta che le varie edizioni del Festival di Cannes fino a quel momento ci hanno proposto addirittura «una valanga, un uragano di pellicole “porno”», ah però! È una critica? Non sembra, visto che la lamentela verte sul fatto che quest’anno siamo un po’ poveri sul fronte pornografico: «O si salva per la prestazione di qualche “maestro” o molla gli ormeggi di fronte a un mercato che perde colpi ed interesse.» Il problema dunque non sta nella qualità ma nella quantità: che fine ha fatto la Cannes sforna-porno? In questa edizione tocca accontentarci dell’ungherese Miklós Jancsó, «che dopo tanti film in patria è approdato in Europa per speculare, con borghese cinismo, sulle deviazioni e i pruriti del mondo occidentale. La sua recente opera (che da noi gira in versione mutilata) s’intitola Vizi privati, pubbliche virtù.» 
«La caduta dell’erotismo era nell’aria. Non è bastato il giapponese Oshima con il suo Impero dei sensi a ridargli quota. In questo film una coppia di amorosi si consuma per giorni e giorni, fino all’omicidio commesso dalla donna sull’uomo consenziente. Segue la castrazione del protagonista, mentre “lei” se ne andrà in giro, verso il nulla, tenendo stretto l’inutile bottino sanguinoso.» 

La chiosa finale non può che essere in sintonia con l’epoca: «Il film è piaciuto a più di una femminista, ma sappiamo che alle femministe a oltranza manca ancora il conforto di un moderno filosofo, che spieghi loro il significato di certi complessi castratori ed autocastratori.» Ah, il grande giornalismo italiano politicamente scorretto: a forza di trovare in edicola giornalucoli umidi di saliva linguale, un’epoca in cui a sorpresa si sparava a zero sulle femministe – così, per il gusto di sparare – fa sospirare. 
Ciò di cui si cruccia Arpino non è la «parabola del cinema erotico», una delle cui cause (ci viene spiegato) è la saturazione di un mercato sciabordante di titoli, bensì il fatto che «è mancata una definizione dell’erotismo contemporaneo, malgrado l’infinita applicazione più o meno pseudo-sociologica. Caratteristica tradizionale dell’erotismo fu quel certo abbraccio fra amore e morte che i più bravi mestieranti del cinema ancora adottano, con vizi privati, degenerazioni settecentesche, castrazioni volontarie o quasi. Siamo ancora alla cornice di Sade o del funereo Bataille, dunque: il cinema ha messo in colori una filosofia da archivio, che il meccanicismo e la duplicazione di ogni rapporto amoroso non riscattano.» 
Dopo essersi lamentato che le platee dei cinema porno sono vuote, e i pochi spettatori sonnecchiano davanti agli amplessi – ridendo se i protagonisti hanno i piedi sporchi! – Arpino ci fornisce un’informazione preziosa. «Dei trecento film in programma [a Cannes] solo uno ha la chiara definizione di prodotto pornografico. Il resto cerca di contrabbandarsi come opera d’arte, e si sforza di rimettere insieme vecchi canovacci: peccato sì, ma in crinolina, stupri e incesti, ma in una corte reale, sfiancamenti progressivi del piacere, ma incorniciati negli Anni Trenta. Sennò, senza queste salse arcaiche, l’arrosto “porno” non lo vuole più nessuno.» 
Dov’è finito lo studio delle perversioni sessuali? Ora si è mascherato da arte e gira con la puzza sotto il naso, disdegnando i ruspanti cinemini porno. E il piacere? Ha lasciato il posto all’annientamento. «È un approdo senza risorse: si chiude con una rinuncia totale ed un privato massacro edonistico. La voluttà ha travolto le regole libertine, diventa paranoia e disgusto. Privo d’umana letizia, Eros muore.» Il cinema ha perso la sua “bellezza del diavolo”, conclude Arpino, «che era poi gioventù, fantasia, gioco»: se un film porno non ha questi fattori, sembra di leggere fra le righe, non veicola piacere ma morte.

L’impero italiano dei sensi (Pt.2)

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LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Il Festival di Cannes finisce e il bilancio tocca a Piero Perona, sulle pagine di “Europa” di sabato 29 maggio 1976: «Costituisce la gioia di chi ama il cinema, Nagisa Oshima scruta senza morbosità le follie erotiche di due amanti che si dannano da soli.» Poche parole, ma almeno lusinghiere. 
Lo stesso giornalista il 21 giugno successivo ci racconta degli “orientamenti dei produttori per la prossima stagione”, sdoganando un concetto a cui Arpino aveva già accennato: il cinema porno si sta trasformando in “film sexy d’autore”. «In ogni parte del mondo si avvertono i segni del declino della produzione pornografica. Nei Paesi del Nord Europa, negli Stati Uniti stessi i film spinti dove l’atto sessuale non è finto ma consumato, vengono relegati in sale particolari sempre meno frequentate. Linda Lovelace, interprete dello scandalo in Gola profonda, gira con Linda for president una scollacciata satira politica che tuttavia potrebbe benissimo comparire salvo il divieto dei minori. La Francia scoraggia il lancio del pornofilm con una serie di misure a carattere economico.» 
Pare che all’epoca la Francia avesse imposto tasse più onerose ai film dichiarati pornografici, costringendoli così ad un ghetto a loro riservato: se questo viene specificato, siamo autorizzati a pensare che in Italia non ci siano queste iniziative. «Da noi infine le leggi del mercato stanno per decretare la fine della programmazione sconcia: una zia scaccia l’altra, una camerierina vogliosa si confonde con la vicina dalle tendenze particolari, una brava maestra vale – come “nave scuola” – quanto la sua supplente. I titoli e gli argomenti, troppo simili e troppo improvvisati, si confondono con il risultato di non fare più sensazione.»
È incredibile leggere queste parole all’alba dell’esplosione della commedia all’italiana, scollacciata e fintamente disinibita: sta per arrivare una stagione di comici in mutande e soubrette in reggicalze che inonderanno di titoli ogni sala per almeno i dieci anni successivi, promettendo sesso senza mai realizzarlo. Diciamo che la “spinta” rimane, malgrado la si dia per defunta nel ’76, ma gli effetti sono totalmente diversi. 
Anticipando l’arrivo in sala de L’impero dei sensi, Perona ci racconta le parole dello stesso regista Ôshima. «Per il popolo giapponese l’amore carnale e l’amore spirituale sono legati insieme. Invece le classi dominanti tendono a separarli. Per giunta Sada, che rievoca una figura e i fatti realmente attinti dalle cronache del ’36, ha una tale personalità da opporsi allo spirito militaristico che allora falsava l’immagine del Paese.» 
«Nagisa Oshima inventa un erotismo che sa di funebre, alla Bataille o alla Artaud», conclude il giornalista italiano. Il film è stato lanciato: ora tocca ai distributori italiani portarlo in sala per mostrarlo a quegli spettatori così interessati al porno come vengono ritratti. Le cose, però, non vanno proprio così... 
«In Francia hanno fatto un referendum sui film più erotici. È risultato primo “L’impero dei sensi”. E secondi, a pari merito, il mio “La chiave” e “Gli uccelli” del maestro americano [Hitchcock].» Tinto Brass alla giornalista Anna Maria Mori, “la Repubblica”, 28 febbraio 1987 
Il maggio di Cannes è giunto alla fine e ora ci troviamo in quel territorio di nessuno fra i festival e le sale, fra i giornalisti e gli spettatori, fra chi deve criticare e recensire un film e chi va in sala a fare commenti fra amici. Siamo cioè in quel momento in cui il film ha finito di girare per festival e sta per arrivare nei cinema del Paese, quando cioè dovrà essere giudicato da chi davvero comanda. I critici possono dire quello che vogliono, sono chiacchiere: ciò che conta nel cinema sono i biglietti venduti. Se la gente non va al cinema, il film in questione può essere un capolavoro ma lo stesso rimane un flop. E quindi comincia la grande specialità italiana: la campagna elettorale.

Se organizzassero delle Olimpiadi della Campagna Elettorale l’Italia si farebbe costantemente onore, perché sfrutta la propria grande e fantomatica creatività proprio nel raccontare chiacchiere ai propri (e)lettori. 
Così il 2 agosto 1976 arrivano notizie da Tokyo, dove la polizia avrebbe sequestrato tutte le copie di un libro che presentava non solo la sceneggiatura de L’empire des sens ma ben venti pagine di fotografie. Fine della notizia. Da che fonte arriva? Chi ha pubblicato questo libro, una casa editrice indipendente o legata alla produzione del film? È cioè un’iniziativa privata o fa parte della campagna di promozione ufficiale? Chi ha curato quest’edizione aveva il consenso degli autori del film? E il «sequestro censorio» è avvenuto solo a Tokyo o in tutto il Giappone? Basta, è inutile andare avanti, il grande giornalismo italiano non fa domande e non cerca risposte: si limita alla propaganda. 
Questa notizia ha il forte sapore del sensazionalismo per far montare l’interesse nei confronti del film, in arrivo nelle sale, visto poi che è apparsa sullo stesso quotidiano “La Stampa” che dieci anni prima voleva farci credere che spie francesi erano arrivate di notte nella casa editrice milanese Ribalta per ricevere in dono le prime copie italiane dei romanzi di Francis Coplan, che dichiaravano di raccontare vere missioni sotto falso nome.

Come sempre, però, la realtà nasce dall’immagine: la finzione viene sempre prima. Così questa notizia viene ricordata il 28 agosto successivo, dopo che il sostituto procuratore della Repubblica di Trento, Carlo Alberto Agnoli, ha ordinato il sequestro su tutto il territorio nazionale dell’enciclopedia “Vita sessuale”. Si tratta di un’opera francese risalente al 1973, pubblicata in Italia da Mondadori nel 1974, che d’un tratto – secondo Agnoli – «esalta il nudismo» ed è «un chiaro esempio di pornografia perché alimenta la fantasia del lettore». Strano, di solito è l’erotismo che gioca con la fantasia: la pornografia al contrario non le lascia proprio nulla.

La propaganda sta preparando il terreno per un’uscita trionfale de L’empire des sens, l’estate ha montato l’attesa e quindi – com’è consuetudine per i film di Cannes – a settembre i cinema sono pronti per... niente. La macchina si è inceppata, e sebbene ampiamente atteso il film giapponese quel 1976 non si fa vedere in Italia. Perché mostra amplessi troppo espliciti che potrebbero turbare gli spettatori maggiorenni? No, visto che nell’ottobre 1976 la commissione di censura presieduta dallo stesso ministro democristiano Carlo Sangalli che – come vedremo – blocca L’empire des sens dà il via alla distribuzione in sala de La vera gola profonda, titolo italiano che cerca di rettificare l’errore dell’anno precedente di distribuire nei cinema nostrani Deep Throat II con il titolo Gola profonda. Dal 14 dicembre 1976 tornano su grande schermo gli amplessi di Linda Lovelace senza alcun velo né il minimo tentativo di spacciare il film per “arte”: è un film pornografico proiettato fuori dal circuito dei cinema a luci rosse, eppure è considerato meno “proibito” dell’opera di Ôshima.

Il 23 aprile 1977 esce nelle sale italiane il film erotico tedesco Vanessa di Hubert Frank e parte la consueta propaganda sensazionalistica. «Dissequestrato e in libertà provvisoria» strillano le locandine, aggiungendo slogan davvero signorili come: «Donna, non avere paura, il sesso è tuo!» Ma ciò che conta è che, dopo quasi un anno, l’atteso e negato titolo giapponese dev’essere ancora ben noto agli spettatori, perché sulle locandine viene riportata una dichiarazione della rivista “Films Box Office” (chissà se sia vera). Ci viene spiegato che il film tedesco sta «registrando i maggiori incassi anche su mercati tradizionalmente aperti ai films “harde-core”», usando termini inglesi stentati, e per farci capire il successo del film, ecco un paragone: «Giappone: paragone delle prime dieci settimane 1.000.000 di presenze in più per “Vanessa” rispetto a “L’impero dei sensi”» 
Molto facile che siano dati fantasiosi inventati sul momento, ma questa frase è indicativa per testimoniare come il film di Ôshima sia molto noto, sebbene nessuno spettatore italiano l’abbia ancora visto, tanto da diventare pietra di paragone.

Raccontare i problemi di censura dei film erotici è pratica storica del giornalismo italiano, e il 7 maggio successivo una notizia senza firma de “La Stampa” ci informa che L’impero dei sensi«è stato bloccato dalla censura italiana». Visto il «quasi ininterrotto susseguirsi di accoppiamenti e perversioni sessuali, spesso rappresentati attraverso l’esposizione di nudi integrali e di dettagli anatomici», il film è stato bloccato. È comprensibile, il comune senso del pudore va tutelato, anche se curiosamente questa notizia esce insieme all’annuncio di due film che stanno riscuotendo successo in sala: la sensuale danese Lisbeth Hummel ammicca ad un cavallo nella locandina de La bella e la bestia («Fino ad oggi i vostri occhi non avevano mai visto nulla di simile») e la milanese Adriana Asti ammicca all’obiettivo per il suo Maschio latino cercasi («Vi attendono i campioni della risata e del sesso»).

Questi due citati sono però film italiani, figli della grande arte cinematografica nostrana, quindi evidentemente godono di un lasciapassare morale. Invece è svedese il film Taboo di Vilgot Sjoman («Sconcertante! Scabroso! Coraggioso! Strepitosamente provocatorio! Un capolavoro!») che viene presentato il 6 dicembre 1977 come «il film che ha superato lo scandalo di Sweet Movie e L’impero dei sensi».
Insomma, il povero film di Ôshima continua ad essere citato... ma che fine ha fatto? Perché dopo Cannes 1976 ancora non esce nelle sale italiane? Il problema è che una volta tanto gli “strilli” hanno ragione: i problemi di censura sono veri e anche importanti. 
«Alla fine ci hanno invitato a vedere al videoregistratore “L’impero dei sensi colpisce ancora”.» Niccolò Ammaniti, Branchie (1994) 
C’è chi ha definito la Sada del film di Ôshima una ninfomane: questo è un problema per il delicato pubblico italiano del 1976? Ovviamente no: mentre il film giapponese viene proiettato a Cannes, il 21 giugno arriva nei cinema nostrani Le journal intime d’une nymphomane (1973) che viene “ammorbidito” con il titolo Le giornate intime di una giovane donna, così come diventa Clifford Brown il nome del regista, Jesús Franco. Non certo nuovo ai problemi del sesso su grande schermo.

Nel marzo precedente si era riunita la commissione di censura presieduta dal neoeletto Sottosegretario di Stato al Turismo e allo Spettacolo, il democristiano Antonino Drago, ed aveva stabilito che era impresentabile nelle sale italiane Die Blonde mit dem süßen Busen (1972) di Franco, «perché la vicenda è interamente basata su rapporti lesbici crudamente e dettagliatamente rappresentati, tra l’altro, anche con scene di sadismo oltre ai ripetuti primi piani del sesso della protagonista, il tutto sempre descritto con evidente compiacimento». Ad inizio aprile però la commissione si riunisce e visti i tagli applicati alla pellicola – via le frustate, via lo spogliarello, via gli amplessi e i «toccamenti lascivi tra la Cinzia ed Evelina» e varie altre sforbiciate per un totale di 110 metri di pellicola – il 16 aprile il film ottiene il visto per essere proiettato con il divieto ai minori di 18 anni, apparendo in sala il 21 agosto successivo con il titolo Piaceri erotici di una signora bene. Esattamente lo stesso giorno in cui I racconti immorali di Borowczyk (1973) viene presentato con il lancio «dissequestrato e senza tagli»: notizia falsa, visto che nel febbraio precedente il film viene tagliato per 117 metri di pellicola prima di ricevere il visto della censura (presieduta dallo stesso Drago).

Quando dovrebbe uscire nei nostri cinema il film giapponese, dunque, la situazione è abbastanza chiara: nessun problema a presentare pellicole con atti sessuali espliciti, l’importante è che subiscano i tagli decisi da una commissione di censura. Poi ci pensa il marketing, e se i tagli ci sono stati si scrive in locandina “senza tagli”, se invece il film non ha avuto alcun problema... lo si inventa, perché un problema di censura “vende” sempre. Così per esempio il 18 marzo 1976 esce Kitty Tippel (1975) di Paul Verhoeven non toccato dalla censura italiana, che ne ha riconosciuto «i pregi veramente artistici di esso sia per la spiccata recitazione degli attori sia per la ricostruzione degli ambienti dell’epoca», ma il lancio non resiste a vantare un’incriminazione per oscenità.

Il problema de L’empire des sensè che la prima commissione del visto censura riguardo L’empire des sens si riunisce solamente il 18 aprile 1977, quasi un anno dopo l’apparizione del film a Cannes, senza dare alcuna spiegazione di questo lungo intervallo. Grazie alle preziose informazioni riportate dal database di ItaliaTaglia.it sappiano che quella commissione – presieduta dal ministro democristiano Carlo Sangalli – nega il permesso di proiettare il film in sala. Scopriamo così che, come in pratica sempre accade in questi casi, sono stati richiesti dei tagli al distributore della pellicola, il quale però si è sempre rifiutato di applicarli, adducendo non meglio specificati “motivi tecnici”.

«Preso atto di quanto sopra, la Commissione, sciogliendo la riserva formulata nella precedente seduta, esprime, a maggioranza, parere contrario al rilascio del nulla osta di rappresentazione in pubblico del film “L’Empire des sens” in considerazione del quasi ininterrotto susseguirsi di accoppiamenti e perversioni sessuali, spesso rappresentati attraverso l’esposizione di nudi integrali e di dettagli anatomici dei protagonisti, ciò che unitamente al clima di esasperato erotismo che caratterizza la vicenda, rende il film, nel suo complesso, oltre che nelle singole scene, contrario al buon costume.» 
Non è però detta l’ultima parola, e l’11 ottobre successivo si torna alla carica, stavolta con i distributori disposti a più miti consigli. 
«Visto il film, sentiti i rappresentanti della società distributrice signori Loiacono e Improta, i quali sarebbero disposti ad apportare eventuali tagli, previo beneplacito del regista giapponese del film, la Commissione, a maggioranza, esprime parere negativo per la concessione del nulla osta di proiezione in pubblico per i medesimi motivi già espressi dalla Commissione di 1^ istanza: rappresentazione insistente di accoppiamenti e di perversioni sessuali; clima esasperato di erotismo e scene raccapriccianti, come la deflorazione di una giovanetta con un fallo artificiale; l’accoppiamento del protagonista con una vecchia e l’evirazione finale.» 
Niente anche stavolta. E ormai siamo al 1978. 

La situazione si ingarbuglia quando su “Europa” il 26 aprile 1978 viene lanciato il film Abesada: l’abisso dei sensi: «Derivato da un fatto di cronaca avvenuto a Tokyo nel 1936, il soggetto di Abesada non giunge nuovo per coloro che a qualche festival (o in proiezioni private) ebbero il privilegio di vedere il celebre film di Nagisha Oshima intitolato L’impero dei sensi, segnalato, sì, dalla critica cinematografica italiana ma da quasi due anni irrimediabilmente “fermo in censura” per i tagli che questa impone e la casa distributrice si rifiuta, non a torto, di eseguire. Anche Abesada qualche sforbiciata l’ha dovuta sopportare, ma se il “visto-censura”, appunto, dice il giusto essi non sono rilevanti, una ventina di metri in tutto, corrispondenti a pochi istanti di proiezione. Perché questa severità censoria nei riguardi di Oshima e una certa indulgenza per l’odierno, se il tema è il medesimo?» 
Il film della Nikkatsu è portato in Italia dalla romana VIS Distribuzione Cinematografica nel gennaio 1978, quasi sicuramente per sfruttare l’eco mediatica del film di Ôshima bloccato dalla censura, ma stavolta la commissione di revisione cinematografica – presieduta dallo stesso Sangalli – concede il visto previo due tagli al film: la scena in cui l’uomo ucciso ed evirato è inquadrato a tutto schermo e quella in cui la donna «si massaggia il petto con il membro dell’uomo». 
Il lancio del film, il 27 aprile successivo, è ovviamente roboante: «Dall’inferno dei sensi un amore drammatico che sconvolse il Giappone. Un fatto vero che supera qualsiasi fantasia erotica». Ma questo è niente: le locandine italiane parlano di plagio, parlano di un tal avvocato Shore Attali che davanti al Tribunale di Parigi ha intentato una causa: il film di Noboru Tanaka è uscito più di un anno prima del suo celebre clone di Ôshima! «Tra i “sensi” di Oshima e quelli di Tanaka pare stia per scatenarsi un’autentica guerra di cartebollate» commenta “La Stampa” nel recensire Abesada.

Con perfetto tempismo il 20 maggio del 1978 al Festival di Cannes viene presentato L’impero della passione, ovvio titolo “acchiappone” per il successivo film del regista Ôshima: stando alle cronache, gli spettatori di Cannes prendono d’assalto la sala, incuriositi dall’autore che ha creato tanto scandalo. 
Passa il tempo, il terzo Governo Andreotti lascia il posto al quarto Governo Andreotti e il democristiano Carlo Sangalli lascia il posto all’altrettanto democristiano Marcello Sgarlata, nel ruolo di Sottosegretario di Stato al Turismo e allo Spettacolo. Arriviamo al novembre 1978 e stavolta i tempi sono maturi per un’apertura: «Visionato il film, sentito il rappresentante della società interessata, la Commissione a maggioranza decide di sospendere il giudizio, suggerendo l’effettuazione dei seguenti tagli...» 
La specifica delle scene da epurare la trovate in appendice a questo articolo, ciò che qui conta è che, «accertata l’avvenuta esecuzione dei “tagli” in conformità dei suggerimenti formulati», il 1° dicembre 1978 finalmente il film ottiene il visto censura: «La Commissione, a maggioranza, considerando che nel film in esame tali scene, sia per l’ambientazione esotica, sia per lo stile freddamente oggettivo, sia per l’assenza di ogni vizioso compiacimento, non sono atte a turbare la sensibilità dello spettatore adulto, esprime parere favorevole alla concessione del nulla osta di rappresentazione in pubblico del film, con divieto di visione ai minori degli anni 18.» 
Lo stesso dicembre del 1978 esce l’Almanacco Bompiani (al sostanzioso prezzo di 10.000 lire), volume curato da Natalia Aspesi e da Lietta Tornabuoni interamente dedicato al “culto del corpo”, con le più disparate testimonianze: dalle canzoni di Lucio Dalla ai disegni di Topor alle immagini de L’empire des sens.
È ora che gli italiani sappiano...

L’impero italiano dei sensi (Pt.3)

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LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Alla fine, dopo quasi tre anni di rimandi e di attesa, il 28 marzo 1979 arriva la notizia: «L’Italia è il secondo paese al mondo in cui sarà possibile vedere in edizione integrale il capolavoro dell’erotismo contemporaneo». Così recita la locandina di Ecco l’impero dei sensi, con ben visibile la targhetta “Edizione integrale”.
Com’è possibile? La censura italiana ha richiesto molti tagli, com’è possibile esporre quella scritta sulle locandine? Eppure il giorno dopo, 29 marzo, quando il film viene finalmente proiettato in sala, il mistero è svelato: «Edizione integrale con sottotitoli italiani». Tre anni di attesa... e neanche l’hanno doppiato! «Dalla terra ove l’amore non è peccato ma occasione di gioia e di poesia, giunge questo audace, sconvolgente capolavoro che rivelerà a tutti i segreti più profondi delle passioni e le esaltanti liberazioni del gioco dei sensi.» «Film importante», lo giudica la recensione de “La Stampa” del 30 marzo successivo, che specifica come non si tratti di uno dei tanti film pornografici «per la semplice eccitazione e per il guardonismo doloroso e solitario»: chissà se era un neologismo dell’autore o se davvero all’epoca si tentò di italianizzare voyeurismo in “guardonismo”. «Quando l’erotismo si cala completamente nel segno dei sensi e ne accetta il dominio, non c’è più riscatto neppure nella parola, ma solo, appunto, nella furia distruggitrice, che può essere, volta per volta, rivolta a se stessi o all’altro amato: dedizione o cannibalismo.» La recensione purtroppo non ci dice l’informazione più importante: se il film è doppiato in italiano. Stando alle locandine, non lo è.

Passano i mesi e i film rimane evidentemente in lingua originale, mentre intanto escono “le pornosorelle” Claudine e Françoise Beccarie in Les pornocrates e mentre Erika Cool, «la regina dell’hard-core vincitrice dello “Zizi” d’Oro 1979», imperversa con il suo Pornoestasi, con tanto di ampie locandine sui giornali. Segno che la morale pubblica è salda al suo posto ed evidentemente accetta tutto tranne il film di Ôshima: plausibile chiedersi quanto mantenessero quei film ammiccanti, con locandine provocanti che promettevano sesso a go-go, se è evidente che non hanno avuto tutti i problemi del film giapponese. Ed erano addirittura doppiati.

Il 2 luglio 1979 il consueto Piero Perona, in un’indagine sulla scarsa affluenza nelle sale estive salvate solo dai film porno di provincia, ci informa che «fra i cento titoli di maggior incasso nelle prime visioni della stagione ’78-’79, si trovano unicamente L’impero dei sensi, un capolavoro dell’erotismo giapponese, e La liceale nella classe dei ripetenti.» Davvero un’accoppiata da brividi...
«Alle sei uscì per andare a comprare la cena per tutti e tre, si bevve mezzo bicchiere di whisky e quindi partì alla volta di un cinemino di Camden Town dove proiettavano “L’impero dei sensi”.» Ruth Rendell, La morte mi ama (luglio 1979) 
Finora abbiamo parlato di un film con il titolo italiano Ecco l’impero dei sensi (L’empire des sens), così registrato al momento del visto censura, mentre all’inizio del 1980 la commissione si riunisce di nuovo, sotto l’egida del ministro democristiano Bernardo D’Arezzo, per dare il visto censura ad un film con il titolo L’impero dei sensi (Le general et son empire des sens) di Atsuo Sekimoto. Ovviamente è l’immancabile sequel che ogni grande successo può vantare. 
«La Commissione, all’unanimità, esprime parere favorevole alla concessione del nulla osta per la proiezione in pubblico del film con il divieto per i minori di anni 18, per le numerose scene erotiche e di violenza che il film stesso contiene.»
Ogni remora è scomparsa: ricevuto il visto l’8 agosto 1980, L’impero dei sensi 2 arriva nelle sale subito il 19 agosto. E ovviamente è un flop. «Il film non è porno e delude il guardone delle luci rosse abituato a ben altri exploits», stronca un giornalista de “La Stampa” evidentemente rotto ad esperienze di più sostanziale spessore. «Il film non è porno, ma è oscenamente sciocco nel tentativo di illustrare con malcelata ritrosia quelle scene (qui abbondanti) che hanno fatto la fortuna di un certo cinema danese.» Chi è che non conosce “un certo cinema danese”? 
In quel 1980 il cinema porno è più vivo che mai, con locandine più che eloquenti fatte di donne che accarezzano cavalli e seni al vento, con titoli che meriterebbero un applauso: da Le goditrici (maggio) a Clitò - Petalo del sesso (settembre), da Le 4 pornoamiche (ottobre) a La provinciale porno (maggio). Ma il cinema porno non era finito nel ’76? 
«Ricorda la scena finale dell’“Impero dei sensi”, di Mishima? Il massimo piacere lo si ottiene strangolando l’amante.» «Ma chi prova il piacere, lei che lo strangola o lui, lo strangolato?» «Per rispondere a questa domanda, bisognerebbe averlo provato.» Manuel Vázquez Montalbán, Storie di politica sospetta (1987) 
Il 26 marzo 1988 si riunisce di nuovo una commissione che rivede il film, nella «seconda edizione, riedizione doppiata»: quindi stavolta un doppiaggio italiano c’è. «La Commissione rileva che di fronte al fatto nuovo dei dialoghi in italiano, rileva che viene esaltato l’aspetto negativo del film (esprime parere) in rapporto al concetto di “buon costume” e ritiene opportuno effettuare dei tagli.» 
I tagli ventilati sono in più rispetto a quelli già attuati in precedenza? Oppure questa commissione ha visionato la versione del film “estesa”, e non quella apparsa nei nostri cinema? Il fatto che i tagli richiesti siano in pratica gli stessi di dieci anni prima, fa optare per questa seconda ipotesi. 
Comunque ad aprile la commissione, presieduta dal sottosegretario democristiano Luigi Rossi di Montelera fresco di nomina, concede il visto censura con il divieto ai minori di 18 anni. 
Il 19 maggio 1988 arriva in sala Ecco l’impero dei sensi finalmente doppiato, con la scritta: «In versione originale, in lingua italiana». Perché si continua a parlare di “versione originale” se i visti censura vengono forniti solo dopo vari tagli alla pellicola? 
Nel maggio del 1989 la General Video porta in videocassetta il film, al prezzo di 29 mila lire, un ottimo prezzo per l’epoca. Nel 2003 la RHV (Ripley’s Home Video) presenta un DVD che non sembra essere stato più ristampato, segno che il film non ha ancora esaurito la sua dose di problemi di distribuzione. L’Italia è meno che mai un paese per i sensi di Ôshima... 


APPENDICI 

Dal Dizionario del cinema. Cento grandi film di Fernaldo Di Giammatteo 

In un momento di crisi del cinema nipponico, Nagisa Ôshima accetta la proposta del distributore francese dei suoi film e affronta l’impresa di uno scandalo radicale: affondare le mani nell’erotismo, esplorarlo e consumarlo sino al delirio. 
Realizza due opere parallele ma autonome, ambientate in periodi diversi: la prima – Ai no korida– si svolge nel 1936, la seconda – Ai no borei / L’empire de la passion– alla fine dell’Ottocento; la prima a Tokyo, la seconda in campagna. 
E lo scandalo è davvero enorme, in Giappone e, soprattutto, in Occidente: Ai no korida piomba su un pacifico festival di Cannes, nel 1976, fra platee pur avvezze alle provocazioni di Bertolucci – Ultimo tango a Parigi (1974) – e di Borowczyk – Contes immoraux (1974), La bête (1975). 
Il significato del primo film (dei due il migliore) è per un verso il contrasto fra la materia brutalmente esibita e la sontuosa eleganza della confezione a colori e per un altro la descrizione della irrimediabile solitudine in cui precipitano i protagonisti, il proprietario di un albergo (Kichizo, interpretato da Tatsuya Fuji) e la cameriera Sada (Eiko Matsuda). 
Se il sadismo è certo una componente fondamentale dello sguardo di questo giapponese, figlio di un paese tormentato, si può supporre che tanta efferatezza derivi al regista da una dura delusione esistenziale e politica, nonché dalle difficoltà incontrate per riuscire a produrre i suoi film. 

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1° dicembre 1978 

Si è riunita la 3^ Sezione della Commissione di revisione cinematografica per esaminare il film. Visionato il film, sentito il rappresentante della società interessata, la Commissione a maggioranza decide di sospendere il giudizio, suggerendo l’effettuazione dei seguenti tagli: 
1) eliminazione della sequenza in cui si vede il membro del vecchio che si masturba, per un totale di mt. 3,30; 
2) alleggerimento della scena con soppressione del coito orale in primo piano, per un totale di mt. 11,40; 
3) alleggerimento scena con taglio del secondo coito orale, per un totale mt. 2,80 e alleggerimento scena deflorazione donna con fallo di legno, per un totale di mt. 4,60; 
4) alleggerimento scena dell’uovo con eliminazione della sequenza in cui si vede introdurre lo stesso nella vagina, per un totale di mt. 6,50; 
5) alleggerimento scena di gelosia con taglio dell’inquadratura del pene impugnato dalla donna, per un totale di mt. 7,70; 
6) taglio della seconda inquadratura in cui si vede la donna seduta a cavallo del protagonista introdursi il membro della vagina, per un totale mt. 7,80. 

Successivamente, in data 22/11/1978, la Commissione accerta l’avvenuta esecuzione dei “tagli” in conformità dei suggerimenti formulati e, pur dando atto che taluno ritiene contraria al buon costume la rappresentazione diretta ed immediata di congiungimenti carnali e di altri atti sessuali, la Commissione, a maggioranza, considerando che nel film in esame tali scene, sia per l’ambientazione esotica, sia per lo stile freddamente oggettivo, sia per l’assenza di ogni vizioso compiacimento, non sono atte a turbare la sensibilità dello spettatore adulto, esprime parere favorevole alla concessione del nulla osta di rappresentazione in pubblico del film, con divieto di visione ai minori degli anni 18.

26 marzo 1988 

(...) visionato il film (...) 2^edizione, riedizione doppiata, la Commissione rileva che di fronte al fatto nuovo dei dialoghi in italiano, rileva che viene esaltato l’aspetto negativo del film (esprime parere) in rapporto al concetto di “buon costume” e ritiene opportuno effettuare dei tagli. Invitato in tal senso l’interessato, questi si dichiara disposto ed eseguirli. Pertanto la Commissione dispone i seguenti tagli: 
1) taglio della scena raffigurante la caduta dell’uovo dalla vagina della protagonista; 
2) taglio della scena in cui il protagonista bagna il cibo nella vagina; 
3) taglio della scena in cui la donna mette in bocca i peli tagliati dal pube dell’uomo; 
4) alleggerimento della scena finale nella quale la donna ha in mano il membro reciso. 
La pellicola tagliata è di mt. 4.90 (1^ scena), mt. 6,10 (2^ scena), mt. 0.90 (3^ scena), mt 1,40 (4^ scena) per complessivi metri 13,30 regolarmente repertati. Constatati i tagli la Commissione esprime, a maggioranza, parere favorevole alla concessione del nulla osta di proiezione in pubblico con il divieto di visione per i minori degli anni diciotto per le scene di degradazione sessuale e di sado masochismo che rendono inadatta la visione del film ai minori degli anni diciotto. 


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Il Cinema. Grande storia illustrata” (The Movie, Orbis Publishing) Volume VII, fascicolo 87 (Istituto Geografico De Agostini 1982) 

Non tutti i film provenienti dal Giappone godono in Occidente di un succès de scandale simile a quello di Ecco l’impero dei sensi. Però, anche se si può insinuare che la matrice artistica giapponese del film sia stata corrotta dal cosmopolitismo e dal sensazionalismo, inevitabili in una co-produzione internazionale, nulla può inquinare la complessità inconfondibilmente orientale della vigorosa tragedia sessuale realizzata da Nagisa Ôshima. 
Un film simile, che in una sequenza di ben 20 scene ritrae i due amanti, Sada e Kichi, impegnati in una serie di amplessi sempre più appassionati, non può che accendere un dibattito: si tratta di arte o di pornografia, di erotismo o di mero distacco cinico? Com’è prevedibile in queste circostanze, il film ebbe problemi di distribuzione: negli Stati Uniti e in Gran Bretagna furono le autorità doganali (!), e non i normali censori, a essere chiamate a pronunciarsi sui meriti estetici dell’opera, mentre Ôshima, dopo aver girato il film in Giappone, fu costretto a inviarlo a un laboratorio francese per farlo stampare e montare. 

Il fuoco di fila di orgasmi e di perversioni è presentato in un modo estremamente manierato, quasi a voler negare allo spettatore la possibilità di trarre un qualsiasi piacere diretto da ciò che vede. Kichi ha la capacità infinita e irreale di raggiungere erezioni e orgasmi illimitati, mentre Sada pretende che ogni copula sia più intensa e più vigorosa della precedente, e questo li porterà inevitabilmente a decidere di comune accordo il loro coito finale e mortale: si tratta al tempo stesso di una prova d’amore e del desiderio di raggiungere un orgasmo che nessuno dei due potrà mai più replicare da solo, un orgasmo che nessun altro amante potrà mai condividere, una simbiosi totale di due esseri in una sola esperienza. 

Pur nella sua oggettività quasi documentaristica, non è solo il film a essere socialmente inaccettabile: gli amplessi di Sada e Kichi non sono un fatto privato, e anche la servitù che entra nella loro stanza per fare le pulizie viene invitata a prendervi parte; per imbarcarsi in questa avventura, Kichi ha dovuto lasciare la moglie, la famiglia e gli affari. Parodiando poi un matrimonio, Kichi e Sada concludono la loro festa nuziale con un’orgia. Sullo sfondo di tutta questa sontuosa licenza sessuale c’è il ritratto in miniatura di una società borghese repressiva, ossessionata dalla propria stessa ortodossia. In una breve scena, la macchina da presa segue Sada e Kichi lungo una strada in cui marciano interi reggimenti di soldati; in un’altra scena vediamo dei bambini sventolare patriotticamente la bandiera. Il poscritto c’informa poi che la vicenda è tratta da una storia vera del 1936, ma fino a quel momento non si ha idea dell’epoca in cui il film è ambientato. Le implicazioni politiche di Ecco l’impero dei sensi risultano comunque ambigue ove si comprenda che il mondo introspettivo e appartato dei due amanti è deliberatamente ignaro sia del militarismo sia dell’oppressione del mondo esterno. 

A tratti si ha l’impressione che Oshima presenti questa coppia in modo tale da rendere impossibile al pubblico identificarsi in essa. Pur nella semplicità della narrazione, lo spettatore occidentale che associa l’amore ai concetti di tenerezza e di rispetto reciproco rimane impermeabile al freddo erotismo della violenza e del potere. Accusato di aver rinunciato all’impegno sociale e politico dei suoi film precedenti, il regista rispose con una domanda: «Non è forse estremamente importante dimostrare la propria indifferenza verso la politica?». In effetti, l’indifferenza degli eroi del film si manifesta nel modo in cui il loro egoistico erotismo si tramuta in una sorta di martirio, il che, ironia del destino, fece di Sada un’eroina mitica del movimento femminista giapponese: Sada è la donna che possiede l’uomo, la donna che infrange i tabù sessuali, la donna che trasforma il proprio amante in un mero fornitore di orgasmi. 

Non vi è nulla che lascia intendere che le sue azioni siano meditate, e in effetti ci si domanda se i due amanti siano esseri pensanti. La loro esistenza — conclusa da un atto suicida — non è che una serie di riti privati: la rasatura quotidiana e la regolare esibizione di oggetti taglienti (un rasoio, un paio di forbici, un vetro rotto, un coltello), il gioco di far passare il cibo nella vagina di Sada prima di mangiarlo, il gergo amoroso dei due sono tutti riti privati in cui lo spettatore attivo è relegato al ruolo di voyeur passivo. È in questo caso inutile appellarsi all’universalità di un film sul piacere sessuale: un film dagli orizzonti tanto ristretti — come quelli dei suoi due amanti solipsistici — corre il rischio di apparire intellettualmente indifendibile pur con i suoi meriti estetici.


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