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Un mondo di Yūrei

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Come ho già scritto la volta scorsa, scrivere cento post su un unico argomento non è affatto facile. Occorre organizzare tutto con coerenza, evitando di cadere nella trappola dell’entusiasmo che, per quanto sia un ottimo lubrificante per questo mio motore, potrebbe essere alla lunga la causa di un fallimento (termine, quest’ultimo, che è presente nel mio vocabolario). Mentre scrivo mi rendo conto che servirebbero non uno, ma dieci o venti post di introduzione per poter gettare delle fondamenta stabili. Mettersi a raccontare storie di fantasmi, così come preannunciato all’inizio di questo speciale, è rischioso, e questo “edificio” avrebbe bisogno di basi solide su cui essere costruito e, sul versante tempo, di poter (r)esistere alla sua inevitabilmente mostruosa durata. Il calendario editoriale di questo blog (*), nonché la sua tradizione, prevede però che il mese di aprile sia interamente dedicato a uno speciale cinematografico e ciò complica un pelino le cose. Non resta quindi che approfittare delle circostanze e volgerle a nostro vantaggio, per cui quest’anno il tanto atteso evento primaverile si trasformerà in un acrobatico “speciale nello speciale”. Di cosa si tratta? Non posso ancora rivelarlo ma, sebbene vagamente, ne accennerò in fondo a questo post. Ricominciamo oggi il discorso dal punto in cui lo avevamo interrotto qualche settimana fa, vale a dire da un punto ancora molto lontano dalla nostra destinazione finale.
Oggigiorno noi tendiamo a semplificare e l’etichetta J-Horror, riferita a quel particolare cinema proveniente dal Sol Levante, è in realtà solo la facciata di qualcosa di profondamente radicato nella tradizione di un paese che noi occidentali fatichiamo, ma in realtà nemmeno ci sforziamo, a cogliere nei suoi aspetti più interessanti. Ci incolliamo di fronte a uno schermo, lasciamo crescere dentro di noi la tensione dell’attesa e rimaniamo inerti, consci che quest’ultima può scatenarsi all’improvviso nelle vesti di una malevola apparizione. Una semplificazione assurda, assurda tanto quanto è assurda la nostra presunzione di essere gli unici depositari di una tradizione che ha contribuito, nell’arco di oltre cinquecento anni, a diffondere storie di fantasmi in giro per il mondo. Spettri dal carattere furioso e vendicativo, come possono essere Sadako (Ring-u) e Kayako (Ju-on), non sono certo invenzioni dell’era moderna. Tutt’altro: esse sono l’evoluzione (o la trasposizione che dir si voglia) di creature delle cui vicende il folclore giapponese si occupa da centinaia di anni, addirittura da quel periodo Edo (1603-1868) che assistette a una produzione intensissima di creature fra le più grottesche e mostruose che il genere umano abbiamo mai concepito.
Furono quelli gli anni dai quali proviene la maggior parte delle testimonianze giunte sino a noi, affermazione che non esclude che vi siano stati momenti precedenti di altrettanto fulgore nell’attenzione per il sovrannaturale, come per esempio il ben più remoto periodo Heian (794-1185).
Come sostiene Terence Barrow nella prefazione al volume “Japanese Grotesqueries” di Nikolas Kiej’e (edizioni Charles and Tuttle), le creature sovrannaturali della tradizione giapponese, quelle che oggi ben conosciamo attraverso l’arte, il cinema e la letteratura sono una ben dosata miscela di culture provenienti da svariate aree del continente asiatico. Esse rappresentano la summa dell’idea cinese del mondo demoniaco, delle credenze indiane circa la trasmigrazione dell’anima e delle credenze Shintō riguardanti gli spiriti della natura e degli animali. 

Nulla di originale, quindi? In un certo senso è così, ma la questione-cultura in Giappone andrebbe valutata non tanto per le sue origini, quanto per il modo in cui già i primi abitanti della nazione Yamato siano stati in grado di “giapponesizzare” tutto ciò che attraversava i loro confini. Non dimentichiamo che, proprio a causa del suo isolamento geografico, il Giappone ha subito nei secoli pochissime invasioni straniere e di conseguenza ha potuto selezionare con cura e intelligenza ciò che la interessava delle culture degli altri paesi. Ma sto divagando…
La volta scorsa accennavamo alle differenze tra le due diverse culture, la nostra e quella giapponese, in relazione al mondo dei fantasmi. Una cosa ci eravamo forse dimenticati di sottolineare, vale a dire che se paragoniamo la nostra vita quotidiana con quella dei giapponesi ci accorgiamo che gli spiriti sono poco comuni nell'una quanto puntualmente presenti nell’altra. Esattamente come in Occidente, anche in Giappone si crede che gli spiriti dei defunti, al momento della morte del corpo, abbandonino quest’ultimo e raggiungano una nuova dimensione dell’esistenza in un indefinito mondo ultraterreno. Esiste però un luogo intermedio, una specie di limbo, nel quale le anime farebbero sosta prima del passaggio definitivo. Da questo luogo si dice sia ancora possibile tornare, e ciò sarebbe maggiormente vero per quelle anime le cui emozioni sono così forti da impedire loro di staccarsi del tutto da ciò che erano. Amore, gelosia, tristezza, odio e rancore sarebbero sentimenti talmente intensi da imprigionare le anime in quello stadio intermedio e, in casi estremi, da consentire loro di ritornare nel mondo dei vivi. E una volta che i “ritornati” avranno riattraversato la soglia in senso contrario, nulla potrà più placare le loro ossessioni se non una completa e definitiva redenzione da parte di colui o colei che, in vita, ha scatenato tali emozioni. Ma non sempre una redenzione può garantire i risultati sperati: amore, gelosia, tristezza, odio o rancore possono trasferirsi su chiunque abbia semplicemente la sventura di incontrare uno Yūrei.

È proprio il termine Yūrei (幽霊) che da questo momento in avanti utilizzeremo per riferirci ai fantasmi della tradizione giapponese, un termine composto dai kanji 幽 (yū), che significa "pallido", “tenue” o “leggero” e 霊 (rei), che significa "anima" o "spirito". È importante non confondere il termine Yūrei (幽霊) con il forse più famoso Yōkai (妖怪), al quale abbiamo accennato nel primo post: Yōkai, sebbene a volte il suo significato si accavalli a quello di Yūrei (alcuni Yūrei sono di fatto anche Yōkai), identifica generalmente un demone, un essere soprannaturale, una creatura mitologica come quelle che popolano fiabe e leggende.
C’è un modo molto semplice per distinguere i due concetti: uno Yūrei è “qualcuno”; uno Yōkai è “qualcosa”. Se riuscite a tenere a mente questa semplice regoletta non rischierete di sbagliare. Nel dubbio considerate anche che Yōkai è un termine generico, mentre Yūrei è più specifico: va da sé che scambiare uno Yūrei per uno Yōkai è meno grave del contrario. A loro volta gli Yūrei si distinguono in varie sottocategorie, una delle quali l'abbiamo già nominata, se ricordate, in chiusura del post precedente: gli Onryō (怨霊), termine composto dai kanji 怨 (on), che significa “risentimento”, “rancore”, ma anche “gelosia” e 霊 (ryo, rei), che significa, come abbiamo visto, "anima" o "spirito". Gli Onryō sono quindi spiriti che hanno trovato la strada per ritornare nel mondo terreno grazie a un’inestinguibile sete di vendetta. Come accennato la volta scorsa, gli Yūrei, in generale, e gli Onryō, in particolare, sono quasi esclusivamente di sesso femminile: donne che furono impotenti nel mondo fisico, spesso soggette ai capricci e alla ferocia dei loro compagni, ma in grado di diventare potentissime dopo il trapasso. Il più celebre tra gli Onryō è senza dubbio Oiwa Inari (お岩稲荷), lo spettro di una donna che, avvelenata dal marito infedele, ritorna dalla morte con il volto sfigurato per esigere vendetta. Avremo comunque modo di parlare della storia di Oiwa, nota anche come Yotsuya Kaidan (四谷怪談), piuttosto a lungo nei prossimi mesi. Oggi ci fermiamo qui perché dobbiamo lasciare spazio al già citato speciale di aprile che, guarda un po’ il caso, quest’anno si occuperà di Kiku (菊), un altro importantissimo Onryō, sorto dalla rabbia di una donna uccisa dal samurai presso cui era a servizio, il quale non aveva potuto accettare che le sue “attenzioni” venissero respinte. Una storia che ha dato vita ad una serie incredibile di trasposizioni cinematografiche, tra in cui in particolare una saga che… beh... lo vedrete tra qualche giorno sul blog.

Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto,  esso rappresenta la parte 3 in un totale di 100.
Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. Buona lettura! 
P.S.: Possiamo spegnere la 3° candela...

Nell'acqua salmastra...

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E con questo sono cinque! Che cosa? Ma gli anni di blogging, naturalmente! Fu infatti proprio in un uggioso pomeriggio di aprile di cinque anni fa che Obsidian Mirror aprì i battenti e si affacciò sul web. Sembra passato un attimo da allora ma, cavolo, se mi fermo a pensarci sopra, cinque anni sono un’eternità. Quante cose sono cambiate in tutto questo tempo! Il blog è cambiato, io sono cambiato, il mondo è cambiato. Anche i visitatori del blog sono cambiati: molti di quelli della prima ora sono spariti nel nulla, alcuni sono rimasti, altri si sono aggiunti per poi svanire a loro volta e lasciare il posto ad altri ancora. Ho quasi perso il conto di quanta gente si sia affacciata qui, lasciando un segno del suo passaggio in un commento o mettendo una faccia nel widget dei follower.
A volte mi chiedo se qualcuno si è mai accorto che nelle ricorrenze tendo spesso a ripetere le stesse cose, come quel particolare della pioggia in quel pomeriggio di aprile di cinque anni fa. Ma se il pubblico che mi segue è distratto anche solo la metà di quanto lo sono io, allora forse farò meglio a spiegare cosa sta per succedere sul blog a partire da oggi.
È usanza di Obsidian Mirror festeggiare i suoi compleanni con qualcosa di alternativo al solito post con le candeline. Quel “qualcosa di alternativo” è uno speciale che inizia oggi e avrà termine l’ultimo giorno del mese. L’argomento, come non avrete certamente mancato di notare, è annunciato in pompa magna dal nuovo header, posizionato là in cima, che sostituirà quello tradizionale per i prossimi trenta giorni.

Ricordate quando due anni fa, esattamente il primo giorno di aprile come oggi, partiva lo speciale dedicato a Phantasm, la saga cine-horror del regista americano Don Coscarelli? A quei tempi quell’iniziativa era il progetto più intenso e complesso della storia di questo blog, un progetto che non mancò di regalarmi un sacco di soddisfazioni, non ultima quella di essere riuscito a terminare qualcosa di iniziato (cosa davvero rara per me). Ma questo in realtà non fu nulla a confronto di quanto avvenne un anno dopo quando, forte dell’esperienza acquisita e consapevole degli errori commessi, mi ributtai in un progetto se possibile ancora più ambizioso. Nel 2015 fu la volta del ciclo coreano dei Whispering Corridors, ovvero di quei corridoi scolastici che ci diedero modo di parlare di orrore del quotidiano, quello vero, quello a cui ormai non facciamo più caso. Non ho volutamente usato il termine horror per definire lo speciale dello scorso anno in quanto, come senz’altro ricorderete, non solo Whispering Corridors, come molto cinema di genere, utilizzava i topoi del genere come pretesto per sviscerare concetti sociali ben più importanti, quali il dissenso per la logica folle propria dell’educazione scolastica coreana o il crescente fenomeno dei casi di suicidio giovanili all’interno di una società che noi occidentali stentiamo a comprendere, ma puntava molto più sull'aspetto drammatico delle vicende che su quello meramente orrorifico.
Il risultato finale fu sorprendente anche per me che, a conti fatti, mi ritrovai ad aver realizzato un immenso e articolato disegno che partiva dal cinema e finiva per spaziare nella magia, nella religione, nella cronaca e, naturalmente, nel sociale. Quest’anno proverò a ripetere per la terza volta l’esperimento con un nuovo speciale. Rispetto all’anno scorso il passo è abbastanza breve in termini geografici, visto che dalla Corea ci spostiamo poco più in là, e precisamente in Giappone, ma è un passo smisurato per quanto riguarda i contenuti.
Tra l’altro, come avrete notato osservando attentamente l’header, quella che state leggendo è la prima parte di un progetto talmente lungo e articolato che non ho potuto fare a meno di spezzarlo a metà, spalmandolo su due interi mesi, naturalmente non consecutivi.
Aggiungo, nel caso ve ne fosse bisogno, che questo speciale si incastra a sua volta all’interno di un altro speciale, immensamente più vasto, quel Gathering of One Hundred Supernatural Tales(Hyakumonogatari Kaidankai) che ha preso il via a febbraio. Immagino si fosse capito, no?
E immagino si fosse capito anche che saremmo andati a esplorare il mondo di uno dei più celebri Onryō della tradizione giapponese, sorto dalla rabbia di una donna uccisa dal samurai presso cui era a servizio, il quale non accettava che le sue “attenzioni” venissero respinte. A quell'Onryō avevamo dato anche un nome: Kiku. La sua storia è stata rappresentata più volte nel corso dei secoli e, come spesso accade in questi casi, è stata più volte stravolta nella sua struttura. Ma un solo particolare è rimasto sempre inalterato: il finale, quello che vede una giovane donna finire scaraventata in fondo a un pozzo dal suo aguzzino, un pozzo che per lei rappresenta allo stesso tempo morte fisica e veicolo attraverso il quale poter ritornare, carica d’odio, nel mondo terreno. Il suo nome è Kiku (菊), ma in Giappone è meglio conosciuta come Okiku* (お菊), nome con il quale era rappresentata già nella prima metà del XVIII secolo nei primissimi spettacoli di bunraku, il celebre teatro dei burattini. Noi occidentali, che l’abbiamo scoperta solo di recente per merito del regista Hideo Nakata, ce la ricordiamo invece con un nome diverso: Sadako Yamamura!



(*) Il giapponese antepone il prefisso “o-“ a un nome proprio o a un sostantivo per assegnarli una connotazione onorifica.

Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 4 in un totale di 100.
Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che inizia oggi. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 4° candela...

Oltre lo schermo

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“The Ring” (Ringu, リング) non è stato solo uno dei tanti franchise di successo, quello che ha portato nelle sale cinematografiche una decina di pellicole tra sequel, prequel, remake e reboot, ma ha innescato un fenomeno virale che è proseguito per molti anni e che, sebbene ridimensionato dal tempo, continua ancora oggi in tutto il mondo. Ma quale singolare meccanismo si nasconde dietro lo scatenarsi di un fenomeno virale come può essere quello di una nuova moda cine-horror? La qualità oggettiva di un prodotto, il semplice intervento del caso oppure una combinazione delle due cose? Magari è necessario anche un pizzico di fortuna e il sapersi far venire l'intuizione giusta al momento giusto. Probabilmente la risposta è un giusto mix di tutte queste cose, ma anche la sagacia e la lungimiranza di coloro che, in un modo o nell’altro, hanno contribuito alla nascita e alla crescita di tale fenomeno. Questo risultato, è bene sottolinearlo, non è limitato al solo franchise di Ring, per quanto questo possa essere di vasta portata, bensì è da estendersi a tutto il filone J-horror che, proprio iniziando da Ring, si è rapidamente allargato a macchia d’olio invadendo in maniera sistematica, per un intero decennio, tutto l’Occidente. Senza nulla togliere agli altri, sono due in particolare i nomi a cui il mondo deve riconoscere la genesi di Sadako e di tutti i personaggi che in seguito saranno in qualche modo ricollegabili alla protagonista di Ring: Kōji Suzuki (鈴木 光司) e Hideo Nakata (中田 秀夫).
Il primo nasce a 13 maggio 1957 a Hamamatsu, nella prefettura di Shizuoka, situata nella regione di Chūbu, un centinaio di chilometri ad est di Osaka, il secondo nasce il 19 luglio 1961 ad Okayama, capitale dell’omonima prefettura, situata nella regione del Chūgoku (San'yō), un centinaio di chilometri ad ovest di Osaka… No, no, non vi preoccupate… stavo solo scherzando. Queste sono informazioni che chiunque può andarsi a leggere su Wikipedia.

Quello di cui parleremo qui è l’incredibile risultato che i due (il primo scrittore, il secondo regista cinematografico) sono riusciti a ottenere narrando una storia che di per sé potrebbe sembrare banale (almeno per i giapponesi, che la conoscono da qualche secolo), ma che è stata in grado, forse davvero per la prima volta nella storia, di avvicinare due culture così agli antipodi come quella giapponese e la nostra. Quale è stato il punto di contatto? Ma naturalmente la paura! Non c'è infatti luogo al mondo ove tale sentimento non condizioni la vita delle persone, anche se le sue incarnazioni possono essere molto diverse fra loro. Il meccanismo attorno al quale ruota tutto questo è in realtà piuttosto semplice: nel suo romanzo, dato alle stampe nell’ormai lontano 1991, Kōji Suzuki ha sapientemente miscelato una storia di fantasmi tipicamente locale, giacché ispirata a una classica figura della tradizione nipponica, con quel substrato di perturbante che tutti noi sperimentiamo nell’uso della tecnologia, in generale, e del mezzo televisivo in particolare.
La trama del romanzo è piuttosto nota e, per forza di cose, ne parleremo in lungo e in largo per tutto il mese. Lasciatemi solo dire che, per sommi capi, si tratta della storia di uno spettro vendicativo il cui rancore, superando i limiti fisici di spazio e tempo, riesce a materializzarsi in un video e a scatenarsi sul malcapitato quanto innocente spettatore. Questa storia per la verità è piuttosto diversa da quella di cui Hideo Nakata decreterà il successo sette anni più tardi con il suo omonimo film: nel romanzo alcuni elementi chiave (quelli più virali, per essere chiari) sono completamente assenti mentre altri, pur presenti, furono in diversa misura reinterpreti dal regista al fine di adattarli meglio al mezzo cinematografico. È proprio su uno di questi che ci soffermeremo nell’articolo odierno, quell’elemento che ha permesso al Ring cinematografico originale (リング Ringu, 1998) di trasformarsi in un fenomeno seminale: tale elemento non è altro che Sadako nell’atto di attraversare lo schermo per ghermire le sue vittime.

Al termine di un decennio che aveva ridotto il cinema horror alla canna del gas per la cronica mancanza di idee e originalità, non poteva che essere un violento colpo di coda a risollevare le sorti di un genere ormai mortificato. Quel colpo di coda fu l’introduzione di poche, nuove regole che andavano principalmente a riprogettare le luci, i colori e, soprattutto, il sonoro. Spazzati via in un sol colpo tutti gli slasher, che ormai erano tutto ciò che sopravviveva della vecchia generazione, la nuova ondata proveniente dal Giappone si gettava a capofitto nel soprannaturale delle origini, la cui caratterizzazione era per noi occidentali completamente sconosciuta: i nuovi fantasmi in arrivo, per lo più femminili, dall’aspetto pallido ed emaciato, con lunghi capelli corvini a mascherarne il volto e un procedere rallentato con accelerazioni improvvise, non si erano mai visti prima. Un'altra intuizione vincente fu quella di riservare ai momenti di maggiore tensione una colonna sonora davvero atipica: suoni diegetici, gutturali e cacofonici emessi dai fantasmi terrorizzavano tanto le loro vittime che gli spettatori del film (i risultati migliori, a mio parere, li avrebbe ottenuti la serie di Ju-On, ma lo stridio che fa da preludio all'arrivo di Sadako, un’esasperazione del suono del televisore non sintonizzato su alcun canale, non è certo da sottovalutare in termini di impatto). Questi suoni sarebbero diventati, da lì a poco, il vero marchio di fabbrica del J-horror.
Un diverso livello di tensione andava a sostituirsi a quello esistente e aveva il grande pregio di riuscire a mantenersi inalterato per tutta la durata della pellicola, senza concedere allo spettatore un attimo di tregua e lasciandolo nella consapevolezza che a questa nemesi non sarebbe stato possibile sfuggire. E a tutto ciò si aggiungeva Sadako nello sconvolgente atto di attraversare lo schermo del televisore.



Nel trasportare il romanzo di Suzuki sul grande schermo, Hideo Nakata ha fatto buon uso dell’insegnamento dei grandi classici horror occidentali che proprio nel decennio precedente, guarda caso, avevano già sperimentato il dualismo fra l’orrore e il mezzo televisivo. Di quei film Hideo Nakata utilizzò una delle scene a mio parere più perturbanti mai viste al cinema, quella appunto della creatura che fuoriesce dallo schermo. Scena che, come ho già detto, non era stata pensata nel romanzo. Rammentate qualcuno di quei vecchi film? Proviamo a stilare assieme una piccola lista, ma senza entrare troppo nel dettaglio come facemmo lo scorso anno con il duplice articolo su “I corridoi della paura”.
Il primo in ordine di tempo mi pare sia stato Poltergeist – Demoniache presenze, uno dei capisaldi del cinema horror testosteron-reaganiano, girato nel 1982 da Tobe Hooper con la supervisione di Steven Spielberg (ne abbiamo già parlato ampiamente qualche anno fa, ricordate?). Il televisore in Poltergeist è un tramite fra la dimensione terrena e quella popolata dagli spiriti, che sembrano non aver altro scopo se non quello di terrorizzare una stereotipata famiglia americana. Vi è un doppio attraversamento in Poltergeist: le creature superano lo schermo, catturano la piccola Carol Ann e la trascinano con sé nel loro mondo. A proposito di video maledetto, Poltergeist è passato alla storia anche perché, come ricorderete, la giovane attrice Heather O’Rourke, che nel film impersonava appunto Carol Anne, perse la vita, così come la persero diversi altri partecipanti a quella produzione. Credo che Poltergeist sia stato il primo in questo genere, ma se anche dovessi sbagliarmi su questo punto, credo di aver ragione se dico che è stato almeno il più importante: dopo la visione di Poltergeist, di certo nessuno ha più potuto guardare serenamente un televisore dopo il termine dei programmi della notte.
Anche in Videodrome, il capolavoro che David Cronenberg diresse l’anno successivo, è presente una scena che ricalca perfettamente quella di cui stiamo parlando. Il film credo lo ricordiate più o meno tutti, no? Il televisore viene qui usato per causare tumori al cervello e conseguenti allucinazioni ai soggetti considerati pericolosi dalle autorità governative. Non ci sono fantasmi in senso stretto, ma c’è chiaramente la mutazione della carne, ovvero la fusione dell’essere umano con la tecnologia rappresentata dallo schermo televisivo.
Nel secondo capitolo della serie demoniaca del nostro Lamberto Bava (Dèmoni 2... L'incubo ritorna, 1986), il televisore rappresenta nuovamente il passaggio tra una dimensione infernale e il mondo reale. Se nel primo capitolo il passaggio era reso possibile dallo schermo di una sala cinematografica, in Demoni 2 è attraverso lo schermo di un televisore che le orde di 'zombi' trovano il loro varco. Ancora una volta nessun fantasma, ma una nemesi forse ancora più terrificante, resa ancora più angosciante dalla completa assenza di vie d’uscita per i malcapitati che si trovano a doverla fronteggiare.
Non poteva naturalmente mancare, in questa breve lista, uno dei più spaventosi serial killer cinematografici di tutti i tempi: Freddy Kruger. Sì, proprio lui, il villain che per anni è stato in grado di monopolizzare gli incubi di migliaia di adolescenti in tutto il mondo, quel Freddy Kruger in grado di attraversare a suo piacimento i confini tra le due dimensioni del sogno e della realtà. Poteva forse Freddy, nell’arco di ben nove film, non sfruttare in almeno uno di questi il mezzo televisivo per irrompere nella nostra realtà? Lo ha fatto nel terzo capitolo della serie, Nightmare 3, i guerrieri del sogno (1987), forse uno dei più riusciti dell’intero franchise, nel quale non solo è riuscito a incarnarsi nell’apparecchio televisivo, ma anche a trascinare (di nuovo un passaggio inverso) la malcapitata ragazzina, letteralmente, sin dentro l’elettrodomestico.
Sullo stretto rapporto fra orrore e mezzo televisivo esisteranno di sicuro decine di altri film, ma credo proprio di aver citato i principali: del resto questo mio breve excursus, come detto, voleva limitarsi a identificare dei precedenti il più possibile simili a quella geniale scena di Ring che, a quasi vent’anni di distanza, ne è ancora indiscutibilmente il manifesto.
Senza Hideo Nakata, tutto ciò che è accaduto negli anni successivi all’uscita del suo film (incluso questo speciale) non avrebbe avuto modo di esistere. E, senza Hideo Nakata, lo stesso romanzo di Kōji Suzuki sarebbe finito ben presto nel dimenticatoio. La prova? La prova è che, sebbene io stesso prima abbia definito la pellicola del 1998 come quella “originale”, l’opera di Nakata non è stata affatto la prima della serie. Ci aveva già pensato tre anni prima un certo Chisui Takigawa a trasformare il romanzo di Suzuki in immagini, ma di quel film per la tivù, passato quasi inosservato su un'emittente privata giapponese la sera del 11 agosto 1995, oggi non si ricorda quasi più nessuno: ed è un peccato, perché Ring: Kanzenban (リング 完全版), come vedremo, aveva diversi pregi.

1: Poltergeist, demoniache presentza (Tobe Hooper) - 2: Demoni 2, l'incubo ritorna (Lamberto Bava) - 3: Nightmare 3, i guerrieri del sogno (Chuck Russel) - 4 e 5: Videodrome (David Cronenberg) - 6: Halloween III, il signore della notte (Tommy Lee Wallace) - 7: Terrorvision (Ted Nicolaou) - 8: Coming Soon (Sopon Sukdapisit)


Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 5 in un totale di 100.
Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato il primo del mese. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 5° candela...

Nel cerchio del pozzo

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Andrea raccoglieva violette ai bordi del pozzo. Andrea gettava Riccioli neri nel cerchio del pozzo. Il secchio gli disse - Signore il pozzo è profondo, più fondo del fondo degli occhi della Notte del Pianto. Lui disse - Mi basta, mi basta che sia più profondo di me. (Faber)

pózzo s. m. [lat. pŭteus]. – Scavo ad asse verticale, a sezione per lo più circolare, effettuato nel terreno per raggiungere gli strati acquiferi sottostanti, da cui attingere l’acqua (p. filtrante, p. freatico); le stelle tremavano nel secchio che saliva dal buco nero del p. (Claudio Magris); Con allusione alla profondità e all’oscurità dei pozzi: la verità è un p. (oppure sta nel p., è in fondo al p.), è nascosta, non è facile farla venire a galla; voler prendere la luna nel p., mostrare, far vedere la luna nel p. Nella Divina Commedia, nome con cui Dante chiama in più luoghi dell’Inferno la cavità cilindrica al centro di Malebolge, che col suo fondo forma il nono cerchio: Nel dritto mezzo del campo maligno Vaneggia un p. assai largo e profondo (c. XVIII, vv. 4-5). Nome (anche purgatorio di san Patrizio) dato dalla tradizione popolare a una caverna di un isolotto del lago Derg (Irlanda nord-occid.) che, secondo una credenza medievale, immetteva agli inferi: Cristo stesso avrebbe indicato la caverna a san Patrizio, preoccupato di vincere l’incredulità di alcuni irlandesi circa le pene d’oltretomba, e stabilito che chiunque vi si fosse trattenuto un giorno e una notte avrebbe ottenuto il perdono dei peccati. In senso fig., non com., situazione cupa e opprimente, stato psicologico dominato dall’angoscia: dall’amaro p. delle cose passate ... veniva su una forza che mai lui avrebbe osato sperare (Buzzati). – Fonte: Treccani

Da qualche parte bisognava pur partire, no? E allora perché non farlo proprio dal pozzo, quel manufatto che, nel suo significato più comune, non è altro che un buco praticato nel terreno, solitamente arricchito da una semplice struttura circolare in muratura, e utilizzato per raccogliere l’acqua? La definizione di “pozzo” sin qui riportata è ovviamente un’ampia sintesi di quella che compare in qualsiasi dizionario: non mi sembrava il caso di mettermi a descrivere in questa sede fosse biologiche o sistemi di pescaggio degli idrocarburi. Ciò su cui invece vorrei soffermarmi, se me lo permettete, è la profonda valenza simbolica del pozzo. 
Il pozzo è il simbolo dell’abbondanza e la sorgente della vita, e ciò è particolarmente vero presso i popoli per i quali le acque sono fonte di miracoli, come il popolo ebraico. Il pozzo di Giacobbe, richiamato dalla Bibbia al capitolo IV del Vangelo secondo Giovanni, e che è lo scenario dell'incontro di Gesù con la samaritana, è fonte di vita e di insegnamento. «Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna».

Guercino (Giovanni Francesco Barbieri, 1591-1666), “Cristo e la donna samaritana”, 1640-1641, Olio su tela


Anche il pozzo di Jethro, presso il quale Mosè sostò, è stato interpretato come sorgente di luce e quindi come un centro spirituale. «Il sacerdote di Madian aveva sette figlie. Esse vennero ad attingere acqua per riempire gli abbeveratoi e far bere il gregge del padre. Ma arrivarono alcuni pastori e le scacciarono. Allora Mosè si levò a difenderle e fece bere il loro bestiame. Il sacerdote di Madian, riconoscente, diede infine a Mosè in sposa Tzippora, una delle sue figlie». (Esodo 2,15-21).
Ma molti altri incontri biblici avvengono nelle vicinanze di un pozzo. Basti pensare a Giacobbe e Rachele: “Quando Giacobbe vide Rachele, figlia di Làbano, fratello di sua madre, insieme con il bestiame di Làbano, fratello di sua madre, Giacobbe, fattosi avanti, rotolò la pietra dalla bocca del pozzo e fece bere le pecore di Làbano, fratello di sua madre. Poi Giacobbe baciò Rachele e pianse ad alta voce.”; (Genesi 29,10-11)
Gli stessi genitori di Giacobbe, Rebecca e Isacco, si incontrarono presso un pozzo: «Signore, Dio del mio padrone Abramo, concedimi un felice incontro quest'oggi e usa benevolenza verso il mio padrone Abramo! Ecco, io sto presso la fonte dell'acqua, mentre le fanciulle della città escono per attingere acqua. Ebbene, la ragazza alla quale dirò: Abbassa l'anfora e lasciami bere, e che risponderà: Bevi, anche ai tuoi cammelli darò da bere, sia quella che tu hai destinata al tuo servo Isacco; da questo riconoscerò che tu hai usato benevolenza al mio padrone». (Genesi 24, 12-14). 
Non è casuale se nella Zohar, il testo più importante della tradizione ebraica, un pozzo alimentato da un ruscello simboleggia l’unione dell’uomo e della donna: “La radice di tutte le radici, la profondità del pozzo, la fonte di tutto”. 

Sandro Botticelli (Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi,1445-1510), "Prove di Mosè" (particolare), 1481-1482, Affresco


L’esagramma 48 de I-Ching rappresenta il pozzo ed è un invito a scavare, andare alla sorgente delle cose, cercare nel passato per riuscire nel proprio obiettivo. Il pozzo è anche un punto fermo attorno al quale tutto ruota (“Una città può essere trasferita, ma non il pozzo”), ma sotto quel piccolo varco si apre un autentico baratro. Fermarsi in superficie è rischioso, bisognerebbe andare sino in fondo, ma anche prestare attenzione ai pericoli. Se la corda è troppo corta per attingere al pozzo, o se la brocca si rompe, vi sarà disgrazia. 
Il pozzo, che scende nelle profondità della terra, è molte volte connesso con la dimensione dei morti. La tradizione araba vuole che esso sia associato alla porta dell’inferno. Secondo Giovanni Battista Rampoldi, un islamista italiano del XIX secolo, la parola araba Jehennem (inferno) deriverebbe dall’ebraico Jhe-hennem, cioè “la valle d’Hennem, nella quale gli Amorrei abbruciavano i loro figliuoli vivi, che sacrificavano a Molok. Nulladimeno Jehennem significa in arabo idioma un pozzo molto profondo, e Jehim un uomo brutto e contraffatto. Ebn Jehennem, cioè figlio dell’inferno, viene dato ordinariamente ad un reprobo, benché talvolta sia chiamato Ashab al nar, cioè il compagno del fuoco.” Jehennem sarebbe quindi la Geenna (o Gehenna o Gaénna), quella piccola valle posta sul lato sud del monte Sion ove sorge anche Gerusalemme, spesso identificata come una delle sette porte dell’inferno. Il pozzo è quindi connesso con la dimensione dei morti. Non è quindi un caso, forse, se gli unici due versetti della Commedia di Dante scritti in arabo* sono “Pape Satàn, pape Satàn aleppe” (è la porta di satana, è la porta di satana, fermati, INF.VII,1) e “Raphel may’ amech zabia almì” (la melma dell’acqua del fondo del pozzo è la mia pena. INF.XXXI,67)**. 

Gustave Doré (1832-1883), Dante Alighieri, Inferno - Tavola 65 (Canto XXXI - I Giganti), 1861, Incisione


Il pozzo realizza quindi una sintesi dei tre ordini cosmici (cielo, terra e inferi) e di tre elementi (acqua, terra e aria), e fra essi una vitale via di comunicazione. Il pozzo permette all’uomo di comunicare con il soggiorno dei morti; l’eco cavernosa che ne risale, i riflessi fuggitivi dell’acqua smossa, ne sono d’altra parte un indizio. Ne è un perfetto esempio un antico racconto giapponese tratto dalla Ise monogatari e intitolato Tsutsu-Izutsu (筒井筒, la vera del pozzo). In esso si narrano le vicende amorose del poeta Ariwara no Arihira (825-880): un monaco buddista, recatosi in visita al tempio dove si trova la tomba del poeta, mentre è assorto in preghiera viene distratto dall’apparizione di una donna recante fiori e acqua in offerta al defunto. Attraverso il racconto di lei, il monaco apprende una storia d’amore nata secoli addietro, nei pressi di un pozzo, tra il poeta e una giovinetta. Al termine del racconto la donna rivela di essere lei stessa quella giovinetta e, così facendo, scompare. Quella notte stessa il fantasma ritorna in sogno al monaco indossando le vesti del poeta, unico ricordo del suo amore. Danzando e cantando, il fantasma si affaccia infine al pozzo, dal quale si rivela ai suoi occhi l’immagine riflessa dell’amato, “per poi nuovamente svanire nella struggente foschia di un’alba d’autunno.” 
Ma c’è un’altra storia, ben più terribile, che circola in Giappone: quella nota con il nome di Banchō Sarayashiki (番町皿屋敷 The Dish Mansion at Banchō), una storia di tradimento e vendetta basata sulle vicende della giovane serva Okiku, assassinata dal samurai suo padrone alle cui avances si era negata. Ma di Okiku, che trovò la morte in fondo a un pozzo, avremo modo di parlare più ampiamente nei prossimi giorni…

Utagawa Yoshitaki (歌川芳滝, 1841-1899), "Ghost Lady - Kabuki", Ca. 1870s, Xilografia


* Secondo alcuni studiosi della cultura araba, Dante avrebbe tratto alcune ispirazioni da fonti arabe. Egli infatti non disprezzava il mondo musulmano a priori: se relegava Maometto tra i dannati, egli nominò però ben tre musulmani tra gli Spiriti magni del Limbo: Saladino, Avicenna e Averroè. I dubbi di questa interpretazione nascono però dal significato accondiscendente che non è in linea con quanto suggerito nella narrazione circostante. Si osserva che comunque Dante non conosceva l'arabo e forse voleva solo ricreare la suggestione di quella lingua ascoltata; si è d'altra parte ipotizzato anche che Brunetto Latini, suo amico, possa averlo avvicinato ad elementi della cultura islamica, da lui conosciuta durante gli anni vissuti ad Oviedo nelle Asturie. (Fonte: Wikipedia)
** Si tratta delle parole pronunciate da Nembrotto, uno dei giganti posti a guardia dell'ultimo cerchio dell'Inferno; egli, responsabile della costruzione della torre di Babele, a seguito di cui Dio confuse tutte le lingue del mondo, è condannato a parlare una lingua incomprensibile da chiunque altro, rappresentata dal verso in questione. Innumerevoli sono le interpretazioni di questa frase enigmatica.
Molti hanno sostenuto trattarsi di un'espressione araba, cui ognuno di essi offriva un particolare significato, secondo la vocalizzazione e la trascrizione proposta: "Esalta lo splendor mio nell'abisso, come sfolgorò per lo mondo" (Lanci); "Un pozzo ha rapito il mio splendore, ecco adesso il mio mondo" (Flügel, citato dal Filalete); "Quam stulte incedit fiumina Orci puer mundi mei" (D'Ammon, citato anch'esso dal Filalete); "Summa mea in fundum cecidit, vis gloria mundi" (Schier); "Ecco l'eccelso del mio splendore e della mia gloria; la mia superbia e la mia scienza è divenuta oscurità e abisso" (Lasinio); "Sono portante in alto il mio stendardo prolungato, questo è il mio regno" (Barbera); "Quest'abisso e io stesso siamo indotti allo stato di ebeti a causa della scienza" (Lemay). (Fonte: Treccani, Enciclopedia Dantesca)

Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 6 in un totale di 100.
Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato il primo del mese. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 6° candela...

Ring: Kanzenban

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La sera del 11 agosto 1995, su un'emittente privata giapponese* andò in onda un film di cui quasi nessuno ha conservato il ricordo: ed è un peccato, perché Ring: Kanzenban (リング 完全版) di Chisui Takigawaè il vero punto di partenza della saga e come tale, almeno in questa sede, è impossibile ignorarlo. Diciamolo fin da subito: Ring: Kanzenbanè tutto fuorché un bel film. Difficilmente sarei qui a scriverne se non per puro interesse accademico, soprattutto dopo averlo visto**, giusto qualche settimana fa, con ancora davanti agli occhi le immagini del reboot che tre anni dopo ne sarebbe seguito. Si tratta del classico film per la tivù assemblato con mezzi di fortuna e diretto a mio modesto parere in maniera piuttosto approssimativa. La cosa incredibile è che Ring: Kanzenban può però vantare un interprete di tutto riguardo, quel Yoshio Harada già apparso in pellicole di registi cult come Shūji Terayama e Kōji Wakamatsu, giusto per nominare due fra i più noti ad averlo diretto. Attorno a Yoshio Harada ci sono alcuni accettabili “figuranti”, per lo più gente proveniente da programmi di intrattenimento televisivo, attori improvvisati di cui sono piene anche le nostre fiction. Da segnalare, tra questi, solo la presenza di Miura Ayane, una giovanissima gravure idol che si rivela in quest’occasione decisamente azzeccata nel ruolo di Sadako (anche se sarà facilmente soppiantata dalla bellezza eterea di Yukie Nakama, che quindici anni più tardi ne erediterà il ruolo nel sequel/prequel “Ring 0 – Birthday”). Eppure, nonostante la fotografia imbarazzante e la sceneggiatura a tratti piuttosto “curiosa”, Ring: Kanzenban si lascia guardare con piacere e non annoia mai.
E i momenti di suspense o di terrore? Beh, di quelli non c'è nemmeno l’ombra, ma se è per quello non ce ne sono moltissimi nemmeno nella versione di Hideo Nakata, soprattutto se rivista oggi, venticinque anni dopo la sua uscita. La cosa importante, tuttavia, è che il film Ring: Kanzenbanè ad oggi la più fedele trasposizione mai realizzata del romanzo originale di Kōji Suzuki e, se non altro, almeno di questo bisogna dargli atto.
Nel 1998 Hideo Nakata inizierà invece a narrare la sua storia partendo da una leggenda urbana circolante, a suo dire, in Giappone. Secondo tale leggenda, chiunque si trovasse a guardare una certa videocassetta verrebbe inevitabilmente colpito da una maledizione che, esattamente sette giorni più tardi, raggiungerebbe il suo apice con la morte dello sventurato. Premesso che in Giappone, prima di Ring, non circolava nessuna storia del genere (tale “leggenda” è infatti un prodotto originale del romanzo di Suzuki), sia nel romanzo che nel film di Chisui Takigawa la stessa notorietà del video maledetto rimane confinata tra i pochi personaggi che ne finiranno coinvolti, accidentalmente o di proposito. Evidentemente, deve aver riflettuto Nakata, quando si parla di leggende metropolitane si attira meglio l’attenzione del pubblico, il quale si chiede innanzitutto quanto di vero ci sia in ciò di cui sta venendo a conoscenza. Insomma, la sua può dirsi una trovata molto astuta… peccato che usare uno stratagemma del genere faccia venir meno le reali motivazioni che nella storia originale spingono il protagonista Kazuyuki Asakawa a cominciare a indagare su quanto sta accadendo. Tali ragioni svaniscono quasi completamente nel film di Nakata: in parte sono presenti, ma sono molto ben nascoste, e certe sfumature (a mio parere fondamentali) della vicenda possono essere colte solo da chi ha letto il romanzo o da chi ha visto Ring: Kanzenban che, come detto, al romanzo è molto fedele.

La prima inquadratura è dedicata a Tomoko Ōishi, una giovane studentessa intenta a cazzeggiare per casa mentre i genitori trascorrono la serata allo stadio del baseball. Pochi attimi e succede qualcosa che non ci viene fatto capire: la ragazza vede qualcosa, si mette a gridare, corre fino a rifugiarsi (incomprensibilmente) nel box doccia dove… muore, a quanto pare aggredita da qualcosa o qualcuno di invisibile. Se avete presente il remake di Hideo Nakata, avrete certamente già notato una prima sostanziale differenza. Dov’è il fantasma di Sadako? Dov’è la televisione? Qui non ve n’è traccia alcuna. La scena si sposta poi sulla strada, dove a bordo di un taxi troviamo un uomo che identifichiamo subito come un giornalista. Quando il veicolo si ferma al semaforo, un motociclista gli si affianca e, dopo pochi istanti, prende ad agitarsi convulsamente, grida, perde l’equilibrio, cade a terra e… muore. Il giornalista di cui sopra getta uno sguardo all’orologio del malcapitato e legge le 00:48, lo stesso orario che, ce ne rendiamo conto solo adesso, segnava una pendola a casa di Tomoko nella scena descritta precedentemente. Che due morti misteriose siano avvenute nel medesimo istante è subito ovvio, e altrettanto ovvio questo sarà di lì a poco anche per Kazuyuki Asakawa, il nostro giornalista, che si rivelerà essere lo zio di Tomoko. Due persone, due adolescenti, decedute nel medesimo istante per cause sconosciute, ufficialmente per arresto cardiaco, non passano inosservate, soprattutto agli occhi di chi per un incredibile scherzo del destino è rimasto coinvolto in entrambe le morti. Cosa fareste voi se vi trovaste nei panni di Asakawa? Non provereste forse a indagare? Non vorreste capire cosa possa esserci dietro a questa inverosimile coincidenza?
Aldilà del lutto che lo ha colpito in prima persona, una tale faccenda per un giornalista non può che essere motivo d'interesse professionale. Per un giornalista, inoltre, non è nemmeno così complesso scoprire che altri due ragazzi sono stati trovati morti in circostanze simili all’interno di un'automobile proprio in quella stessa notte: basta dare un’occhiata ai trafiletti riportati sui giornali di cronaca locale nei giorni successivi per scoprire che c’è qualcosa di grosso nell’aria.

Non serve raccontare altro. Se avete visto la versione di Hideo Nakata, vi sarete sicuramente resi conto che lì questi fatti sono praticamente assenti. Tomoko Ōishi muore sì all’inizio del film ma le circostanze, come ricorderete, sono piuttosto diverse; il motociclista è completamente assente (viene solo vagamente citato in una discussione tra studentesse), mentre le due ulteriori vittime vengono sempre ritrovate all'interno di un'automobile, ma non è ben chiaro in che modo la loro fine sia collegata con quanto mostrato in precedenza. In parole povere, Nakata decise di sorvolare sulle motivazioni di Asakawa, sacrificando un po’ la logica a favore di altro. E non è un particolare da poco, in quanto Ring, a conti fatti, è un film a tratti incomprensibile. Non è tuttavia l’incipit la differenza che più salta agli occhi fra Ring: Kanzenban, il romanzo di Kōji Suzuki e il film di Hideo Nakata. Nei primi due il protagonista della vicenda, Kazuyuki Asakawa, è un uomo, mentre Nakata decide di trasformarlo in una donna e lo ribattezza “Reiko” Asakawa (e il fedele alleato di Asakawa nel romanzo, Ryuji Takayama, in origine un suo vecchio compagno di scuola, nel Ring di Nakata si trasforma nell'ex marito di Reiko). Bisogna ammettere che questa fu una scelta decisamente azzeccata, perché il suo essere donna (e madre) amplifica maggiormente il suo legame con il figlioletto Yoichi, la cui stessa vita è legata alla soluzione dell’enigma. Il piccolo Yoichi Asakawa, tra l’altro figura completamente assente in Ring: Kanzenban, rappresenta infatti la vera molla che costringe Kazuyuki/Reiko Asakawa a procedere nella sua indagine anche quando tutte le speranze sembrano venir meno. Nella corsa contro il tempo per la salvezza di un bambino, la scelta di mostrare la lotta di una madre disperata anziché di un padre è in qualche modo più logica; o, se non più logica, certamente più coinvolgente per lo spettatore, il quale si appassionerà alle sue vicende anche per la disparità tra la minaccia incombente e le scarse forze dell'eroina, sostenute però dall'amore materno (e del resto, è marchio di fabbrica di molto cinema horror inserire protagoniste femminili, spesso ma non sempre madri, che alla fine sopravvivono a dispetto dell'apparente fragilità). A dire il vero, va detto che nonostante le premesse quel nucleo familiare sfasciato (Reiko, Ryuji, Yoichi) si dimostra coeso davanti alle avversità, e il padre acquista nel corso della narrazione quella dimensione umana che il suo distacco e freddezza iniziali nei confronti del figlio non facevano supporre.

Comunque, se da una parte il film di Nakata stravolge completamente le carte in tavola, inserendo la leggenda metropolitana e tralasciando le motivazioni che spingevano Asakawa a indagare, e rendendo così la narrazione più confusa e frustrante, riesce però dal punto di vista del pathos laddove Ring: Kanzenban aveva fallito: in tal senso, la figura della madre è fondamentale. Ci sono numerose altre differenze tra le varie versioni della storia, ma credo che quanto abbiamo visto per oggi sia sufficiente, anche perché non è mia intenzione anticipare così tanto gli aspetti più interessanti di questa storia. Concludo quindi questo articolo precisando che esistono a sua volta due diverse versioni di Ring: Kanzenban, la prima, è quella che venne trasmessa in televisione nell’estate del 1995, la seconda fu distribuita in video pochi mesi più tardi con la dicitura edizione integrale***. Quest’ultima non aggiunge nulla di significativo alla trama e, pertanto, può essere interessante solo per i curiosi o i completisti. Rispetto alla versione originale, l'edizione integrale include molte più scene di nudo (alcune di queste furono addirittura rigirate appositamente e sostituite a quelle originali) e perfino alcuni momenti di sesso esplicito che, nella pratica, portarono il Ring originale a perdersi nei densi meandri della pornografia.

* Trattasi dell'emittente Fuji Television Network. In Italia è possibile assistere ai suoi programmi attraverso KeyHoleTV.
** Il film Ring: Kanzenban è presente sul tubo, sottotitolato in inglese, russo e spagnolo.
*** Il termine “Kanzenban” significa in verità proprio “edizione integrale”, ed è quindi da riferirsi solo alla versione in DVD. Il film trasmesso in televisione si intitolava in realtà Ring - Jiko ka?! Henshi ka?! 4-tsu no inoichi wo ubau shôjo no onnen (Ring - Un incidente?! O una morte innaturale?! La ragazza il cui odio ruba la vita a quattro persone). In questa sede, ovviamente per semplicità, ho preferito usare il titolo Ring: Kanzenban.


Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 7 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato il primo del mese. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 7° candela...

Hideo Nakata: Ring

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Per questo secondo adattamento del romanzo Ring, il regista Hideo Nakata e il suo sceneggiatore Takahashi Hiroshi scelgono di adottare un approccio molto diverso al materiale originale, realizzando in ultima analisi una storia che a tratti approfondisce molto di più il lato umano dei suoi personaggi. Non solo il personaggio di Reiko Asakawa, una donna, è in grado di trasmettere un livello di empatia maggiore della sua controparte maschile, ma c'è la scelta di spostare l’attenzione sul conflitto mai completamente risolto tra una moglie e il suo ex marito. In questo, l’apporto del piccolo Yōichi diviene fondamentale rispetto al passato in quanto l’amore per lui, anche se mai apertamente, è un malinconico aspetto di contesa fra i suoi genitori. Questo aspetto, l’oscillare fra il detto e il non detto, è peraltro molto giapponese, così come molto giapponesi sono alcune sfumature che si possono cogliere in dialoghi apparentemente semplici, come quello in cui il piccolo Yōichi chiede alla madre “Anche da bambini si può morire?”. Da noi in Occidente, a una domanda del genere chiunque avrebbe reagito negativamente, stroncando drasticamente il discorso sul nascere con un secco “No”. Reiko, al contrario, sceglie di rispondere “Solo se ci si ammala gravemente”, dimostrando in questo una sensibilità, nei confronti del suo piccolo e nei confronti dell’esistenza stessa, che vanno ben oltre la nostra capacità di intendere la morte. La morte, ma questa ovviamente è una mia opinione, dovrebbe poter convivere con noi, in maniera del tutto naturale, sin dalla nostra infanzia: solo in questo modo se ne può esorcizzare la paura, solo in questo modo saremo in grado di affrontarla serenamente il giorno che ci toccherà cederle le armi.
Hideo Nakata sceglie anche di tuffarsi prepotentemente nel sovrannaturale, tralasciando le spiegazioni scientifiche e rinunciando a quella linearità tipica dei romanzi di investigazione (quale è Ring), nei quali a ogni causa segue un effetto e nei quali ogni avvenimento, anche il più imprevedibile, deriva da una logica ineccepibile. Ma d’altra parte a che serve la logica in un film dell’orrore? Queste opere non servono forse a spaventarci? E allora ben venga la rilettura di Hideo Nakata… in fondo in fondo, chi ha detto che essere fedele equivalga ad essere migliore?
La prova, semmai ce ne fosse stato bisogno, sarebbe giunta da lì a poco dal botteghino (il più alto margine di ricavo della storia dell’horror giapponese), che consegnò questo film alla storia come il capostipite di un genere che avrebbe rapidamente invaso il mondo. Per tagliare corto sulla parte investigativa, Nakata ci getta nelle atmosfere da leggenda metropolitana già nella sequenza di apertura, dove due ragazze adolescenti discutono dell'esistenza della videocassetta letale. Una di queste, Tomoko Ōishi, che nell’adattamento precedente era sola in casa, qui rivela invece a un'amica che è andata a trovarla di aver guardato il video con altri tre ragazzi la settimana precedente. Come andrà a finire è facile immaginarlo. Dopo solo cinque minuti di film siamo già quindi completamente immersi nella vicenda e, nonostante alcuni passaggi siano un po’ forzati, possiamo concentrarci su Sadako e sulle cause del suo rancore partendo proprio da quel video. Insieme, i due protagonisti Asakawa e Takayama iniziano a identificare i primi particolari in quella massa di immagini confuse trovate sul nastro. Tra queste, una donna misteriosa intenta a pettinarsi i lunghi capelli di fronte a uno specchio ovale viene identificata come Shizuko Yamamura, una donna dalle innate capacità extrasensoriali le cui vicende ebbero una vasta risonanza nell’ambiente del paranormale diversi anni prima. Reiko e Ryuji intraprendono un viaggio a Izu Ōshima, il luogo natale di Shizuko, alla ricerca di indizi. Ciò che presto verrà svelato è il segreto della famiglia Yamamura, sulle cui spalle pesa la misteriosa scomparsa della figlia risalente a trent'anni prima.

La storia di Sadako Yamamura, per inciso, non viene narrata in questo Ring fino in fondo. Molti particolari, specialmente quelli più penosi, saranno infatti l’ossatura che terrà in piedi il sequel che Hideo Nakata ha già in mente di realizzare qualche anno più tardi. Qui viene però spiegata la meccanica che ha portato Sadako alla dannazione dopo essere stata gettata viva in fondo a un pozzo e lì abbandonata dal suo stesso padre, Hikuma. Ancora una volta ci si discosta dal romanzo e, se ci pensate bene, è un cambiamento non da poco quello di addossare la colpa della morte di Sadako al padre anziché a uno stupratore occasionale. Questa scelta rientra ancora una volta nella logica, propria di Nakata, di approfondire il lato umano della narrazione. Di certo un padre che si rivolta contro la figlia ha un peso maggiore di uno stupratore che sceglie un pozzo per far sparire le prove della sua violenza. Inevitabilmente si viene però a perdere un particolare curioso che era presente sia nel romanzo che nell’adattamento televisivo, quello che vuole Sadako soffrire di una rara patologia che viene definita, non so dirvi quanto propriamente, “femminilismo testicolare”, un tipo di pseudoermafroditismo in base al quale esteriormente l'individuo sembra femminile in tutto e per tutto, avendo i seni e la vagina, ma non ha l'utero. Sul piano dei cromosomi Sadako è però XY, quindi un maschio. Una rivelazione non da poco, non vi pare?

Tutti i componenti del cast offrono ottime prestazioni, in particolare Nanako Matsushima nel ruolo centrale di Reiko e Hiroyuki Sanada in quello di Ryuji. La vera star è però indiscutibilmente Hideo Nakata, la cui regia fu talmente perfetta da far decretare alla vicenda un successo planetario. Sarà per via delle atmosfere, sarà per via della fotografia, spesso dai toni particolarmente scuri, ma Ring è un film che, a conti fatti, è in grado di trasmettere una tensione continua dal primo all’ultimo fotogramma, come una sottile interferenza capace di penetrare il subconscio dello spettatore che, da questo punto di vista, ha avuto esattamente quello che cercava, vale a dire la possibilità di saltare sulla sedia a ogni cambio di scena.
E se oggi, assuefatti a twist al cardiopalma e a effetti speciali a profusione, il film può sembrare datato e invecchiato male, bisogna saperlo contestualizzare, e anche considerare che questo è un horror che ha raggiunto la vetta senza mostrare una sola goccia di sangue e un solo centimetro di superflua nudità. A questo punto non posso che lasciarvi alla visione del video maledetto nella versione che appare nel Ring di Nakata. Non abbiate paura di premere il tasto play: ricordate che è solo un film! Sono alcuni elementi di questo video, per inciso, a portare Reiko e Ryuji sulle tracce della verità: in particolare, i caratteri che si vedono a circa venti secondi dall’inizio, quelli che fanno riferimento a un’eruzione vulcanica avvenuta proprio a Izu Ōshima.
A coloro che ancora si chiedono cosa si celi dietro la scelta del titolo, posso dire che ciascuno degli autori che hanno preso le redini della storia ha voluto proporre la propria personale interpretazione. Se Kōji Suzuki intendeva semplicemente sottolineare l’idea della catena, quel vecchio sistema di propagare un messaggio inducendo il destinatario a divenire a sua volta mittente (il titolo è praticamente uno spoiler), Hideo Nakata ha scelto di ampliarne il significato a quello dello squillo del telefono che interviene al termine di ciascuna visione. Vedremo più avanti come nel remake americano l’anello, un cerchio di luce, diventerà il punto di vista di Sadako (ribattezzata Samara) dal fondo del pozzo.



Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 8 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato il primo del mese. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere l'8° candela...

Banchō Sarayashiki

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A cosa si ispira la terrificante figura di Sadako? Quale oscuro mistero si cela dietro ad uno dei più vendicativi fantasmi del cinema giapponese? Questo è il momento di mettere per un attimo da parte lo speciale dedicato al Ring cinematografico per avventurarsi in una delle più affascinanti leggende della tradizione giapponese, una leggenda che, ormai da diversi secoli, fa tremare (e in parte anche sognare) intere generazioni. La leggenda di Okiku è una delle più antiche storie di fantasmi giapponesi di tutti i tempi, le cui origini risalgono a un tempo talmente remoto che il suo ricordo è andato perduto con il trascorrere dei secoli. Le prime testimonianze certe risalgono al 1741, anno in cui uno spettacolo intitolato Banchō Sarayashiki (番町皿屋敷, The Dish Mansion at Banchō) era in scena al teatro Toyotake-Za che, in ordine di importanza, rappresentava il secondo teatro dei burattini di Osaka (il più importante, il Takemoto-Za, sorgeva esattamente dal alto opposto della strada). 
Non è tuttavia escluso che il Banchō Sarayashiki fosse anche di molto precedente, considerato che il Bunraku ha caratterizzato un po’ tutto il periodo Tokugawa (1600-1867). D’altra parte non è un mistero che Chikamatsu Monzaemon (近松 門左衛門), uno dei più importanti autori di Kabuki e di Bunraku, fosse già attivo nel XVII secolo e i suoi lavori più celebri, The Love Suicides at Sonezaki (曾根崎心中, Sonezaki Shinjū, 1703) e The Love Suicides at Amijima (心中天網島, Shinjūten no Amijima, 1721), dimostrano, nel caso ce ne fosse bisogno, che l’interesse del pubblico era concentrato essenzialmente su storie di intensi amori dai tragici epiloghi e, in quanto a questo, il Banchō Sarayashiki non era davvero secondo a nessuno.
Ho parlato non a caso di storia d’amore, in quanto una delle versioni del dramma, quella edulcorata e probabilmente più celebre, è effettivamente una storia d’amore, anche se portata alle estreme conseguenze da una certa dose di autolesionismo, se mi passate il termine. Un tipo di autolesionismo che oggi parrebbe quantomeno bizzarro e fuori luogo, ma che in fin dei conti era lo specchio di quei tempi. Nell’articolo di oggi però non ci focalizzeremo su tale versione, bensì su quella che evidenzia l’aspetto più inquietante di Okiku, l’aspetto che forse più di ogni altro si avvicina alle caratteristiche che abbiamo riscontrato anche in Sadako. La storia, come spesso accade, si fonde con la leggenda e oggi è dannatamente difficile discriminare le due cose.

Molti anni fa, nella provincia di Harima, una bellissima fanciulla di nome Okiku lavorava al servizio di un samurai di nome Aoyama Tessan, a sua volta subordinato a un feudatario che, dall’alto del castello di Himeji, dettava legge sulla regione. Il castello naturalmente esiste davvero, è considerato uno degli edifici più belli dell’intero Giappone ed è patrimonio dell’UNESCO dal 1993. 
Secondo fonti non confermate, i fatti che videro protagonista Okiku risalirebbero ai primi giorni di gennaio dell’anno 1653, il che ci porterebbe a identificare il signore di Himeji con Honda Masakatsu, il daymio che controllò quelle terre dal 1638 al 1671, un periodo lunghissimo per quell'epoca. Leggenda vuole che Aoyama Tessan fosse da tempo perdutamente innamorato di Okiku senza però essere ricambiato. Le avance del samurai venivano respinte sistematicamente fino al giorno in cui quest’ultimo, portato ormai alla disperazione, decise di passare alla maniere forti.
L’occasione si presentò alla vigilia di una delle grandi feste che il suo Signore dava abitualmente presso il suo castello. Per l’occasione gli fu ordinato di assicurarsi che fosse messo in tavola un servizio di dieci piatti appartenenti alla collezione personale del daymio, un servizio preziosissimo composto da pezzi unici in stile olandese. Aoyama decise di nasconderne uno e, alla vigilia del ricevimento, si levò contro la sua serva accusandola di aver perso uno dei piatti del suo padrone. Alla serva stupefatta il perfido samurai si dichiarò comunque disponibile a offrire protezione in cambio del suo consenso a giacere con lui. Inconsapevole della perfida trama la giovane Okiku, pur consapevole che tale accusa non poteva significare altro che una condanna a morte, rifiutò l’oscena proposta. Aoyama Tessan, ancora una volta umiliato, si scagliò furente contro la donna, la strangolò e gettò il suo corpo nel pozzo. Da quel momento, notte dopo notte, si ode una voce cavernosa risalire dalle profondità della terra. Una voce disperata che, ancora inconsapevole dell’inganno, non trova requie al pensiero del decimo piatto smarrito. Ogni notte la si sente contare disperatamente… uno, due, tre, quattro cinque, sei, sette, otto, nove... e dopo il nove, un lungo sospiro e di nuovo uno, due, tre… continuamente, una notte dopo l’altra, instancabilmente. Okiku si trasformò in uno spirito senza pace in grado di trascinare il suo assassino, notte dopo notte, negli abissi della follia. 

Una diversa versione riferisce invece che Aoyama Tessan era caduto in disgrazia a causa di un tentativo fallito di rivolta contro il suo Signore: a seguito di tale avvenimento Okiku, rimasta senza protezione, cadde in balia del capo delle guardie del feudatario. L’epilogo della vicenda rimane comunque identico, nonostante si sia voluto identificare l’omicida con una terza persona. Un'ulteriore versione vuole che Okiku si accorga del complotto ordito da Aoyama e lo denunci al suo Signore: il perfido samurai, per tapparle la bocca, agisce come sappiamo. 
Esiste anche una leggenda correlata che sposta però gli avvenimenti indietro di due secoli ed eleva Okiku da semplice serva a dama di compagnia. Il feudatario, questa volta identificato in Hosokawa Katsumoto, riceve direttamente da Okiku la soffiata del complotto in atto a suo danno. In questa ennesima versione il finale diventa anche più cruento, perché Asayama Tetsuzan, il malvagio samurai il cui nome ha qui subito una lieve modifica, non si accontenta di strangolare la poveretta, ma mette in atto un'efferata tortura: l’appende per i piedi alla corda di un pozzo e, sadicamente, prende a accanirsi su di lei con la katana, prima lentamente, poi aprendole ferite sempre più profonde finché, prima che sopraggiunga la morte, la lascia cadere di sotto con un ultimo netto colpo di spada. Una scena terribile che non poteva che scatenare le forze più oscure dell’inferno. E così, quella stessa notte, lo spirito di Okiku, trasformatosi in un onryō (怨霊), troverà la strada del ritorno dal regno dei morti. Ma la storia d’amore a cui si era accennato all’inizio? Che ne è stato? Non vi preoccupate, parleremo presto anche della versione più romantica della storia di Okiku, anche se probabilmente non riusciremo a farlo in questo mese di aprile, visti i ritmi serratissimi che questo progetto impone. 
Nel frattempo però, se avete in progetto un viaggio in Giappone per ammirare la fioritura dei ciliegi (quest’anno siete già un pelino in ritardo per il sakura, ma se correte in aeroporto dovreste farcela), perché non prevedere una sosta presso il castello di Himeji? Il castello è una delle attrazioni più visitate di tutto il Giappone e spesso viene usato come location di film (ad esempio, sono stati girati lì “Ran” di Akira Kurosawa e “L’ultimo Samurai” di Edward Zwick). Oggi è ancora possibile visitare il pozzo nel quale la leggenda vuole che Okiku abbia trovato la morte. Se passate da quelle parti e decidete di recarvi nottetempo a visitarlo, prestate attenzione: benché mossi dal senso di vendetta, gli onryō molto difficilmente si accontentano di tormentare chi in vita fece loro del male. Spesso il loro rancore, amplificato dal trascorrere dei secoli, finisce per colpire irrazionalmente chiunque incroci la loro strada o si trovi a passare, anche inconsapevolmente, nei luoghi a cui il loro spirito è più legato. D’altra parte Ring dovrebbe avervi insegnato qualcosa, no?



Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 9 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato il primo del mese. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 9° candela...

Ogni maledetto video

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Abbiamo già accennato a differenze e analogie fra il romanzo di Kōji Suzuki e le varie trasposizioni cinematografiche che nel corso degli anni si sono moltiplicate: ciò che tutte le versioni finora proposte hanno davvero in comune è la maledizione che penetra nel nostro mondo attraverso la tecnologia. Qualche giorno fa ci siamo soffermati a ragionare sul ruolo del televisore, un oggetto di uso quotidiano che in Ring diviene un portale che consente la comunicazione fra il mondo terreno e quello ultraterreno. Il televisore, in questo senso, rappresenta la versione moderna del pozzo o, più nello specifico, un suo prolungamento. Per poter invadere il nostro mondo, Sadako non può permettersi semplicemente di risalire il pozzo; questo probabilmente era sufficiente in un’età più remota, ma per lei è necessario superare un ulteriore ostacolo, quello legato alla modernità che, ai giorni nostri, non lascia più alcuno spazio al sovrannaturale. 
Si dice spesso che, ormai, ci sono fatti che assumono valenza agli occhi del pubblico solo nel momento in cui vengono raccontati alla televisione, come se la realtà al di fuori del piccolo schermo non esistesse; ebbene, in un certo senso Sadako acquista concretezza proprio nel momento in cui si impadronisce della soglia rappresentata dal televisore e la supera, perché è quello il momento in cui la terribile realtà della maledizione viene pienamente accettata dalla vittima, che fino ad allora ne ha riso o che comunque, a dispetto di una strisciante inquietudine, ha continuato a vivere la sua vita come se nulla fosse. Oppure, ribaltando la prospettiva da cui esaminiamo i fatti, possiamo dire che sfruttare la tecnologia significa la piena vittoria di Sadako sulla materia, il trionfo dei suoi tanto vituperati poteri: se risalire da viva le viscide pareti del pozzo le fu impossibile, superare la soglia del televisore è per lei un gioco da ragazzi.
Ecco quindi che la tecnologia, di cui noi in un modo o nell’altro siamo tutti schiavi, diviene il mezzo, la tappa finale di questo passaggio. Un mezzo che rende il manifestarsi di Sadako ancora più perturbante in quanto assolutamente imprevedibile, inaccettabile e, nella sua contraddizione in termini, totalizzante. Di fronte a un simile orrore lo spettatore rimane paralizzato, inerme; non riesce a concepire che il mondo materiale e il mondo spirituale si possano confondere, sovrapporre e mescolare; perde la speranza in qualsiasi via di fuga e, ineluttabilmente, soccombe. 

Ma dimentichiamoci per un attimo il televisore, quel televisore che rappresenta il punto conclusivo del percorso compiuto dalla Sadako di Hideo Nakata: dimentichiamocene più che altro perché, come già accennato in precedenza, non era previsto alcun televisore nel romanzo che diede il via a tutto. 
L’elemento sul quale dobbiamo concentrarci ora è la videocassetta, un supporto oggi definitivamente obsoleto ma che, a metà degli anni Novanta, rappresentava senza ombra di dubbio l’oggetto tecnologico di uso più comune, quello più familiare e in quanto tale capace di trasmettere un livello di inquietudine molto maggiore. Nel 1995 Sadako scelse una videocassetta per far conoscere al mondo la propria vicenda e per contagiarlo con la propria maledizione: oggi, probabilmente, gestirebbe un proprio canale YouTube o comunicherebbe il proprio #rancore con un tweet… ma stiamo finendo nel campo delle speculazioni. 
Ma qual è il vero ruolo di questa videocassetta? Nella versione di Hideo Nakata, come abbiamo visto, si è preferito puntare su una leggenda urbana che da tempo immemore mieterebbe vittime un po’ in tutto il Giappone: altri registi, fedelmente al romanzo, si sono invece limitati a inserire il video nel piccolo mondo circoscritto alle vicende dei protagonisti. Aldilà delle scelte di ciascuno di loro, resta il fatto che è proprio il video maledetto la chiave di volta. Il protagonista-investigatore della serie Ring, uomo (Kazuyuki Asakawa) o donna (Reiko Asakawa) che sia, a seconda della versione, viene in possesso del misterioso nastro mentre cerca di risalire alle cause che hanno portato alla morte di sua nipote Tomoko Ôishi. Grazie a una geniale intuizione, Asakawa si rende conto che tutte e quattro le vittime identificate fino a quel momento avevano trascorso una notte presso un resort a Izu esattamente una settimana prima di trovare la morte nelle circostanze che sappiamo. Cos'era accaduto quella notte? Forse quei ragazzi avevano contratto un virus? Troppo facile, anche se in un certo senso è proprio un virus (per quanto anomalo) ciò di cui stiamo parlando. La risposta, come detto, è in quella videocassetta che i quattro guardarono insieme durante il loro soggiorno. Per capire la sua importanza, vi invito a osservarne il contenuto qui di seguito, nella versione proposta all’interno del film per la tivù Ring: Kanzenban che, fra le tante, è quella più significativa. Ancora una volta vi invito a non avere timore di cliccare il tasto play: ricordate che è solo finzione... 


A questo punto, è bene sapere che già Shizuko, la madre di Sadako, disponeva di poteri paranormali, nello specifico di una sorta di seconda vista (chiamatela chiaroveggenza, chiamatela percezione extrasensoriale), e nel libro di Kōji Suzuki anche della capacità di produrre fotografie psichiche.
Questo è un aspetto fondamentale: Shizuko non dava prova di dominare la telecinesi, cioè la possibilità di spostare gli oggetti senza toccarli, ma accostando alla fronte un pezzo di pellicola contenuto in una busta sigillata era in grado d'imprimervi sopra un disegno. Stiamo arrivando al dunque. Se avete guardato il video attentamente, avrete notato che per brevi attimi l’immagine si oscura. Guardando la cassetta a velocità normale quegli istanti sono così brevi che li si nota appena, ma facendola avanzare un fotogramma alla volta è possibile cogliere dei momenti di oscurità totale. Cosa significa? Lasciamocelo spiegare da Ryuji, l’uomo che supporta Asakawa nella sua ricerca.

Allora Ryuji gli porse un foglio di carta su cui era tracciata una semplice tabella. Alcuni fatti apparivano chiari a prima vista. Ryuji aveva suddiviso il video in scene separate. «L'idea mi è venuta all'improvviso ieri sera. Capisci, vero? Il video comprende dodici scene. Ho assegnato a ciascuna un numero e un nome. Il numero che segue il nome indica la durata in secondi. Il numero successivo, tra parentesi quadre - mi segui? - segnala quante volte lo schermo si oscura durante quella scena.» L'espressione di Asakawa era molto dubbiosa. «Ieri, dopo che sei andato via, ho cominciato a esaminare altre scene oltre a quella del neonato. Per vedere se anche in quelle c'erano momenti di oscurità. E infatti c'erano, vedi, nelle scene 3, 4, 8, 10 e 11.» «La colonna accanto dice 'reale' o 'astratta'…» «Avevamo già detto che, in senso lato, le dodici scene si possono dividere in queste due categorie. Le scene astratte sono le immagini mentali… anzi forse sarebbe meglio chiamarle 'paesaggi' mentali. Poi ci sono le scene reali, di cose che esistono davvero, che si possono guardare con gli occhi.» Ryuji fece una pausa. 
«Ora guarda la tabella. Noti qualcosa?» «Be', il sipario nero cala soltanto durante le scene reali.» «Giusto. Giustissimo. Tienilo a mente […] Ora, cerca di tornare col pensiero alle sensazioni che hai provato la prima volta che hai visto queste immagini. Ieri abbiamo discusso la scena col neonato. C'è qualcos'altro? E la scena con tutte quelle facce?» Usò il telecomando per trovarla. «Guarda bene quelle facce, a lungo.» La parete composta da decine di facce si allontanava lentamente, e il loro numero aumentava fino a comprenderne centinaia, migliaia. Quando le guardava attentamente, ciascuna gli sembrava diversa dalle altre, proprio come se fossero facce reali. «Che sensazione ti dà?» chiese Ryuji. «In un certo senso… come se fossi rimproverato. Come se mi dessero del bugiardo, dell'impostore.» «Esatto. Si dà il caso che abbia provato anch'io la stessa sensazione… o, almeno, quello che ho provato era molto simile alla sensazione che stai descrivendo. […] Vedi, abbiamo pensato entrambi che queste immagini siano state riprese da una telecamera, in altri termini da una macchina con un obiettivo, no?» «E non è così?» «Ma allora che cos'è quel sipario nero che per un attimo copre lo schermo?» 
Ryuji fece avanzare il nastro un fotogramma alla volta, finché lo schermo non diventò nero. Rimase nero per tre o quattro secondi. Calcolando un trentesimo di secondo per ogni fotogramma*, il buio durava circa un decimo di secondo. «Come mai questo succede nelle scene reali e non in quelle immaginate? Guarda meglio lo schermo. Non è del tutto nero.» Asakawa accostò il viso allo schermo. In effetti non era del tutto nero. Nell'oscurità aleggiava qualcosa che somigliava a una vaga foschia biancastra. «Un'ombra confusa… Quello che abbiamo qui è la persistenza dell'immagine. E, quando guardi, non hai una sensazione incredibile d'immediatezza, come se partecipassi davvero alla scena?» 
Ryuji lo fissò negli occhi e batté le palpebre, lentamente. Il sipario nero. «Come?» mormorò Asakawa. «Questo sarebbe… il battito delle palpebre?» «Esatto. Mi sbaglio? Se ci pensi, è abbastanza logico. Ci sono cose che vediamo con gli occhi, ma ci sono anche scene che evochiamo con la mente. E, dato che queste non passano attraverso la retina, non ci sono di mezzo battiti di palpebra. Ma quando guardiamo coi nostri occhi, le immagini si formano in base alla forza della luce che colpisce la retina. Per impedire che la retina venga sollecitata in modo eccessivo, battiamo inconsapevolmente le palpebre. 
Il sipario nero è l'attimo in cui si chiudono gli occhi.» Quella cassetta non era stata registrata da una macchina. Gli occhi, le orecchie, il naso, la lingua, la pelle di un essere umano… per realizzare quel video erano stati utilizzati tutti e cinque i sensi. Quei brividi, quel fremito, provenivano dall'ombra di qualcuno che s'insinuava dentro di lui attraverso gli organi sensoriali. Asakawa aveva guardato il video dalla stessa prospettiva della cosa dentro di lui. Non faceva che asciugarsi la fronte, ma continuava a sentirla madida di sudore freddo. «Lo sapevi che… Ehi, mi ascolti? A parte le differenze individuali, l'uomo batte le palpebre in media venti volte al minuto, mentre la donna solo quindici volte. Ciò significa che a registrare queste immagini potrebbe essere stata una donna.» Asakawa non riusciva più a seguirlo. 

Ma noi abbiamo ormai capito. Sadako a quell'epoca aveva solo sette anni, ma le sue facoltà erano già di gran lunga superiori a quelle di Shizuko: era capace perfino di proiettare delle immagini su un tubo catodico. Un tipo di potere, questo, immensamente più grande e del tutto diverso da quello materno. Come era potuto succedere? E in che modo quelle immagini si erano impresse su una videocassetta?
La risposta giunge apprendendo che, qualche tempo prima, un’altra famiglia aveva alloggiato presso lo stesso resort. Erano andati lì per giocare a tennis, ma dato che pioveva e non c'era altro da fare avevano guardato alcuni vecchi classici alla televisione. Previdente, il figlioletto aveva portato con sé una cassetta per registrare un programma su un certo canale, ben sapendo che non lo avrebbe potuto guardare in diretta. Ma il ragazzino non sapeva che le frequenze delle trasmissioni variano da una regione all'altra, e che quello che a Tokyo si vede sul Canale 4 nel resto del Paese potrebbe essere mandato in onda su un canale diverso: di conseguenza, aveva programmato il videoregistratore in base al canale di Tokyo. Su quella frequenza però non c’era nulla, solo del rumore di fondo: il contenitore perfetto per accogliere qualsiasi tipo di trasmissione pirata. Insomma, era quasi certo che quella sera le immagini incriminate fossero state trasmesse proprio utilizzando quella frequenza e che quel nastro le avesse registrate per puro caso. Dato che registrava la cassetta mentre i genitori stavano guardando un altro programma, il ragazzino non aveva neanche idea di cosa stesse registrando e, fortunatamente, su una frequenza del genere le probabilità che qualcun altro potesse aver visto in diretta le immagini maledette erano praticamente nulle.
La questione comincia ad assumere un certo fascino, non trovate? E allora perché non fermarci un attimo e fare una breve digressione su questo argomento?

* Mentre nel formato Pal, usato da quasi tutti i Paesi europei, il frame rate è di 25 fotogrammi al secondo, in quello NTSC, usato negli USA e in Giappone, è di 30 fotogrammi al secondo.

Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 10 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato il primo del mese. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 10° candela...

Nensha, fotografia psichica

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Chizuko Mifune (1886-1911)
Finora abbiamo sempre parlato della saga di Ringu come se fosse pura fiction, narrativa incentrata sulla storia inventata di personaggi inventati, ma sarà proprio così? E se vi dicessi che si tratta sì di una storia di fantasia, ma ispirata a fatti realmente accaduti? Per capire di cosa sto parlando bisogna ritornare al primo decennio del Novecento, ovvero al momento storico in cui il Giappone sperimentò forse il periodo di maggiore interesse verso lo Spiritualismo, benché questo non raggiunse mai i livelli registrati in Europa o in America. I protagonisti di questa storia, che comincia nel 1910, sono Tomokichi Fukurai, un assistente alla cattedra di psicologia presso l'Università Imperiale di Tokyo, e tre medium chiamate Chizuko Mifune, Ikuko Nagao e Sadako Takahashi. Al solo sentire questi nomi, ne sono sicuro, vi si è già accesa una lampadina, vero? In effetti, queste donne fornirono il modello per tre tra i personaggi principali della nostra storia, ovvero Shizuko Yamamura, sua figlia Sadako e il dottor Jotaro Nagao. A differenza della quasi totalità dei suoi colleghi accademici, Fukurai credeva nelle percezioni extrasensoriali e, in generale, nel soprannaturale, e quando sentì parlare di una certa Chizuko Mifune (御船 千鶴子) volle conoscerla. Chizuko era nata nel 1886 nella prefettura di Kumamoto e, come dichiarò, aveva acquisito la chiaroveggenza tramite l'esercizio spirituale, e soprattutto una forma di meditazione che prevedeva una particolare tecnica di respirazione profonda. 
È una storia curiosa, perché se è vero che sappiamo ancora troppo poco di questi fenomeni per tracciare delle linee di confine nette fra ciò che è più o meno plausibile in questo campo, è anche vero che Chizuko manifestò le sue facoltà medianiche attorno ai 22 anni: un'età relativamente tarda, considerato che nella maggior parte delle persone queste compaiono durante l'adolescenza.
Il fatto è che la chiaroveggenza di Chizuko le fu in un certo senso indotta da suo cognato Takeo Kiyohara, che dal 1903 lavorava a delle ricerche sull'ipnotismo nella città di Kumamoto. Kiyohara tentò un esperimento durante il quale la ipnotizzò, le indusse uno stato di sonnambulismo e le chiese di provare ad appurare la sorte dei soldati della Sesta Divisione. Erano gli anni della prima guerra russo-giapponese e la Hitachimaru, una nave di sei tonnellate, era appena stata affondata (un evento passato alla storia come “incidente Hitachimaru”), ma non si avevano ancora notizie della Sesta Divisione, che in quei giorni tentava di raggiungere la nave da Nagasaki: Chizuko affermò che a un certo punto i soldati erano stati costretti a tornare indietro e perciò non si trovavano a bordo della Hitachimaru quando questa era stata silurata. Tre giorni dopo si seppe che le cose si erano effettivamente svolte come da lei descritto, e che gli uomini erano tutti sani e salvi. 
Rincuorato da questo primo successo, Kiyohara affermò allora che svuotando la mente e concentrandosi sulla respirazione era possibile incanalare la propria energia spirituale per ottenere delle visioni. Chizuko si attenne diligentemente a queste istruzioni ed effettivamente il suo potere sembrò crescere sempre più, tanto che nel giro di un paio d'anni da quel primo episodio la sua fama aveva valicato persino i confini della sua regione d'origine. Ma lei desiderava una sorta di riconoscimento ufficiale dei suoi poteri, e proprio per questo accettò di farsi testare da Fukurai, prima privatamente e in seguito durante una seduta pubblica che, suo malgrado, sarebbe rimasta in eterno negli annali della storia. 

Quando conobbe il professor Fukurai, nel 1910, Chizuko aveva 24 anni. La seduta incriminata si svolse il 15 settembre dello stesso anno presso l'Università di Tokyo alla presenza della stampa e di altri testimoni. Chizuko fu invitata dal preside, Kenjirō Yamakawa, a leggere il testo di alcuni messaggi nascosti alla sua vista: quando, verso la fine della prova, si scoprì che il vero autore dei biglietti era Fukurai e non Yamakawa, gli astanti sospettarono che i due si fossero messi d'accordo in precedenza e, pertanto, la donna fu accusata di aver frodato. 
Quando conobbe il professor Fukurai, dicevamo, Chizuko aveva 24 anni; quando si suicidò ingerendo del veleno, circa un anno dopo, ne aveva 25. Come molti altri medium, Chizuko fu una vera e propria meteora nel campo spiritico, salita agli onori della cronaca molto in fretta e svanita nel nulla altrettanto velocemente, lasciando dietro di sé una scia di dubbi e polemiche: a spingerla al suicidio fu, pare, un grave stato di depressione causato da motivi familiari e acuito dalle accuse di frode che le erano state rivolte durante la sua unica esibizione pubblica. Analoghe accuse rivolte ad altri medium, come Ikuko Nagao, la facevano ugualmente soffrire, perché gettavano discredito su tutta la categoria. Oltre a questo, come emerge da alcuni carteggi, Chizuko sentiva che le facoltà paranormali la stavano già abbandonando e l'apparizione sulla scena di altri medium la faceva sentire inutile e superata. 
Una scena quasi identica alla disastrosa seduta descritta sopra la si può trovare nel film di Hideo Nakata, anche se lì i fatti appaiono un po' confusi: la prova di Shizuko viene interrotta da un giornalista che, non si capisce bene perché, grida all'imbroglio, e da lì in poi tutto precipita. L'uomo si accascia morente, e gli spettatori si accorgono della presenza di Sadako che osserva nell'ombra. La reputazione di Shizuko e del professor Ikuma viene infangata per sempre: anche in quel caso, di lì a un anno la donna si toglierà la vita, benché in maniera meno convenzionale e decisamente molto più spettacolare di quanto fece la povera Chizuko Mifune nella realtà (Shizuko, ricordiamolo, si getta in un vulcano). 
Se Chizuko Mifune fece da modello al personaggio di Shizuko Yamamura e, com'è logico pensare, Tomokichi Fukurai ispirò quello di Heidachirō Ikuma, su chi si basa invece il personaggio di Sadako? Si può dire che in lei confluirono le figure di altre due medium con cui Fukurai entrò in contatto in quegli anni, le già citate Ikuko Nagao e Sadako Takahashi. Ma andiamo con ordine. 
Fukurai, sebbene addolorato per quanto era successo, proseguì nei suoi esperimenti anche dopo la morte di Chizuko. Egli era interessato in modo speciale a una facoltà che consentirebbe ad alcune persone di imprimere telepaticamente delle immagini su una pellicola fotografica, per le quali aveva coniato anche un termine apposito, nensha (念写), e generare fotografie con il pensiero era proprio la specialità di Ikuko Nagao. 
La parabola di Ikuko fu simile a quella di Chizuko: anche lei fu accusata di frodare e anche lei morì circa un anno dopo aver effettuato i primi esperimenti con Fukurai. Non morì suicida, anche se non è da escludere (e qualcuno lo suggerì) che la febbre nervosa che la portò alla tomba abbia avuto un'origine psicosomatica. Nel frattempo, Fukurai aveva cominciato a testare anche un'altra medium, Sadako Takahashi. 

Come Chizuko in precedenza, Sadako aveva sviluppato la preveggenza con esercizi di concentrazione mentale e respirazione mirati e tramite la meditazione, ma entro il 1911 fu anche in grado di produrre nensha. Esempi di nensha prodotte da Sadako e altri medium furono incluse nel libro “Toushi to nensha” (ovvero “chiaroveggenza e fotografia del pensiero”) che il professor Fukurai pubblicò nel 1913. Da lì provengono le informazioni che ho citato su Chizuko Mifune, di cui l'autore fornisce un bel ritratto a tutto tondo, imparziale ma allo stesso tempo molto umano. 
Le notizie che ci interessano ai fini di questo articolo finiscono qui, ma per dovere di cronaca va detto che, sebbene il libro abbia avuto a suo tempo una scarsa accoglienza e le sue idee e i suoi esprimenti siano stati screditati, Fukurai non cambiò mai rotta e continuò per tutta la vita a esplorare le varie manifestazioni del paranormale. È vero che si dimise dal suo incarico, ma fu assunto in seguito dalla Koyasan University e oggi viene considerato non solo lo scopritore della fotografia del pensiero e il fondatore del sistema giapponese di psicologia ipnotica, ma un vero e proprio pioniere della parapsicologia in Giappone. Nel 1960 il suo lavoro ispirò suo genero a fondare il Fukurai Institute of Psychology, che si trova a Sendai e, a quanto mi risulta, è ancora in attività. Un'ultima curiosità: Fukurai lavorò anche con il famoso medium Koichi Mita, che realizzò quella che definì una fotografia psichica del lato nascosto della Luna… un luogo a quel tempo completamente sconosciuto. 
Nel mondo anglosassone, la parola nensha diede vita al bizzarro termine "nengraphy", ma anche a “thoughtography”, letteralmente "fotografia psichica" (il libro di Fukurai in inglese si intitola proprio “Clairvoyance and Thoughtography”), e quest'ultimo in particolare sembra aver preso piede dopo l’uscita dei remake americani di Ringu. Ma a dire il vero, oltre alla capacità di creare il video maledetto sembra prerogativa tanto dell'originale Sadako che della sua controparte americana Samara quella di poter proiettare immagini su qualsiasi superficie, e perfino nella mente delle persone. Forse Ring, il remake, sottolinea maggiormente la cosa, soprattutto nelle sue incursioni oniriche (le vittime che vedono Samara in sogno), tuttavia anche in Ringu è chiaro che è la mente di Sadako a causare le esperienze paranormali che i vari personaggi sperimentano. Non sono questi a diventare soggetti paranormali, ma è Sadako, dunque, ad avere il potere di insinuarsi nella loro mente. 
Ryuji Takayama possiede già di suo poteri psichici (e viene lasciato intendere che hanno contribuito al fallimento del suo matrimonio), ma le sue visioni vengono in qualche modo sollecitate e rese più intense da Sadako, la quale sembra in grado di trasferirvi anche i suoi sentimenti; la sua ex moglie Reiko Asakawa, invece, non è un soggetto paranormale, ma quanto più si avvicina a Sadako e al suo mistero tanto più le visioni che questa le provoca (alcune delle quali sono i suoi stessi ricordi, flashback di precisi avvenimenti del suo passato) aumentano, e in un'occasione la sofferenza è tale da farla svenire. Altri esempi riguardano anche Ringu 2 e Ringu 0
Non è mia intenzione in questa sede fare discorsi scientifici o pseudoscientifici sulla fotocinesi: mi intriga di più esplorarne il lato folcloristico e religioso. 

Alla domanda se può esistere qualcosa come la fotografia del pensiero gli scettici sostengono di no, e una pletora di fotografi professionisti sarebbe pronta a giurare che le cosiddette fotografie psichiche sono dei falsi creati ad arte (un tempo si manipolavano i negativi, oggi il fotoritocco consente ottimi risultati anche a chi non è proprio un esperto). Oppure, se chi le propone è in buona fede, comunque non sono che il risultato di un difetto della fotocamera, delle lenti o della pellicola, o ancora derivano da una errata esposizione della fotografia, dal riflesso del flash o da un problema sorto in fase di sviluppo della pellicola (come una reazione chimica imprevista) o di elaborazione del file. Se a questo aggiungiamo che molti medium in passato furono sorpresi a produrre foto che si rivelarono dei falsi, anche grossolani, è chiaro che il parere generale non può che essere negativo. 
Bisogna comunque distinguere tra la fotografia spiritica, che fu in auge in Europa e in America durante lo Spiritualismo, e la psicocinesi o fotocinesi, fondamentalmente perché la prima consiste nel fotografare un ectoplasma che si è manifestato da sé nel mondo fisico, se pure sotto il controllo di un medium, mentre la seconda è l'impressione su una pellicola di un'immagine presente nella mente del medium (oppure sulla sua retina). 
La fotografia spiritica nacque come retaggio della filosofia del Romanticismo nella sua accezione gotica e oscura, e marcò l'inizio di un nuovo concetto di spiritualità che si rifugiava nei luoghi più impervi del cosiddetto “irrazionale” per sfuggire alle insidie nascoste nell'avanzare della tecnologia, e lo faceva utilizzando un prodotto di quella stessa tecnologia (la macchina fotografica) che inconsciamente impauriva, così come fece il cinema espressionista tedesco nello stesso paese che aveva visto nascere la Staatliche Bauhaus. In entrambi i casi, la neonata tecnologia visiva veniva messa al servizio dell'occulto: un bel paradosso, non c'è che dire. 
La psicocinesi è moderna tanto quanto la fotografia spiritica è, mi si passi il termine, antica e superata, a dispetto del fatto che fotografie di spiriti saltano fuori come funghi a ogni pie' sospinto anche oggigiorno: è la fiducia totale nell'evoluzione umana, il trionfo della visione modernista della mente che piega la materia e che trova una collocazione precisa in alcune teorie della fisica. 
Ci sono numerose leggende e tradizioni orali che, specie in Oriente, narrano di persone con la particolare abilità di dare forma al pensiero. Nel buddismo tibetano, ad esempio, si crede che i monaci siano in grado di creare con la meditazione delle entità incorporee che vivono nel piano astrale: i Tulpa. Il Tulpa non è, come alcuni credono, un demone o uno spirito, né è di per sé un'entità malvagia, ma è semplicemente una sorta di personalità interna al suo creatore, che però ha una sua coscienza, una mente e una personalità autonoma. 
Potremmo liquidare tutte queste come superstizioni, ma bisogna ammettere che non sono più incredibili (nel senso letterale di “non credibili”) delle fondamenta della nostra religione, la quale, senza offesa, si basa sulla figura di un uomo che camminava sulle acque, guariva i lebbrosi e risorse dalla morte. Sia la religione che il sovrannaturale, in modo diverso, richiedono un certo grado di fede...

Da sinistra a destra: Tomokichi Fukurai, Sadako Takahashi, Ikuko Nagao, Chizuko Mifune 


Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 11 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato il primo del mese. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere l'11° candela...

Hideo Nakata: Ring 2

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Nel 1999, nemmeno un anno dopo il clamoroso successo di Ring, Hideo Nakata torna dietro al timone del franchise e ci regala un sequel davvero degno di questo nome (vi era stato precedentemente un altro discusso sequel sul quale, almeno per il momento, stenderei un velo pietoso). Il secondo capitolo inizia dove era terminato il primo: Ryuji Takayama è stata l’ultima vittima della maledizione di Sadako, perlomeno l’ultima vittima alla cui fine abbiamo assistito. In verità ce n'è stata un’altra, solamente accennata perché andata in scena dopo i titoli di coda: è il padre di Reiko Asakawa, il quale, per salvare la vita al nipotino, si sarebbe sacrificato all’ira di Sadako (un sacrificio involontario, dovuto alla decisione della sua affezionata figliola di dirottare su di lui la maledizione a sua insaputa). Tecnicamente, però, il nonno di Yōichi muore proprio all’inizio di questo sequel, o perlomeno la sua morte viene resa nota nelle primissime battute, il che colloca cronologicamente l’inizio del film a una settimana di distanza dal precedente. 
Il nuovo Ring, che si discosta definitivamente dal romanzo di Suzuki (ignorando bellamente il secondo volume della sua trilogia, per essere precisi), ci piomba addosso con una scena tra le più efficaci dell’intera saga: il sequel inizia all’interno della sala autopsie di un ospedale, dove alcuni medici stanno spingendo un lettino con i resti del cadavere di Sadako Yamamura perché ne avvenga l'identificazione. Veniamo quindi a conoscenza di un particolare agghiacciante: non solo Sadako era ancora viva quando venne gettata nel pozzo, ma rimase viva per ben trent’anni.
Un brivido ci sale lungo la schiena: per trent’anni Sadako cercò disperatamente di risalire le pareti di quel pozzo, trent’anni durante i quali il suo rancore nei confronti del mondo si amplificò a dismisura, riuscendo infine a materializzarsi in un’immagine televisiva. Nel frattempo, Reiko e suo figlio Yōichi sono scomparsi, preferendo rendersi irrintracciabili dalle autorità. I riflettori si spostano quindi su Mai Takano (interpretata dalla popstar Miki Nakatani), la ragazza che un tempo fu allieva di Ryuji e che nel primo film era presente praticamente solo in un cameo. Per un’oretta la storia del primo episodio si ripete praticamente identica, ma con nuovi personaggi: il posto che fu di Reiko viene preso dalla giovane Mai, mentre il reporter Okazaki prende il posto che fu di Ryuji (sto semplificando molto, in realtà).

Un ruolo più corposo lo ha invece Masami, la ragazzina che fu testimone della morte di Tomoko Ôishi nel primo ciak del film precedente: la troviamo internata in un ospedale psichiatrico e, aspetto singolare, scopriamo che la maledizione di Sadako, in un modo o nell’altro, ha effetto anche su di lei. 
Questo è un punto piuttosto controverso, perché non c'è evidenza che Masami abbia a sua volta visionato la videocassetta e questo, in base a ciò che abbiamo visto, spezza completamente quel meccanismo che vuole che il virus si propaghi secondo determinate e insindacabili regole. Ma Hideo Nakata non è un regista a cui possa fregare qualcosa delle regole: a lui interessa trasformare il potere di Sadako in qualcosa di ancora più temibile di quanto supposto finora, un potere che non colpisce più solo chi ha guardato il famigerato video, bensì anche tutti coloro che in un modo o nell’altro entrano nella vicenda dalla porta di servizio. È appunto il caso di Masami, che ha solo assistito alla morte dell’amica, ma è anche il caso del piccolo Yōichi, che riappare mostrando di non essere “guarito” completamente nonostante il sacrificio del nonno. 
La rabbia di Sadako dunque non si limita più a imprimere immagini su un canale vuoto: ora riesce a utilizzare altri veicoli di trasmissione, come appunto gli stessi Masami e Yōichi, personaggi esterni alla “catena” ma, per motivi diversi, soggetti a una sorta di dipendenza psichica che Sadako utilizza per propagare il suo odio, a macchia d’olio, un po’ ovunque. La domanda che sorge spontanea è: perché? Perché il video maledetto non è più al centro della vicenda? E perché tutti improvvisamente sembrano essere dotati di poteri psichici? Domande che, almeno all'apparenza, rimarranno senza risposta. 
In questo sequel il livello di tensione è quasi sempre più basso rispetto al precedente perché viene a mancare quella sensazione di disagio dovuta all’incertezza nella quale i protagonisti si muovono, quel vago senso di impotenza che deriva dalla mancanza di un antagonista ben definito. Se nel primo film gran parte della narrazione era dedicata a scoprire la genesi della maledizione, qui l'unico mistero rimasto riguarda la vera natura della sua autrice. Chi è Sadako? Un fantasma? O cos’altro? Qui la struttura di base è ormai ben delineata e, per lunghi tratti, addirittura si rimuove l’elemento sovrannaturale preferendo invece un approccio più analitico della questione. Restano tuttavia grandi momenti di puro terrore, come la scena nella casa-hotel degli Yamamura, dove vengono rivissute le immagini di Shizuko e di una piccola Sadako, o come la scena di quella studentessa che, ripresa in un’intervista, improvvisamente scuote la testa e si trasforma, facendoci gelare il sangue nelle vene. 

Aldilà di come viene sviluppato questo secondo film della serie, qualcosa di molto affascinante a mio parere è l’incontro con il dottor Ishi Kawajiri (Fumiyo Kohinata), primario della clinica dov'è ricoverata Masami e ricercatore del paranormale. Questo personaggio, se mi permettete una piccola digressione, è il corrispettivo di un personaggio che era già apparso nel romanzo, vale a dire il dottor Jotaro Nagao, il vero Deus ex machina della versione originale: Nagao è colui che in gioventù violentò e gettò Sadako in fondo al pozzo e che, nel finale del libro, rivelava ai protagonisti le origini del male. Secondo Hideo Nakata, invece, il destino di Sadako è deciso dal padre e, di conseguenza, la sua incarnazione del dottor Nagao non può che essere diversa. Ishi Kawajiri tuttavia è sempre un medico ed è anche colui che, se pure in maniera del tutto differente, farà quanto in suo potere per rendere inoffensivo il rancore di Sadako. Come abbiamo detto Sadako, come già Shizuko, era venuta alla luce con forti capacità psichiche. Coloro che nel corso di una memorabile esibizione pubblica erano stati testimoni di ciò che Shizuko era in grado di fare ne erano rimasti terrorizzati, ma nessuno poteva immaginare che i poteri di Sadako fossero di gran lunga superiori a quelli di sua madre: Sadako, appunto, era addirittura in grado di proiettare immagini su uno schermo TV o su una videocassetta. Questo potere, come descritto dal Dr. Ishi Kawajiri, è conosciuto come nensha, termine sul quale ci siamo già ampiamente soffermati giusto pochi giorni fa. 
Se mi è piaciuto questo film? Sì e no. Credo che le premesse della prima parte siano state in gran parte tradite nel finale; un finale in un certo senso consolatorio (ma perché?) che forse voleva lasciare aperti spiragli per un nuovo capitolo che però, di fatto, non fu mai girato (Ring 0 – Birthday, che chiude la saga, è un prequel e noi non sapremo mai che cosa, di fatto, sia stato in grado di fermare la furia di Sadako là dove tentativi di placare la sua anima dandole sepoltura ed esperimenti scientifici o supposti tali avevano fallito. Se a fermare un odio ultraterreno è la purezza di un bambino, perché mai questo non avviene già nella prima parte della storia? Mah). 
C'è però qualcosa di molto interessante nella maniera in cui Hideo Nakata suggerisce che la verità possa ricondursi al potere simbolico dell’acqua stessa, sorgente di vita, mezzo di rigenerazione e purificazione, al tempo stesso creatrice e distruttrice. Anche su questo argomento ritorneremo in futuro, magari un po’ più avanti.


Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 12 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato il primo del mese. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 12° candela...

Ring 0 - Birthday

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Il regista Norio Tsuruta prende il posto di Hideo Nakata sul ponte di comando e nel 2000 realizza ciò che oggi, a posteriori, non esito a definire il punto più alto della serie. Sembra strano che io affermi ciò, visto che solitamente i sequel (o, come in questo caso, i prequel) sono molto lontani dalla grandezza degli originali, ma in questo caso le cose vanno diversamente. Sebbene imprescindibile dal primo Ring di Nakata, Ring 0: Birthday (リング0 バースデイ Ringu Zero: Bāsudei) giunge a mio parere a sfiorare il capolavoro, offrendo agli appassionati della serie ciò che probabilmente nemmeno osavano sperare. 
Ed è davvero facile immaginare che, nelle mani sbagliate, Sadako avrebbe potuto essere trasformata in un villain stile Jason o Freddy, capace solo di seminare morte e terrore facendo leva esclusivamente sul body count, o in un'improbabile, macabra femme fatale. 
Al contrario, Sadako si rivela essere un personaggio addirittura romantico, e umanissimo nel suo provare vette di desiderio, passione, paura. Una volta esauriti i titoli di coda, i nostri sentimenti verso le sue ragioni sono ancora in bilico tra il terrore e la partecipazione. Il motivo? Vi ricordate di Carrie White, la protagonista dell’omonimo romanzo di Stephen King rappresentata al cinema da Brian De Palma? Ebbene, siamo proprio da quelle parti. Gli ultimi giorni di vita di Sakado Yamamura, così ben descritti, cancellano in un solo colpo tutto il castello di immagini che ci eravamo costruiti su di lei nei film precedenti e le donano una nuova profondità. E chi l’avrebbe mai detto?
In parte bisogna ammettere che è anche grazie al volto angelico di Yukie Nakama, cantante, attrice ed ex gravure idol, se lo spettatore è portato a provare simpatia, se non empatia, per Sadako, ma ciò non toglie che lo stesso sentimento venga infine rivolto anche al padre di lei, il dottor Ikuma (Daisuke Ban), un uomo torturato dal dubbio che ama profondamente Sadako ma non può sfuggire alle sue responsabilità.
In questo prequel riviviamo le giornate di una Sadako diciannovenne trent’anni prima del tragico finale che ormai conosciamo. Nel corso dei primi due lungometraggi avevamo assistito, per grandi linee, alle vicende che avevano portato Sadako, non vista, a scatenare i suoi poteri contro un giornalista che si era scagliato contro la madre, accusandola di essere una falsa medium. In Ring 0: Birthday ci troveremo invece a seguire Akiko Miyaji, ex-fidanzata della vittima e a sua volta reporter, mentre cerca di far luce su quel vecchio episodio del quale sospetta che Sadako, appena una bambina all’epoca, sia stata l’unica responsabile. 
Dopo lunghe ricerche, Akiko rintraccia Sadako all’interno di una piccola compagnia teatrale di Tokyo nella quale la ragazza sta cercando di ritrovare se stessa lontano dagli angoscianti ricordi del passato. Le cose ovviamente non vanno come sperato: l’attrice protagonista muore durante le prove dello spettacolo e tutta la compagnia punta il dito verso Sadako, colpevole di essere introversa e riservata, ma soprattutto di essere apparsa in sogno, in veste malefica, a più persone contemporaneamente. 
Anche a noi spettatori viene instillato in verità un piccolo dubbio, ma la definitiva chiarezza verrà fatta solo molto più avanti; la Sadako che ammiriamo recitare sembra una persona dolcissima, dolcissima e innocua, il cui potere psichico, seppure esistente, affiora in un paio di occasioni solo per dare sollievo alla sofferenza altrui, ma una forza misteriosa e oscura, indipendente dalla sua volontà, sembra fargli da contraltare. 

La solitudine di Sadako rivela l'emarginazione che ha segnato la sua vita, mentre il suo talento per la recitazione è un indizio della sensibilità del suo animo. A fare da contorno all'atmosfera di sospetto e diffidenza che circonda Sadako c’è anche la delicata storia d’amore sbocciata fra la giovane e Hiroshi Tôyama, un tecnico di scena che sembra l’unico a giudicare la ragazza senza pregiudizio alcuno: è l'unico in grado di vedere oltre la superficie, ed è lui a incitarla ad accettare la parte della protagonista una volta che il ruolo è rimasto vacante. Gli avvenimenti, come è facile intuire, precipitano rapidamente e… 
Quello che il regista Norio Tsuruta propone nel terzo episodio della serie Ring è un approccio completamente nuovo alla vicenda: Sadako è innanzitutto una vittima, la vittima di una sorte che le fu avversa fin dalla nascita, una condanna che l’avrebbe accompagnata nel corso di tutta la sua esistenza fino a raggiungere l’apice il giorno della sua drammatica conclusione. Sadako è una vittima tanto quanto (se non di più) tutti coloro che il destino ha portato sulla sua strada e in Birthday tutto questo è ancora più evidente, perché sin dal principio ci viene suggerito che il vero antagonista (un demone, uno spirito maligno o comunque vogliate chiamarlo) non è assolutamente “dentro” di lei. 
Lo spettro che si aggira in questo film, e che a tratti sembra prendere le parti di Sadako, è un’entità esterna e, a conti fatti, è anche la vera causa della sua dannazione. In questo stravolgimento di prospettiva, quella tragica sorte che si compie in fondo al pozzo acquista un senso ancora più profondo. Ikuma, il degenerato che uccise la propria figlia, non è che la pedina di un destino tragico e ineluttabile: è forse, anzi, la figura più sfortunata, il cui stesso ricordo sarà per sempre maledetto e dannato. 
In un finale incredibile i cui momenti di terrore superano di gran lunga quelli del Ring originale, si rivela finalmente la vera natura del male e assistiamo all'origine del “super-demone”, quell’essere che finiremo per identificare in Sadako nei film successivi (ehm… precedenti). Potrei andare avanti per ore nel tentativo di spiegare meglio il senso delle mie parole, ma qualunque cosa possa dire in questa sede finirebbe per trasformarsi in un orrendo spoiler. Non è quindi il caso di proseguire oltre, anche tenendo conto che quanto visto in Birthday non avrà grosse ripercussioni sul proseguimento dello speciale “Ghost in the Well”. 

Al termine di questa trilogia restano però diverse domande alle quali manca il conforto di una risposta definitiva. La più importante è sicuramente quella relativa al periodo di incubazione del “virus”, ovvero quei famosi sette giorni che separano la sua manifestazione (la visione del video) dalla sua conclusione (il decesso dell’interessato). Ricordate le regole del gioco, vero? Si guarda il video maledetto, si riceve subito dopo una telefonata e ci viene comunicato che il countdown è partito. Dopo una settimana esatta, non un minuto di più e non uno di meno, si muore (a meno che non sia abbia avuta la premura di infettare qualcun altro). 
Ma perché sette giorni? Perché non quattro, oppure dieci o trenta? Il remake americano, come vedremo più avanti, cercherà di spiegare quei sette giorni come il lasso di tempo occorso a Sadako per morire di fame e di consunzione dopo essere finita in fondo al pozzo. Nella versione giapponese questa spiegazione (o qualsiasi altra, se è per quello) è invece completamente assente, sia nel libro che nel film. Tra l’altro, nel secondo film viene enfatizzato il particolare che Sadako sarebbe sopravvissuta in fondo al pozzo addirittura trent’anni, giustificando in questo modo il fatto che lo spettro abbia iniziato la sua “carriera” solo in tempi recenti; senza entrare nello specifico del “come” questo sia potuto avvenire, viene suggerito a più riprese che Sadako non fosse un normale essere umano (ma di questo riparleremo più avanti). 
Questa versione è perfettamente coerente con lo sviluppo del personaggio immaginato da Hideo Nakata prima e da Norio Tsuruta poi: una Sadako resa folle dall'interminabile agonia nel pozzo, una Sadako la cui maledizione è frutto di una furia cieca e distruttrice e però totalmente priva di calcolo e pianificazione, come invece altre versioni della storia sembrano suggerire. Una cosa evidentemente esclude l’altra e, proprio come un lenzuolo troppo corto, se si cerca di sistemare una questione se ne scombina un’altra. Se a tutto questo aggiungiamo che in una terza versione della storia, anch’essa Made in Japan, quel periodo viene stabilito in 13 giorni… 

Probabilmente la risposta è da ricercarsi, ancora una volta, nel significato simbolico del numero sette in correlazione alla morte (lo stesso numero sette, shichi, contiene al suo interno la parola “morte”): nella tradizione giapponese si ritiene che l’anima del defunto, per sette giorni dopo il trapasso, debba sostare in una specie di limbo prima di poter attraversare il fiume Sanzu (三途の川 Sanzu-no-kawa) e raggiungere in questo modo l’Aldilà. Una credenza, questa, molto simile a quella greca che immagina un altro fiume, lo Stige, fare da confine tra il mondo terreno e quello ultraterreno. 
Si dice anche che esistano tre diversi modi per attraversare il Sanzu: tramite un comodo ponte, attraverso un guado o nuotando in acque infestate da serpenti. La strada che si finirà per prendere dipende ovviamente da come ci si è comportati nel corso della vita. Personalmente ritengo che sia proprio questa la strada giusta per spiegare la scelta dei sette giorni, e la presenza dell’acqua non può che avvalorare la mia ipotesi. Sarebbe proprio questa credenza, di chiara matrice buddista, a far sì che nel settimo giorno dal lutto venga organizzata la cerimonia più importante in memoria del defunto e che successivamente tale cerimonia venga ripetuta per un periodo di sette settimane, in virtù del fatto che l’anima del defunto sarà sottoposta al giudizio di sette diversi “guardiani della soglia” a intervalli di sette giorni l’uno dall’altro (ricordiamo che, in base al Libro Tibetano dei Morti, si rimane in uno stato di esistenza intermedia, o bardo, finché non siano trascorsi quarantanove giorni: sette volte sette, ovvero sette settimane esatte). Nel corso di questi sette gradi di giudizio l’anima del defunto potrà essere “bocciata”, e quindi costretta a reinserirsi nel temuto ciclo di morte-rinascita, oppure promossa allo stadio successivo verso il traguardo ultimo, il Nirvana, che rappresenta la liberazione definitiva dalle sofferenze e dal dolore. Chi muore in preda al terrore e alla rabbia difficilmente riuscirà a recidere ogni legame con questo mondo. Mi pare evidente che proprio questo sia stato lo sfortunato destino di Sadako…


Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 13 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato il primo del mese. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 13° candela...

Spiral, il sequel apocrifo

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Si chiude oggi lo speciale nato per festeggiare il quinto compleanno del blog. Come da usanza, già ampiamente consolidata negli scorsi anni, questo dovrebbe essere il momento di tirare le somme di tutto ciò che è stato detto e fatto. 
Il problema, se di problema si tratta, è che lo speciale di aprile quest’anno non finisce ad aprile: dopo una breve pausa, “Ghost in the Well” riprenderà la sua corsa, andando a raccontare anche ciò che non è stato sinora incluso negli articoli dedicati alla saga di Ring.
Non sto parlando di una fuggevole coda da inserire qua e là all’interno della normale programmazione, bensì di un altro intero mese totalmente dedicato a Sadako, un personaggio che andremo a (ri)scoprire attraverso gli occhi di registi provenienti dai più disparati paesi del mondo che a loro modo hanno provato a reinterpretarne il mistero. 
Se state pensando che le cose da dire siano quasi terminate, vi basti sapere che, così sue due piedi, mi vengono in mente almeno altri cinque o sei film che ben si adattano a questo speciale. Anzi, ora che ci penso bene sono anche qualcuno di più. 
Tra una recensione e l’altra poi, com’è ormai prassi, è previsto qualche approfondimento, anche se forse meno ovvio, per meglio comprendere le dimensioni dell’Universo Ring. Rimane ancora solo una cosa da fare prima di mettere in pausa questo speciale, vale a dire spendere due parole su Spiral, altrimenti conosciuto con il titolo di Rasen (らせん), un sequel apocrifo uscito nelle sale immediatamente dopo il primo Ring di Hideo Nakata.
Qualche giorno fa abbiamo detto che Ring, nel senso di “anello”, può rappresentare l’idea della catena, quel vecchio modo di propagare un messaggio che induce il destinatario a divenirne a sua volta il nuovo mittente. Abbiamo anche detto che, allo stesso modo, Ring può essere lo squillo di un telefono oppure quel cerchio a cui il cielo si riduce se osservato dal fondo di un pozzo.
Ideologicamente, l'anello può rappresentare quella spirale di violenza e morte innescata dai persecutori di Sadako e che lei a sua volta cerca di perpetrare in eterno, in un parossismo di vendetta che finisce (un po' come nei migliori Rape and Revenge) per superare in malvagità perfino l'offesa ricevuta. Ma la forma di un anello può anche essere ravvisata nella cornice dello specchio dove si rifletteva Shizuko e perfino nell’occhio di Sadako, che a sua volta rappresenta un'icona decisamente evocativa all’interno di questa serie. Sull'immagine di Shikuzo che si pettina i capelli davanti allo specchio ritorneremo in un secondo tempo, perché Nakata nel modellarla sembra proprio essersi ispirato a un'altra famosa figura, una delle più famose del folclore giapponese: Oiwa.
Per riallacciarmi invece all’ultimo paragrafo del post precedente, la forma circolare di un anello, dal punto di vista simbolico, può essere anche estesa ai vari cicli della vita e della morte, concetto tipico della maggior parte delle religioni asiatiche. Oggi però noi non ci limiteremo all’anello: oggi faremo un passo in avanti e andremo a scoprire la spirale che, dell’anello, rappresenta un’estensione letterale e figurata. 

Dopo i primi due capitoli di Ring, e specialmente dopo i remake americani, il franchise era ormai destinato a entrare di diritto nella storia del cinema horror mondiale, in generale, e giapponese in particolare. Quello che non tutti sanno è che il già discusso sequel che Hideo Nakata girò nel 1999 non fu il primo tentativo di dare un seguito alla vicenda di Sadako. A poche settimane di distanza dal primo Ring, infatti, venne alla luce Spiral, anch’esso realizzato adattando per il cinema un romanzo (ovviamente omonimo) di Kōji Suzuki. Il risultato finale fu talmente controverso che, come già accennavo qualche giorno fa, l’esperimento “Spiral” fu ben presto archiviato e dimenticato, lasciando a Nakata il merito di aver girato l’unico vero sequel del suo stesso Ring. 
All’inizio non ero sicuro di dove fosse più opportuno inserire questo capitolo anomalo all’interno di questo speciale “Ghost in the well”. Anzi, devo ammettere che per un attimo sono stato tentato di non inserirlo affatto, ma alla fine la mia coscienza mi ha imposto di scriverne, sebbene ciò che segue non sarà quasi certamente apprezzato dai fan più accaniti della serie. 
Entrambi i sequel iniziano dal punto in cui termina il primo Ring: Ryuji Takayamaè rimasto vittima della maledizione di Sadako, mentre Reiko Asakawaè data per dispersa. Anche per questo motivo, Ring 2 e Spiral condividono grossomodo lo stesso cast, particolare curioso che dona a Spiral, se non altro, quel briciolo di interesse dovuto alla curiosità di rivedere i volti dei personaggi più amati dai fan del primo capitolo. 
Il personaggio attorno a cui ruota la vicenda è ancora una volta Mai Takano (sempre interpretata dalla popstar Miki Nakatani), con la sola ma tutt’altro che sottile differenza che, mentre nel film di Nakata quest’ultima palesa solo una cotta (che pare non ricambiata) per Takayama, in Spiral appare subito evidente che i due avevano vissuto una relazione piuttosto intima. Le analogie tutto sommato finiscono qui: nella narrazione le cose divergono su due universi paralleli, percorsi diversi che li portano a destinazioni completamente diverse. Il percorso di Spiral, per dovere di cronaca, è decisamente molto più vicino a quello che era nella mente di Kōji Suzuki e quindi è molto più aderente al romanzo; il remake di Nakata, al contrario, è molto più fedele al primo adattamento da lui stesso firmato e ciò, di conseguenza, fece in modo che quest’ultimo fosse preferito da chi si era appassionato alle vicende viste sul grande schermo.

Il punto, se vogliamo, è proprio questo: Hideo Nakata, partendo da un romanzo senza infamia e senza lode (stavo per scrivere dozzinale, ma mi sono trattenuto), era riuscito a realizzare un lavoro talmente ben fatto che qualsiasi tentativo di uscire dai suoi binari sarebbe stato destinato al fallimento, benché in fondo il secondo film da lui firmato lasci parecchie perplessità in merito al suo sviluppo e generi, alla fine, più domande di quelle alle quali si premura di rispondere. 
Va sottolineato che Nakata, più che adattare la trama del romanzo, in gran parte la riscrisse, prelevandone gli spunti più interessanti e scartando tutto ciò che secondo il suo punto di vista non aveva ragione di esistere. Quando invece il regista Jōji Iida iniziò a mettere mano alla sua personalissima versione di Ring decise di affidarsi completamente al lavoro di Suzuki, ignorando che la scelta del concorrente, a posteriori, sarebbe risultata quella vincente (Spiral e il primo Ring, lo ricordo, furono girati a poche settimane di distanza).

Ad ogni modo, eravamo rimasti a Ryuji Takayama, l'ex marito di Reiko, che aveva perso la vita a causa della maledizione di Sadako in quella che a posteriori ricordiamo come una delle scene più memorabili dell’intero franchise. Questo Spiral inizia con il dottor Mitsuo Ando, un amico di vecchia data di Ryuji, chiamato a eseguire l'autopsia sullo stesso Ryuji. Nel corso dell’autopsia Ando ritrova nello stomaco dell’amico un foglietto di carta sul quale sono indicati dei numeri che, come scopriremo nel corso del film, suggeriranno al medico che la soluzione del mistero è da ricercarsi nella genetica, ovvero nella scienza che studia i meccanismi dell'ereditarietà, grazie i quali le caratteristiche di un individuo si trasmettono a un altro. 
Mi sembra quindi evidente che il titolo del film (e del romanzo) sia un chiaro riferimento alla struttura a doppia elica del DNA. Senza entrare troppo nel dettaglio, la videocassetta cessa improvvisamente di essere importante. Gli stessi avvenimenti che avevano portato Sadako a trovare la morte in fondo al pozzo cessano di essere importanti. Praticamente tutto ciò che era stato il primo Ring viene cancellato drasticamente per lasciare spazio a qualcosa di completamente diverso. In Spiral tutto gira attorno al DNA di Sadako, in grado di riprodursi e trasmettersi esternamente, alterando quello delle sue vittime. Su questo elemento si sviluppa una nuova trama che mette da parte i toni horror, o quasi, per andare invece a esplorare una dimensione che pare più uno sci-fi apocalittico che altro. Lo scopo di Sadako è ora quello di generare mille-mila cloni di se stessa e, come un virus, invadere il mondo attraverso un'apocalisse che spazzerà via la maggior parte della popolazione, lasciando il mondo in eredità a una nuova razza di umani dominati dall’odio.

Il problema di Spiral non è nella trama di per sé, ma nel suo sviluppo. Le idee di Suzuki, se pure scientificamente azzardate, avevano del potenziale, e difatti le vicende del romanzo si basano su precisi legami di causa ed effetto; i personaggi di Suzuki, nell’ambito di una storia che comunque richiede una buona dose di sospensione dell’incredulità, agiscono in modo logico e coerente, ma il più interessante si rivela essere proprio Sadako, non più spirito accecato da un terribile rancore e perciò, per definizione, completamente irrazionale, ma creatura senziente e implacabile che attende nell’ombra, pianifica, esegue la sua vendetta. 
Nell’adattamento di Jōji Iida gli avvenimenti vengono un po’ variati ma, quel che è peggio, la sceneggiatura di Spiral è ridotta all’osso, con buchi logici che minano la comprensione di una storia già di per sé complessa e personaggi sviscerati in modo poco convincente (soprattutto Mai che, dopo un inizio promettente, si rivela poco più di una figura di contorno). Perché naturalmente Sadako non può fare tutto da sola, ma ha bisogno di complici, ignari o consapevoli che siano. Ed ecco quindi un risorto Ryuji Takayama, generato a sorpresa da un qualche pasticcio genetico, schierarsi al suo fianco. Ecco anche il dottor Ando, primo “portatore sano” del virus stesso, diventare connivente. Se le motivazioni di quest’ultimo, nel suo ritrovato ruolo di genitore, sono tutto sommato comprensibili (lo vediamo perdere il figlio all’inizio del film e ritrovarlo, grazie alla clonazione, nel finale), perché mai Ryuji Takayama, originale o doppio che sia, debba rivelarsi un complice di Sadako non è ci dato capire, tanto più che la sua ricomparsa è evidentemente stata pianificata prima ancora della sua morte. Come può un uomo tradire in questo modo i suoi principi e la sua stessa famiglia? Forse a un certo punto Ryuji si è convertito al lato oscuro della forza, così come fece Anakin Skywalker in tutt’altra saga cinematografica? 
Su questa e altre domande conviene stendere un velo pietoso, così come occorre stendere un velo pietoso su quella Sadako risorta che, più che un fantasma della tradizione giapponese, sembra Anna Oxa in versione anni Settanta. In chiusura di questa triste parentesi che è stata “Spiral”, ciò che posso consigliarvi è di dimenticarvene al più presto. Tenete invece a mente l’ipotesi genetica, perché l’occasione che il regista Jōji Iida ha buttato tragicamente nel cesso verrà sfruttata decisamente meglio da qualcun altro. E vi garantisco che l’asticella del terrore si alzerà di parecchio. Ma di questo parleremo ovviamente un’altra volta, perché da oggi lo speciale “Ghost in the well”, come sapete, se va in vacanza. Il blog invece continua e, già nei prossimi giorni, riprenderà la sua normale programmazione. 

Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 14 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato il primo del mese. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 14° candela...

Canzone del maggio

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E così, anche il mese di aprile si è concluso. E io vi ho mentito, perché non è solo lo speciale “Ghost in the well” a essere andato in vacanza, ma anche il sottoscritto. Mentre questo post si autopubblica, il vostro Obsidian è infatti già partito verso altri lidi per una breve settimana di stacco totale dalla quotidianità. In questo momento io e Simona siamo da qualche parte sulle tracce di… Carcosa.
Eh sì, perché sebbene la serie di post sugli Yellow Mythos si sia interrotta ormai da qualche mese, ciò non significa che la faccenda sia conclusa. Tutt’altro. Ne parleremo però al nostro ritorno, sempre se questa piccola avventura che ci siamo regalati sarà servita allo scopo.
La mia lontananza da casa si traduce naturalmente anche in un distacco quasi assoluto dal web, visto che porterò con me solo il cellulare, quindi mi scuso in anticipo se in questi primi giorni di maggio sarò anche più latitante del solito. Prima di partire, però, ci tenevo a fare un piccolo consuntivo di questi primi quattro mesi di blogging del 2016, un personale bilancio e anche una piccola chiacchierata, di quelle così rare da queste parti ma che, come forse ricorderete, mi ero ripromesso di fare sotto Natale e di cui, ancora oggi, sento il bisogno.

A inizio gennaio mi era balenata in testa l’ipotesi di poter rallentare i ritmi di pubblicazione a favore di un riappropriamento di quella vita privata che il blog assorbe per la sua stessa sopravvivenza. Non ci sono riuscito granché bene, come forse avrete notato. Il ritmo è rimasto pressoché uguale, finendo addirittura con una forte impennata nel mese appena terminato. Tale proposito non è però destinato a rimanere tale: quelle che erano le mie intenzioni solo pochi mesi fa non possono venire cancellate da un semplice soffio di vento. Anche perché, oltre alla possibilità di dedicarmi ad altre cose, mi piacerebbe essere anche un po’ più presente sui blog degli altri, cosa che riesco a fare sempre più raramente e con mia grande frustrazione. Ogni giorno escono infatti decine, se non centinaia, di articoli interessanti che, nella maggioranza dei casi, riesco a leggere solo di fretta e con occhio famelico ma distratto, per non parlare di tutti quei nuovi blog che incontro per caso sbirciando i blogroll altrui e che mi riprometto di andare a conoscere. Non posso che rinnovare questo proposito, ma mi rendo anche conto che finché non sciolgo dei nodi nella mia attuale vita privata e lavorativa, ciò difficilmente potrà accadere. Chissà che prima o poi non trovi la chiave che avvii questo cambiamento...

Parlando invece della struttura di questo blog, non nego che, quando i miei post erano tematicamente slegati l’uno dall’altro, la sua gestione era molto più semplice. Ultimamente ho preso invece a dedicarmi a progetti a lungo termine decisamente più complessi che hanno assorbito gran parte delle mie energie: già normalmente la scrittura e riscrittura dei post mi porta via molto tempo, ma in quei casi devo anche incasellarli in un quadro generale nel quale i riferimenti incrociati non mancano, aggiungendo nuovi tasselli mentre cerco di non perdere di vista il filo conduttore. Se avete seguito lo speciale di aprile dall’inizio alla fine, forse vi sarete fatti una vaga idea di ciò che sto dicendo, sebbene tecnicamente “Ghost in the well”, rispetto ad altri, sia un progetto meno articolato. Per quanto tempo dedichi alla stesura dei post, alla fine non sono mai totalmente soddisfatto del risultato. A posteriori non c’è nulla che non rifarei daccapo, e anche questo aspetto di me deve cambiare. Poiché non sono perfetto e non potrò mai esserlo, è meglio che me ne faccia una ragione e capisca da solo fino a che punto vale la pena incaponirsi nel cercare la quadratura del cerchio.
In un certo senso un piccolo passo avanti l’ho appena fatto proprio con lo speciale “Ghost in the well”: malgrado le apparenze, malgrado ciò che penso possa essere stato percepito da fuori, mi sono ridotto a scrivere gli articoli con molto ritardo e, pur avendo pianificato tutto con largo anticipo, il progetto grandioso che avevo in mente ha subito una devastante scossa alle fondamenta solo pochi giorni prima della sua partenza. In parte ridimensionato, in parte furbescamente spezzato in due, alla fine il progetto aveva davanti a sé due strade: venire pubblicato così com’era, con qualche aggiustamento dell’ultimo minuto, oppure venire abortito. Quello che è stato lo avete visto con i vostri occhi, quello che non avete visto è nascosto sotto un tappeto, come la polvere che si spera non venga notata.

Che cosa significa tutto questo discorso? Semplicemente che vorrei ritrovare un po’ della leggerezza del passato, quando nel blog c’era maggiore varietà negli argomenti e mi concedevo anche post più disimpegnati. Recensire libri, film e fumettiè sempre piacevole, ma sento che non è abbastanza. Qualche volta vorrei anche dedicarmi a temi inusuali per me. Non lo so, forse potrei pubblicare qualche ricetta o qualche consiglio di make-up. No, forse potrei scrivere più spesso post come quello che state leggendo in questo preciso momento, anche se ho la netta sensazione di ripetermi. Non saprei.
A volte penso al blogger che ero e mi pare fosse nettamente diverso, forse un blogger peggiore, ditemelo voi, ma di sicuro non manifestavo ancora quella tendenza a complicarmi la vita che mi ha assalito negli ultimi tempi. Nei prossimi due mesi, forse tre, un rallentamento probabilmente lo noterete. Un rallentamento che in parte ho deciso di impormi e che, dall’altra parte, la vita stessa mi impone (al mio rientro mi aspettano due trasferte di lavoro piuttosto impegnative). Magari mi trascinerò in qualche modo fino ad agosto e poi vedremo. Riprenderemo a breve con Orizzonti del reale e aggiungeremo anche qualche tassello al mostruoso Hyakumonogatari Kaidankai. Riprenderò quanto prima anche a scrivere nuovi articoli dedicati agli Yellow Mythos, ma nel frattempo, con calma, cercherò anche ispirazione altrove. Dove non lo so ma, ormai mi conoscete, non è certo la curiosità che mi manca. Solo il tempo potrà dire se sarò riuscito nel mio intento o se ancora una volta avrò chiacchierato invano.

Terre di Confine Magazine #5

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E così eccoci di nuovo qua! In questa tarda prima decade di maggio si rimette alla tastiera, reduce da una settimana di stacco quasi totale, il vostro Obsidian Mirror. Non è stato facile, come potrete immaginare, ignorare completamente ciò che succedeva in giro negli angoli del web da me abitualmente frequentati. E sebbene le mie intenzioni erano inizialmente quelle di disattivare per un'intera settimana la connessione dati sul mio smartphone, spesso e, devo ammetterlo, volentieri, quest'ultima si riattivava a tratti per via di quella dannata indisciplina che mi caratterizza e alla quale non ho saputo reagire. Naturalmente in quella settimana è successo di tutto. E come poteva essere altrimenti? La primavera è un periodo che a molti porta nuova vitalità e, di conseguenza, qualità e quantità dei contenuti che sono stati realizzati tutt'attorno a me, non si sono fatti aspettare. Come si fa quindi a staccare veramente? Avrei voluto mantenere il silenzio ancora per qualche giorno ma la piccola segnalazione di oggi è quanto meno doverosa, visto che stiamo parlando del nuovo numero di una rivista alla quale sono, come sapete, molto legato. Sono passati otto mesi abbondanti mesi dall’ultima volta che se ne è parlato (qui) ma nonostante ciò sono certo che la maggior parte dei lettori di Obsidian Mirror se ne ricordano bene. Ebbene, è tornata negli scorsi giorni la rivista TERRE DI CONFINE, di cui potete ammirare qui sopra la nuova, stupenda copertina. Cos’è “Terre di confine”? L’avevo già scritto le volte precedenti, ma ancora una volta mi ripeterò: "Terre di confine"è in primo luogo è un’associazione culturale no-profit che, citando direttamente lo Statuto, “ha come finalità lo studio, la promozione e la diffusione della cultura, delle scienze e dell’arte – quest’ultima con particolare riferimento ai generi letterari Fantascienza e Fantastico e all’Animazione Giapponese – intese sotto ogni loro forma espressiva”. Sempre citando lo Statuto aggiungo che “oggetto d’interesse sono Letteratura, Cinematografia e Televisione, Animazione e Fumetti, Storia e Arte, Costume e Società, Mistero e Paranormale, Scienza e Tecnologia, e, più in generale, tutto ciò che attiene agli obiettivi summenzionati.
Vi chiederete perché vi sto raccontando tutto ciò, giusto? Semplice: per la quinta volta consecutiva il vostro Obsidian Mirror si pregia di essere parte di questa fantastica redazione! Sempre all'interno della sezione dedicata alle arti cinematografiche, il vostro blogger di fiducia è andato a ripescare un grande classico del cinema giapponese, vale a dire Onibaba di Kaneto Shindo, un bel drammone dalle tinte horror che, a ben vedere, si adatta perfettamente al mood del blog di questi ultimi tempi. Cercatelo su YouTube (lo si trova facilmente) e gustatevi giusto i primi sessanta secondi, quelli a cavallo dei titoli di testa. Vi viene forse in mente qualche cosa che ha a che fare con uno speciale appena concluso? Appunto. E non è un caso.

Il quinto numero di TERRE DI CONFINE MAGAZINE può essere letto o scaricato gratuitamente da qui oppure cliccando direttamente sull'immagine a destra, nella colonna laterale. Oltre al mio contributo troverete anche quello di nomi che dovrebbero esservi altrettanto ben noti, come vedremo tra un attimo nel dettaglio.
Con l'occasione ricordo che nel dominio storico terrediconfine.eu, è possibile recuperare tutti gli arretrati, consultare la versione web testuale di tutti gli articoli e di tutti i racconti ed eventualmente lasciare commenti. La rivista è utilizzabile liberamente in qualsiasi sito web avesse piacere di farla leggere dalle proprie pagine o integrarla nel proprio layout; per utilizzare le funzioni di inglobamento, condivisione o download.

Dall'editoriale: "Cari Lettori, ce l’abbiamo fatta anche stavolta! Contro ogni pronostico e avversità, eccoci a presentarVi un nuovo numero del Vostro affezionatissimo TdC Mag! Come sempre gratuito, come sempre coloratissimo, come sempre ricco di stimoli, immagini e opinioni. Ci siamo riavvalsi del prezioso supporto de La Bottega del Barbieri. è proprio l’ampia retrospettiva di Daniele Barbieri sulla figura dell’alieno nella Fantascienza a caratterizzare TdCM #5, insieme a una suggestiva riflessione di Ivano Landi sul mistero di Picnic a Hanging Rock, un’analisi che accarezza l’anima dell’Australia aborigena, quel suo cuore metafisico conosciuto come il Tempo del Sogno. Fabrizio Melodia ci ripropone poi il suo appuntamento con i fanta-temi, parlandoci di PsicostoriaA completare la sezione Letteratura: Marco Pulitanò ben descrive quanto profonda e meschina possa rivelarsi la Cecità umana; con la nostra Cuccu’ssette c’immergiamo tra le onde e le perturbanti manifestazioni di Solaris; Elisa Giudici, nostra ospite gradita, ci illustra pregi, difetti e attitudini epigonogeniche di Ender’s Game; nuovo anche l’arrivo di Glinda Izabel, che con Rebel accompagna TdC nei territori finora inesplorati degli young adults e dei romance; e infine, restando in tema di lande da esplorare, Luca Germano ci guida tra gli inquietanti meandri dell’Area X.
La parte antologica propone racconti di Clelia Farris, Fabio Lastrucci e Vincent Spasaro, Riccardo Dal Ferro e Francesco Pomponio, per chi ama il fantastico con punte di surreale, horror e distopia.
Nella sezione Cinema e TV, l’inObsidiabile Obsidian Mirror affronta la leggenda di Onibaba; mentre Andrea Carta s’inoltra in terra teutonica per commentarci Le Fantastiche Avventure dell’Astronave Orion (con le immancabili sinossi di SerieTV.net).
Alla coppia Mistè–Coràè affidato il gustoso buffet anime, con un piatto per ognuna delle tre più rinomate portate nipponiche: film (Le Ali di Honneamise), OVA (Bubblegum Crisis) e serie TV (l’inedito Dougram).
Nello spazio Fumetti, ecco il saggio di Marco Pellitteri sul mitico Astroboy; e Orlando Furioso di nuovo alle prese con un supereroe che alla Casa delle Idee scippa addirittura il nome: Capitan Marvel.
Per l’angolo foto-cosplay, Davide Longoni e Leonardo Colombi intervistano Monica Pachetti e Roberto Giancaterina. Aprono e chiudono il numero due photodream d’annata: la meravigliosa Skin Diamond, ritratta da Scott Pierre Price, posa in atmosfera a metà tra glamour e postapocalittico.
Insomma, è primavera: sedetevi, rilassatevi e gustatevi TdC Magazine #5!

Che altro dire? Grazie sin da ora se vorrete supportare TdCM tramite passaparola, condividendo la notizia tra i vostri contatti o nei vostri siti e social e, se vi fa piacere, anche cliccando gli appositi pulsanti “mi piace” che trovate sul sito, giusto sotto l’editoriale ^__^

25 domande di cinema

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Nell'attesa di tirare le somme dei Liebster e di riuscire a rispondere a tutte le millemila domande che sinora ho accumulato, vado a recuperare un'altra simpatica iniziativa che si aggirava per la blogosfera non più di un mese fa, quella secondo la quale chiunque poteva rivelare nel proprio blog le sue venticinque grandi verità sul cinema.
Da quello che ho capito la faccenda è nata diversi mesi fa sul blog Sofàsophia e, dopo lunghe vicissitudini, è finalmente approdata sui blog di diversi miei vicini di casa (che qui non cito perché temo di dimenticarmene qualcuno).
Dal blogroll al post di oggi il passo è stato abbastanza breve, sebbene il mio metabolismo da bradipo abbia richiesto almeno un altro mese per tramutare una semplice idea in qualcosa di concreto.
Non perdo altro tempo e passo subito a rispondere alle 25 domande che rappresentano l'ossatura di questo post (anche perché, come immagino sappiate, la sintesi non è una delle mie più note virtù).


1) Il personaggio cinematografico che vorresti essere?
Mah... diciamo che non c’è un personaggio preciso che vorrei essere. Piuttosto, se fossi stato in grado di recitare, mi sarebbe piaciuto interpretare alcune scene che ritengo uniche per la loro potenza espressiva. Fra quelle che più mi hanno emozionato o esaltato, mi viene in mente in prima battuta la scena finale di “Via col vento”, quando Clark Gable si rivolge a Vivien Leigh con uno sprezzante “Francamente me ne infischio”, per poi andarsene e lasciarla sola con le sue lacrime. Da notare che, se fossi stato una donna, probabilmente mi sarebbe piaciuto pronunciare l’altrettanto mitica battuta “Dopotutto domani è un altro giorno”, con la quale la stessa Vivien Leigh chiude il film...
Circoscrivendo però la scelta ai personaggi maschili, come non citare la frase “Vieni con me se vuoi vivere” che Kyle Reese rivolge a Sarah Connor in uno dei momenti più emozionanti di “Terminator 2 - il giorno del giudizio” (una frase talmente mitica che sarà poi riutilizzata nei sequel Salvation e Genesys)? Non è una frase da superfighi? Ma il momento più testosteronico della storia del cinema è sicuramente quello che vede Robert Duvall parlare di napalm su una spiaggia vietnamita in “Apocalyse Now” di Coppola. Ricopiare qui il testo di quella scena non renderebbe l’idea, pertanto inserisco, in fondo al post, un piccolo contributo video.

2) Genere che ami e genere che odi? 
Chi segue questo blog dovrebbe già avere un’idea ben precisa di quale possa essere il genere che amo. Chi seguiva anche il defunto Obsploitation, dedicato al cinema italiano anni Settanta, dovrebbe avere un quadro ancora più completo. L'horror in tutte le sue forme è ovviamente uno dei miei preferiti quando ho bisogno di passare un paio d’ore di vero svago e divertimento. Qualcuno potrebbe trovarlo strano, ma l’horror ha il potere di rilassarmi e di distendermi i nervi. In altri momenti sono più propenso a godermi thriller, gialli, poliziotteschi, commedie intelligenti e film drammatici, non necessariamente recenti. Negli ultimi anni ho preso a esplorare la cinematografia di paesi come il Sudamerica, l’Europa orientale, dai Balcani fino alle regioni più remote della Russia, e poi Corea, Giappone, Thailandia, Filippine... e ho scoperto delle cose davvero incredibili uscire dagli schermi meno (o per niente) conosciuti. Un genere che non sopporto è quello invece che pare venga apprezzato di più dal resto del genere umano, vale a dire la comicità demenziale e le saghe fantasy con maghetti e anelli. Non ce la faccio proprio. È più forte di me. Scusate. P.S.: Non voglio dire che la comicità mi disturbi. Tutt’altro: tra i miei film preferiti ci sono molti film comici, ma sono quelli di Totò, di Sordi, di Tognazzi… ma immagino che quei nomi rappresentino un po’ i gusti della mia generazione (che non è esattamente l’ultimissima). 

3) Film in lingua originale o doppiati?
Sono un po’ combattuto nel rispondere a questa domanda. È evidente che il doppiaggio rappresenta in un certo modo una “violenza” al lavoro del regista, un’alterazione forzata (e soggettiva) a un’opera che era stata pensata in un certo modo, che era stata realizzata in un certo modo, con un certo volto, con una certa voce. Qualunque modifica all’opera originale è uno stupro. Sarebbe come se prendeste un pennello e vi metteste a pitturare di rosso cardinale le labbra della Gioconda. Magari vi viene bene perché riuscite a stare nei bordi ma, nel complesso, avete fatto una porcheria. D’altro canto ritengo che il cinema sia innanzitutto intrattenimento e, forse sarà un mio limite, ma non è che parli perfettamente dodici lingue. Con l’inglese me la cavo, ma guardare un film inglese in originale è faticoso, non ci si può distrarre un attimo. Sarà forse un ottimo esercizio per migliorare la lingua ma, cazzo, non è affatto intrattenimento quello: è quasi un lavoro. I sottotitoli sono un ottimo compromesso ma, anche lì, o si guardano le immagini o si leggono i dialoghi. Il problema è che nella maggior parte dei film che guardo io (vedere risposta precedente) non esiste un doppiaggio. Per tagliar corto (si fa per dire) tra i due scelgo la versione doppiata, anche perché, lo sapete meglio di me, in Italia abbiamo un sacco di doppiatori bravissimi che spesso fanno un lavoro migliore di quello fatto dagli attori stessi. Cercatevi quel passaggio di “Apocalypse Now" in versione originale, quello di cui parlavamo prima, e ascoltate la voce di Robert Duvall: vi renderete subito conto di come il doppiaggio di Gianni Marzocchi abbia fatto la differenza. 

4) L'ultimo film che hai comprato? 
Per soli €14,99 ho trovato in un cestone da Unieuro un cofanetto con i seguenti film: “Django”, “Django sfida Sartana”, “W Django” e “Django il bastardo”. Non l’avreste comprato anche voi? Sì, lo so che dei quattro è solo il primo ad essere mitico, ma la tentazione è stata troppo forte… 

5) Sei mai andato al cinema da solo?
Da bambino andavo molto spesso al cinema da solo. Di quelle esperienze ho ampiamente parlato in qualcuno dei miei vecchi miei post (tipo ne Il ragazzino e i suoi fantasmi). Erano gli ultimi anni Settanta o i primi Ottanta, c’era una sala a 100 metri esatti da casa mia che proiettava prevalentemente horror di serie zeta e io ci passavo spesso i pomeriggi della domenica. Se non davano nulla di buono c’era sempre il cinema della parrocchia, dove mi sono visto praticamente tutti i vecchi Godzilla, i Bruce Lee, gli Herbie e i Bud Spencer… Da grande poi ho smesso di andare al cinema da solo. Forse l’ho fatto una volta, ma non sono nemmeno più tanto sicuro. Di sicuro una volta sono andato a teatro da solo, ma quella è un’altra storia. Andare al cinema da solo oggi mi pare una roba imbarazzante. Nel senso che avrei il timore che tutta la sala possa avere gli occhi puntati su di me. Meglio guardarsi un film a casa propria, visto e considerato quanto costa ormai andare al cinema. 

6) Cosa ne pensi dei Blu-Ray?
Non ho mai avuto una cotta per l’alta definizione. Non riesco davvero a percepirne il valore aggiunto. Un bel film è un bel film comunque, basta che non si veda da schifo come certa roba caricata su YouTube. Va anche detto che a casa mia ho uno schermo non molto grande (per banali ragioni di spazio) e potrebbe essere quello il motivo per cui non vedo la differenza. 

7) Che rapporto hai con il 3D?
Un rapporto di merda. Mi fa venire da vomitare dopo un minuto, tanto che sono costretto a togliermi gli occhiali e passare un’ora e mezza con gli occhi chiusi e la testa tra le mani. In questo rapporto conflittuale conta molto anche il fatto che indossare un paio di occhiali sopra un altro paio di occhiali mi fa sentire come se fossi a una visita oculistica in cui io sono il paziente e Freddy Krueger il medico. 

8) Cosa rende un film uno dei tuoi preferiti?
Difficile dirlo. In parte la regia, in parte la sceneggiatura, in parte la recitazione, in parte il contenuto. Qualcuno potrebbe dire che la verità sta nel mezzo, ma sappiamo bene che in fondo non è così. Ci ho pensato molto e alla fine credo che non ci sia davvero una risposta. Forse il segreto è semplicemente dettato dal caso. Guardare il film giusto nel momento giusto della propria vita. Puro e semplice caso. 

9) Preferisci vedere i film da solo o in compagnia?
Sempre e soltanto in compagnia di Simona, la mia Lei che è talmente paziente dal lasciare scegliere a me (anche se rigorosamente una volta sì e una no) qualunque boiata mi venga in mente. Il tutto senza quasi reagire. Il vero problema però è la vendetta che ne segue: se per esempio io scelgo un film cecoslovacco con i sottotitoli in tedesco, lei la volta dopo mi fa succhiare un film contemplativo balcano con i sottotitoli in friulano. 

10) Ultimo film che hai visto?
Ecco arrivato il momento della vergogna. Per un lungo attimo ho pensato di barare, citando un qualche capolavoro indiscusso del cinema. Oppure avrei potuto citare un film cecoslovacco con sottotitoli in tedesco per potermela tirare da intellettuale. La verità è che l’altra sera ho visto uno dei miei soliti horror di intrattenimento. Il titolo (“Black Forest”, 2010) probabilmente non vi dirà nulla, ma la trama del film probabilmente vi farà sorridere per la sua assoluta mancanza di originalità. “Due coppie di giovani in cerca di relax vanno in vacanza in una cascina nel mezzo della Foresta Nera. Il tempo scorre tranquillo fino a quando non trovano in una stanza chiusa a chiave uno strano televisore che si accende e spegne da solo”. In realtà non è stato così brutto. Paura tendente allo zero assoluto ma tanto, tanto divertimento. 

11) Un film che ti ha fatto riflettere?
Ho osservato, una lumaca, che strisciava sul filo di un rasoio, è un sogno che faccio, è il mio incubo, strisciare scivolare lungo il filo di un rasoio e sopravvivere. Ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche lei, ma non avete il diritto di chiamarmi assassino, avete il diritto di uccidermi, questo sì, avete il diritto di farlo ma non avete il diritto di giudicarmi. Non esistono parole per descrivere lo stretto necessario, a coloro che non sanno cosa significhi l’orrore. L’orrore. L’orrore ha un volto e bisogna essere amici dell’orrore, l’orrore e il terrore morale ci sono amici. In caso contrario, allora diventano nemici da temere. Sono i veri nemici. Ricordo quando ero nelle forze speciali, sembra siano passati mille secoli. Siamo andati in un accampamento per vaccinare dei bambini; andati via dal campo, dopo averli vaccinati tutti contro la polio, un vecchio in lacrime ci raggiunge correndo, non riusciva a parlare. Allora tornammo al campo, quegli uomini erano tornati e avevano mutilato a tutti quei bambini il braccio vaccinato. Stavano lì ammucchiate un mucchio di piccole braccia, e mi ricordo, che io ho.. io ho pianto come.. come una povera nonna, avrei voluto cavarmi tutti i denti, non sapevo nemmeno io cosa volevo fare. Ma voglio ricordarmelo non voglio dimenticarlo mai, non voglio dimenticarlo mai. E a un certo punto ho capito, come se mi avessero sparato, mi avessero sparato un diamante, un diamante mi si fosse conficcato nella fronte e mi sono detto: Dio che genio c’è in quell’atto, che genio. La volontà di compiere quel gesto, perfetto, genuino, completo, cristallino, puro. Allora ho realizzato, che loro erano più forti di noi, perché loro riuscivano a sopportarlo, non erano mostri, erano uomini. Squadre addestrate. Questi uomini avevano un cuore, avevano famiglia, avevano bambini, erano colmi d’amore, ma avevano avuto la forza. La forza…di farlo. Se avessi avuto dieci divisioni di uomini così, i nostri problemi sarebbero finiti da tempo. C’è bisogno di uomini con un senso morale e allo stesso tempo capaci di utilizzare il loro primordiale istinto di uccidere, senza sentimenti, senza passione, senza giudizio. Senza giudizio, perché è il giudizio che ci indebolisce. Sono preoccupato che mio figlio non capisca quello che ho cercato di essere e se devo essere ammazzato, Willard, vorrei che qualcuno andasse a casa mia per dire tutto a mio figlio, per spiegare cosa sono stato, cosa ho fatto… perché non c’è nulla che detesti di più dell’odore marcio delle bugie. E se lei mi capisce, Willard, lei farà questo per me. - “Apocalypse Now” (Francis Ford Coppola, 1979) - Monologo del colonnello Walter E. Kurtz (Marlon Brando

12) Un film che ti ha fatto ridere?
Ho riso fino alle lacrime per molti film, specialmente da ragazzino guardando la maschera incredibile di Totò, dalla cui filmografia è impossibile citare un solo titolo. Da più grandicello c’è stato anche un lungo periodo in cui mi ero incagliato con la comicità di Carlo Verdone (e pensare che c’è chi dice che “Bianco Rosso e Verdone” e “Troppo Forte” non fanno star male dal ridere). Ma su tutti, l’unico e ineguagliabile film che non mi stancherei mai di vedere è “Non ci resta che piangere” con Troisi e Benigni. Oddio, sto male solo a pensarci. Savonarola! Ahahaha! 

13) Un film che ti ha fatto piangere?
Notoriamente preferisco gli animali agli esseri umani, per cui è automatico che mi commuova per loro. Nel tempo ho visto diverse pellicole dalle forti tinte drammatiche con animali come protagonisti. Una su tutte è “Au Hasard Balthazar” di Robert Bresson, vale e dire vita (e morte) di un povero asinello nella Francia rurale del dopoguerra. Ho pianto lacrime che non so spiegare. Ho anche sofferto per il destino del povero cavallo di Torino dell’omonimo film di Béla Tarr… per non parlare dei poveri cani di “Antarctica” (Nankyoku monogatari), film giapponese del 1983 ispirato a una storia vera. C'è poi Socks, il bellissimo protagonista di “Ten promises to my dog” di Katsuhide Motoki, e chissà quanti altri che sul momento non mi vengono in mente. 

14) Un film orribile?
Una scelta ovvia che non può che ricadere sui “Goonies”! Odio quei maledetti ragazzini che non fanno altro che urlare dalla prima all’ultima scena. Non riesco davvero a capire perché qualcuno possa trovare divertente questo film. Odio alla massima potenza. Morte ai Goonies! C'è però qualcosa di peggio…. Essendo io un fruitore di cinema dalla serie B alla Z, in vita mia ho visto dozzine di film orribili, però spesso capita che sfocino nella comicità involontaria e questo fa sì che non riesca ad essere troppo severo nel giudicarli (titoli come “Alex l'ariete” non li considero neanche dei film ed è solo per questo che non li cito, abbiate pazienza). Quello che invece non sopporto è la pretenziosità, e quanto a questo “Paganini”, di e con Klaus Kinski, è imbattibile. Come incarnazione del binomio mortale di spocchia e noia assoluta, per me questo film vince la palma di film più brutto della storia. 

15) Un film che non hai visto perché ti sei addormentato?
Sono centinaia i film di cui ho perso il finale per via della discesa improvvisa delle palpebre, ma nella maggior parte dei casi non era colpa del film. Il fatto di avere un divano comodo e un lavoro impegnativo incide molto sulla mia resistenza serale, specie quando guardo alcuni di quei film citati nella risposta 9. Al cinema mi sono addormentato almeno due volte; la prima a 14 anni guardando “Reds”, un film di (e con) Warren Beatty sulla rivoluzione d’ottobre (fu una sfida persa in partenza: 195 minuti!), la seconda sette anni dopo guardando “Inseparabili” di David Cronenberg (ma spesso mi dico che, almeno a quello, dovrei dare una seconda occasione). 

16) Un film che non hai visto perché stavo facendo le cosacce?
Cosacce ne ho fatte parecchie davanti a una televisione accesa (al cinema invece mai), ma ricordare il titolo anche di uno solo di quei film piantati a metà è impresa quasi impossibile. 

17) Il film più lungo che hai visto?
Per adesso il mio primato è “From What is Before” di Lav Diaz (338 minuti che però ho diluito in tre serate), ma ho lì che mi aspetta sull’hard disk “Satantango” di Béla Tarr (432 minuti). Devo solo trovare sette ore libere, anche in questo caso possibilmente non consecutive…. 

18) Il film che ti ha deluso?
Nemmeno sotto tortura ammetterò mai che “Star Wars Episode VII” è stato una delusione. Sarebbe come mettere in dubbio la santità di Obi-Wan Kenobi e di tutti i cavalieri Jedi. A parte gli scherzi… ecco un’altra domanda complicatissima: si attesta infatti più o meno al 90% la percentuale dei film che hanno deluso le mie aspettative. Probabilmente il mio problema è che tengo l’asticella troppo alta mentre, al contrario, dovrei rassegnarmi a prendere le cose così come vengono. In generale posso dire con certezza che è sempre il cinema italiano che più mi delude, anche se “deludere” dovrebbe implicare il fatto di aver avuto delle aspettative precedenti (che in realtà non c’erano). 

19) Un film che sai a memoria?
Questa è molto facile: trattasi ancora una volta di “Non ci resta che piangere” con Benigni e Troisi. Non c’è una battuta che non ricordi a memoria, sebbene siano ormai diversi anni che non ho più occasione di rivederlo. Molti anni fa avevo un collega che come me era appassionato da morire di quel film. Passavamo il tempo a scambiarci battute: mi avvicinavo alla sua scrivania e gli chiedevo, all’improvviso, “ma nove per nove farà ottantuno?”; e lui più tardi veniva da me e mi chiedeva “ma con tutti gli uomini che ci stanno, proprio io la devo sfogare a Gabriellina?”. Era divertente perché era tutto molto spontaneo e, soprattutto, una citazione arrivava nel momento in cui meno te la aspettavi. Ah, che bei tempi! 

20) Un film che hai visto al cinema perché ti ci hanno trascinato?
Quando da ragazzino uscivo con quel paio di amici che si si atteggiavano a proto-intellettuali (cfr. risposta 15) ne ho viste parecchie di robe che non avrei mai voluto vedere, cose che magari ho poi rivalutato in età matura, come “Il verdetto” di Sydney Lumet, “Gente comune” di Robert Redford o “Salvador” di Oliver Stone. Fortunatamente io e Simona oggi (a dispetto di quanto ho scritto nella risposta 9) abbiamo dei gusti molto simili, per cui non capita mai che uno dei due trascini l’altro a vedere cose pazzesche. Ci sono però i nipoti che pensano a trascinare gli zii dove questi ultimi non vorrebbero andare, come quella volta con i “Transformers”, una roba talmente rumorosa che al confronto i Goonies (cfr. risposta 14) erano dei dilettanti. 

21) Il film più bello tratto da un libro?
Senza dubbio “Shining” di Stanley Kubrick, che ho visto per la prima volta alle scuole superiori grazie a quel mitico insegnante di religione che, anziché parlare di cose campate per aria, nelle sue ore allestiva un videoregistratore in classe e ci faceva vedere film dell’orrore. Stanley Kubrick, per quanto ne dica Stephen King, ha trasformato un romanzo mediocre in un capolavoro. Ma il faccione spiritato di Jack Nicholson, va detto, ha il suo merito in questa faccenda. Non è vero, Wendy? 

22) Il film più datato che hai visto?
Escludendo d’ufficio gli esperimenti dei fratelli Lumière e l’opera omnia di Georges Méliès, che in pratica sono tutti cortometraggi buoni solo per i cinefili più incalliti, credo che i film più datati che ho visto siano stati “Il Golem, come venne al mondo" (Paul Wegener, 1920) e “Il gabinetto del dottor Caligari” (Robert Wiene, 1920). A seguire “Il carretto fantasma” (Victor Sjöström 1921), “Haxan” (Benjamin Christensen, 1922) e “Nosferatu” (Friedrich Wilhelm Murnau, 1922). 

23) Miglior colonna sonora?
Potrei citarne a migliaia, ma la domanda vuole che io esprima una sola preferenza. Tralascio quindi, seppure a malincuore i film in cui la musica è la parte predominante (come nei musical “Hair” o “Jesus Christ Superstar”) o i film in cui sono i brani di un artista a me caro a reggere la colona sonora (come in “Labyrinth”, in “Philadelphia” o in “Doors”), oppure quelle colonne sonore che possono benissimo vivere di vita propria, anche se ascoltate senza guardare il film (“Grease” o “Pulp Fiction”). Una colonna sonora degna di questo nome è in realtà una cosa senza la quale il film non sarebbe lo stesso, ed è qui che ricade infine la mia scelta. Ovviamente è un horror e, altrettanto ovviamente, è "Il signore del male" di John Carpenter.  

24) Migliore saga cinematografica?
Sono indeciso tra “Alien” e “Star Wars”… ma anche “Terminator” e “Ritorno al futuro” non sono state male… Dovendo scegliere direi “Star Wars” per una questione puramente affettiva (il primo capitolo del 1977, che poi in realtà sarebbe il quarto capitolo, fu il primo film che vidi al cinema: avevo solo dieci anni). Evidentemente già allora avevo un lato oscuro… 

25) Miglior remake?
Chissà perché tutti dicono che i remake sono sempre delle schifezze, se confrontati con gli originali. Eppure ve ne posso citare almeno tre che hanno di gran lunga superato i loro ispiratori. In ordine di preferenza: “Scarface” di Brian De Palma (qui la Simo non è d'accordo e mi ha obbligato a scriverlo), “La cosa” di John Carpenter e “La Mosca” di David Cronenberg.

Questo è tutto, cari amici. Come promesso all'inizio del post vi lascio con uno spezzone tra i più pazzeschi del cinema, uno di quelli che, da attore, mi sarebbe piaciuto interpretare. A presto.



La canzone di Cassilda (Pt.4)

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LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI
ATTO II - SCENA I: TOMMASO

Alessia H.V., 'La Perduta Carcosa', digital, 2015
 http://alessiahv.deviantart.com/
“...è il Signore delle Foreste fino a [...] e i doni degli uomini di Leng [...] dagli abissi della notte fino alle voragini dello spazio, e dalle voragini dello spazio agli abissi della notte, che risuonino per sempre le lodi del Grande Cthulhu, di Tsathoggua e di Colui-che-non-si-deve-nominare. Che risuonino per sempre le Loro lodi, e che sia concessa l'abbondanza al Capro Nero delle Foreste. Iä! Shub-Niggurath! Il Capro! [...] Ed è avvenuto che il Signore delle Foreste, essendo [...] sette e nove, in fondo alla scala d'onice [...] tributi portati a Quello dell'Abisso, Azathoth, a Colui del quale Tu ci hai insegnato le meraviglie... sulle ali della notte, al di là dello spazio, al di là del [...] a Quello di cui Yuggoth è l'ultimo nato, viaggiando solitario nell'etere nero al confine del [...] anche fra gli uomini, e istruitevi sulle loro usanze, affinché Quello dell'Abisso possa sapere. A Nyarlathotep, il Potente Messaggero, tutto deve essere riferito. Ed Egli assumerà le sembianze dell'uomo, la maschera di cera e la veste che nasconde, ed Egli discenderà dal mondo dei Sette Soli per..."  (1)
Il treno scivolava via veloce nell’oscurità. I riflessi purpurei del tramonto lo avevano accompagnato finché potevano ma alla fine, nell’arco di un attimo, erano stati costretti a sottomettersi alle rigide regole imposte dalla rotazione terrestre. Tommaso osservava il suo riflesso nel finestrino sferzato dalla pioggia battente senza poter identificare null’altro che le luci dei rari lampioni che accompagnavano il suo percorso. Il serpente bagnato, le cui squame metalliche rispendevano sotto quelle luci inaspettate, sembrava dotato di una coscienza propria, quasi come se sapesse esattamente il da farsi, quasi come se le sue spire potessero improvvisamente stringersi e fagocitare tutti i suoi passeggeri nel tempo di un solo batter di ciglia.
Tommaso però era sereno. Era saltato su quel treno nel tardo pomeriggio, gettandosi tutto alle spalle così, senza rimorso, proprio come il suo vagone si lasciava alle spalle un vagone del tutto simile ma incapace di raggiungerlo. Nella tasca del cappotto aveva le poche cose che riteneva necessarie, un paio di pacchetti di sigarette, un accendino, il cellulare e qualche banconota da cinquanta. Nella borsa, che aveva preparato in fretta e furia quella stessa mattina, approfittando del fatto che Cassandra come sempre era uscita di casa prima di lui, c’erano qualche maglietta, una felpa blu, spazzolino e dentifricio e un numero imprecisato di calzini, oltre ovviamente a molti cambi di biancheria intima, perché poteva sopportare tutto ma non quella fastidiosa sensazione di provvisorietà che si prova quando non si ha biancheria di ricambio a portata di mano. E, naturalmente, aveva i suoi libri.
Non aveva potuto fare a meno di portare con sé qualcuno dei suoi titoli preferiti, quelli del genere che oggi la rete chiama "weird". Che modo bizzarro di esprimersi! Da che mondo è mondo il solitario di Providence era un autore di letteratura fantastica, anzi era l’autore di un tipo di letteratura che forse nemmeno lui aveva ben capito come catalogare. Definire la sua opera con l'appellativo weird era come etichettare lui stesso allo stesso modo, cosa che d'altra parte i suoi detrattori avevano fatto per anni. Ma vabbé.
Con il naso pateticamente incollato al finestrino, Tommaso non riusciva a scacciare dalla mente un racconto in particolare, uno di quelli che aveva avuto l’intuizione di rileggere nei giorni precedenti. C’era un tizio, che come lui viaggiava in treno, alla ricerca della verità su una certa questione che un conoscente gli aveva riferito. Quel tizio, Wilmarth, gli pareva che si chiamasse, un po’ gli somigliava. Non in senso stretto, naturalmente, quanto per lo spirito con il quale egli stesso si era messo in viaggio, un misto di curiosità e terrore che difficilmente si potrebbe spiegare a parole.
Non era stato certamente carino da parte sua andarsene in quella maniera, salutando la sua ragazza come se quello fosse un giorno qualsiasi, ma certamente non avrebbe potuto fare altrimenti. Un solo accenno a Cassandra su quelle che erano le sue intenzioni avrebbe potuto invogliarla ad accompagnarlo e l'idea, sebbene non ne capisse esattamente il motivo, l'aveva messo a disagio. Molto meglio andare via da solo, sparire, esattamente come aveva fatto. In tal modo, se non altro, sarebbe stata solo la sua vita (o, più probabilmente, la sua sanità mentale) a essere messa in pericolo.

Quando il treno, dopo una lunga sosta a Ventimiglia, superò il confine di stato, Tommaso si sentì perduto, come se in quel preciso momento qualcosa dentro di lui si fosse spezzato. Ebbe la terribile sensazione che quello fosse il punto di non ritorno, che non avrebbe mai più potuto ritornare sui propri passi e rivedere i luoghi a lui familiari e le persone a lui care. Avrebbe avuto tutto il tempo, pochi istanti prima, di mollare tutto e saltare giù dal convoglio ma... come avrebbe giustificato a Cassandra la sua fuga? A quell'ora lei era ormai tornata a casa dal lavoro e di sicuro aveva anche provato a cercarlo sul cellulare per capire dove fosse. Non osava accenderlo per controllare. Non ancora. Ormai c’era bisogno di una ragione ben solida per tornare indietro. Qualcosa che potesse orgogliosamente esibire come trofeo o, meglio ancora, qualcosa che potesse evitargli la segregazione in un manicomio... perché era quello che, tutto sommato, nel suo animo sentiva di meritare.
Follia? Ma era veramente follia quella che gli aveva invaso la testa nei giorni precedenti? Suggestione, forse. Ma era decisamente inquietudine, paura, addirittura terrore quello che aveva provato. E che stava ancora provando. Forse era davvero solo suggestione. Ma forse, molto più verosimilmente, aveva sollevato una polvere che mai avrebbe dovuto essere sollevata, aveva varcato una soglia che mai avrebbe dovuto nemmeno trovarsi sulla sua strada, una soglia che non era affatto qualcosa di razionale e tangibile come quel confine di stato che aveva appena superato. Era la soglia tra due mondi, questo almeno l'aveva capito. Lui l'aveva superata e non poteva più invertire il suo cammino, perlomeno non ripercorrendo fisicamente i propri passi.
Soltanto quando avrò narrato per intero la mia storia, i lettori potranno dare il giusto peso ad ogni mia dichiarazione, correlarla con gli eventi noti, e chiedersi come avrei potuto agire diversamente dopo essermi trovato dinanzi alla prova di quell'orrore: quella «cosa» sulla soglia della mia casa.(2)
Ecco, si sentiva come quell'altro personaggio del suo scrittore preferito. Cos'altro avrebbe potuto, o dovuto, fare? Doveva seguire il suo istinto e partire.

E così aveva fatto. Aveva mandato un messaggio a un suo vecchio amico blogger, uno di quei tizi con cui si scambiano spesso opinioni sui temi più disparati ma che, e qui ebbe un fremito, non si conoscono mai veramente sino in fondo. Quello che sapeva di Lucien era che era uno dei pochi, se non l'unico, al quale avrebbe potuto rivolgersi in un frangente come quello. Senza contare che era francese, proprio come la versione originale di quel libro dalla copertina completamente gialla che aveva avuto la malaugurata idea di acquistare su quella dannata bancarella. E senza contare che Lucien si interessava di libri antichi, li raccoglieva, li collezionava, li catalogava; sembrava che nulla potesse sfuggirgli in quel mondo denso di misteri che chiamava, ironicamente, "biblioarcheologia".

Titolo originale: "Le Roi en Jaune", riportava la copertina interna della sua copia, "Traduzione di F.B.S.; Finito di stampare nell'ottobre 1910 presso le officine grafiche di F.". Non aveva molti indizi da seguire, ma perlomeno conosceva il titolo originale del libro, visto che il misterioso editore si era dimenticato (o aveva evitato di farlo di proposito) di mettere un qualsivoglia titolo in copertina.
Iniziare la sua ricerca dalla Francia gli era quindi sembrato ovvio, così come coinvolgere il suo amico. Non gli aveva tuttavia accennato nulla delle vere ragioni della sua visita, che aveva spacciato come un puro e semplice gesto di cortesia. Aveva la necessità di cogliere il suo sguardo nel momento in cui avrebbe posato dinanzi ai suoi occhi la sua copia del "Roi": gli sarebbe bastato anche il più piccolo battito di ciglia, la più insignificante ruga sulla fronte, la minima incertezza nella regolarità del respiro per capire che ciò che gli aveva attraversato la strada non era un semplice gioco della sua immaginazione.
Ecco, era esattamente questo che avrebbe fatto, e prima ancora di chiedergli informazioni su quel misterioso volume. Se Lucien fosse rimasto impassibile, beh, allora questo gli avrebbe fatto capire che probabilmente aveva soltanto gettato via il suo tempo (e forse anche le poche certezze della sua vita). In caso contrario, in qualsiasi altro caso, si sarebbe invece aperto uno spiraglio di speranza. Sempre se quella cosa, qualunque cosa fosse, si poteva chiamare speranza. 
Sfogliò le prime pagine del "Roi en Jaune" fino a quel passaggio che fin dall'inizio lo aveva attirato: "Lungo la spiaggia onde di nubi si frangono, i Soli gemelli s’affondano nel lago"(3). Poi rapidamente saltò a quell'altro passaggio: "Io stesso sono la maschera, la maschera pallida. Io sono il fantasma della verità. Provengo da Alar."(4). Sarebbe stato interessante capire se anche Lucien avrebbe notato la curiosa somiglianza con un particolare brano di "Whisperer in Darkness" di H.P. Lovecraft: "Ed Egli assumerà le sembianze dell'uomo, la maschera di cera e la veste che nasconde, ed Egli discenderà dal mondo dei Sette Soli"(5). L'avrebbe fatto? Avrebbe notato la somiglianza? Fu fantasticando sui quegli strani Soli che il sonno lo vinse. Quanti erano quei Soli? Due? Sette? Molti di più? I dischi dorati della sua immaginazione presero a ruotare vorticosamente nel suo cervello, pulsando, contraendosi per poi accrescere nuovamente, distendendosi fino a impadronirsi dell'intera volta celeste. Era stanco, troppo stanco, troppo...
Si svegliò che era appena passata la mezzanotte. Si svegliò appena in tempo per accorgersi che il convoglio si era fermato e che quella era la sua destinazione. "Bienvenue à Arles", recitava il cartello, "Bienvenue à Arles, département des Bouches-du-Rhône, Population municipale: 52.566 hab.".
CONTINUA?
(1-5) H.P. Lovecraft, The Whisperer in Darkness, 1930
(2) H.P. Lovecraft, The Thing on the Doorstep, 1933
(3) Robert W. Chambers, The Repairer of Reputations, 1895  
(4) Robert W. Chambers, The Mask, 1895


Vincent van Gogh - La Nuit étoilée - Juin 1889 - huile sur toile

Una montagna di Liebster

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Strana forma di vita questo Liebster Award. Qualcuno che sia un po’ più qualificato di me dovrebbe fare uno studio scientifico per capire come sia possibile che il Liebster, dopo essere apparso sotto forma di un banale starnuto su un blog lontano anni luce, nel giro di un paio di settimane riesca a mettere in ginocchio tutta la blogosfera. Il Liebster prosegue violentissimo per circa un mese e poi, pian piano, si esaurisce fino a svanire nel nulla. Quando infine pensi che sia stato debellato, eccolo tornare più virulento che mai.
Ho notato che il ciclo completo (incubazione, infezione, latenza) dura circa dodici mesi, per cui teoricamente basterebbe un’iniezione antinfluenzale, fatta al momento opportuno, per rimanerne immuni. Oppure bisognerebbe avere più di 200 lettori iscritti al blog. Ma anche in quel caso, come del domani, non v’è certezza.
Andando a memoria mi pareva di ricordare che il virus Liebster, sotto una forma leggermente diversa, mi avesse attaccato per la prima volta già agli albori del blog, per poi ripresentarsi massicciamente nel tempo. In realtà, dopo essere andato a controllare, The Obsidian Mirror non è mai rimasto troppo coinvolto. Anzi, direi che l’unica traccia sul blog risale al lontano ottobre del 2012, quando fui colpito da una doppietta. Poi nient’altro, anche se ciò non significa che io li abbia onorati tutti attraverso la scrittura di un intero post di senso compiuto (a volte è più facile e veloce rispondere nei commenti dell’untore di turno). C’è anche stata, per dover di cronaca, una fugace apparizione su Obsploitation nel maggio di due anni fa, ma quella è un’altra storia.
Quest’anno, sorpresa delle sorprese, il Liebster Awardè stato assegnato a questo blog ben sette volte! Si rende quindi indispensabile un pensiero particolare per coloro che si sono ricordati di me. Ringrazio quindi pubblicamente, senza alcun rancore, Massimiliano, Ariano, Ivano, Luz, Orlando, Max e Elisa (in prefetto ordine di nomination). Visto che mi si chiede di rispondere a ben 67 domande (11 ciascuno tranne Elisa che, bontà sua, me ne ha fatta una sola), salterò tutto il saltabile: non scriverò perciò undici ulteriori cose di me (che altro potrei scrivere?) e non nominerò nessun altro blogger, interrompendo così, spero definitivamente, questa catena. D'altra parte, i blog che meriterebbero una nomina da parte mia sono ben più di undici, e lasciarne fuori alcuni sarebbe stato molto difficile. Bando alle ciance e tiriamoci su le maniche. Pronti per le risposte? Via!

Domande di Massimiliano 
1. Definisciti in una parola. Incoerente.
2. Il libro che ti ha cambiato la visione del mondo. Giorgio Manzini, Una vita operaia
3. Quando hai capito di essere cresciuto/a? Non sono ancora del tutto cresciuto. So’ pischello inside. 4. Cosa ami di te stesso? L’incoerenza.
5. La parola o la frase che non vorresti mai aver pronunciato. Rifletto sempre attentamente prima di esplicitare il mio pensiero. Rimpiango, piuttosto, di aver tante volte taciuto quando invece era il momento di esprimermi.
6. La storia che vorresti raccontare ma che ancora è uno spiritello vagante. Non ce n’è una in particolare. Ho tante idee, ma ne subentrano sempre di nuove e quelle vecchie le dimentico prima di concretizzarle (cfr. risposta alla domanda n’1).
7. Perché scrivi? Pasticciare un blog non è mica scrivere!
8. Sei credente? Non nel senso comune del termine.
9. La parolaccia che ti piace di più pronunciare? Merda. Ma non è che mi piace…
10. Tre ingredienti del romanzo perfetto, solo tre. Tre ingredienti son tanti! Finirei per scrivere tre ovvietà. Ne dico solo una (di ovvietà): la capacità di intrigare al punto da far dimenticare di mangiare, bere, dormire…
11. Quanto ti sei rotto le palle nel rispondere a queste domande assurde? Ma che dici? Mi piace tantissimo rispondere a queste domande. ^_^

Domande di Ariano
12. Cosa c'è alla fine dell'arcobaleno? Non saprei, ma so per certo cosa (chi) mi aspetta sul ponte dell’arcobaleno!
13. Esistono gli alieni? Certo che esistono! Lo sanno tutti! E sono anche uguali a noi! Solo che loro non perdono tempo a chiedersi se esistono i terrestri.
14. Qual è la città più bella in Italia? Quella che non ho ancora visto.
15. Ti piace il tuo nome di battesimo? Assolutamente no… ma era il nome di mio nonno, per cui un po’ ci tengo. E poi, nella sua forma abbreviata, non è così male.
16. Uno scrittore che detesti? Detestare? Addirittura? Uno scrittore si può tutt’al più snobbare, e io modestamente ne snobbo a migliaia.
17. Se si andasse sotto il parlamento coi forconi e si montasse la ghigliottina per decapitare tutti i politici, parteciperesti? Non credo sia quella la soluzione. Le porcate che fanno i politici sono in fondo le stesse che facciamo noi ogni giorno nel nostro piccolo. Inculare o meno il prossimo, diciamocelo chiaramente, è solo una questione di possibilità. Loro ne hanno solo di più…
18. La inventeranno un giorno 'la macchina del tempo'? Che cagata! Certo che no!
19. Prosciutto crudo, cotto o mortadella? Non posso proprio scegliere il salame?
20. La cosa più folle che hai mai fatto? Da ragazzo andai a Modena da solo a vedere i Pink Floyd, persi il treno del rientro, e rimasi fuori tutta la notte senza avvisare a casa.
21. La cosa più assurda alla quale hai mai creduto? Non posso dirlo apertamente perché mi attirerei addosso le ire del Vaticano.
22. Meglio vincere un milione di euro o una rendita vitalizia da duemila euro al mese? Tutti e subito. 

Domande di Ivano 
23. Tra le culture extra-europee tuttora esistenti nel mondo quale vi attrae di più? In generale, tutte quelle asiatiche e in particolare, mi pare ovvio, quella giapponese.
24. A istinto, quale pensate che sia il vostro spirito animale o animale totem? Lo scoiattolo.
25. Qual è la vostra poesia del cuore, se ne avete una? Tutte quelle di Charles Bukowski. Una in particolare? “So you want to be a writer”…
26. E la vostra canzone del cuore?Racing in the street, in ricordo di quando non si aveva un cazzo da fare se non passare le sere in macchina con gli amici, girando a vuoto come la merda nei tubi.
27. Sempre in tema musicale, quale sarà la prossima rockstar a tirare le cuoia nel 2016? Non vorrei menare sfiga a nessuno ma, se è vera la legge dei grandi numeri, presto o tardi uno degli Stones stenderà i piedi.
28. Domanda tris: L'ultimo libro che avete letto? Quello in corso di lettura? Il prossimo che avete in programma di leggere? L’ultimo è stato “Il cabalista” di Amanda Prantera, quello in corso è “Flatlandia” di Edwin Abbott Abbott. Il prossimo non lo so ancora (mica lo decido prima).
29. Domanda tris n. 2: Quale personaggio letterario vorreste avere inventato voi? Quale cinematografico? E quale dei fumetti o cartoni animati? Nell’ordine: Dracula, Norman Bates e Diabolik.
30. Se vi fosse concesso di realizzare un film tratto da un romanzo, quale opera letteraria scegliereste di adattare per il grande schermo?Il re in giallo” di Robert W. Chambers.
31. Qual è il libro che vi è più piaciuto ricevere in regalo nella vostra vita?Viaggio al termine della notte” di Céline. Erano secoli che gli ronzavo attorno, ma costava 50.000 lire e mi rugava spenderle per un dannato libro quando la narrativa all’epoca costava in media 10.000 lire. Fai conto che è come se adesso un romanzo costasse 100 euro. Ho atteso almeno dieci anni un’edizione economica che non è mai arrivata. Un giorno poi Simona me lo ha regalato…
32. Per conoscere nuovi blog e blogger mi affido soprattutto a...? ...al blogroll di Ivano Landi.
33. Chiudo in bellezza, con la domanda intelligente: Vi trovate, per vostro piacere o per penitenza, a volere o dovere indossare i panni della cosplayer. Che personaggio scegliete?Ryuk, lo shinigami del Death Note.

Domande di Luz 
34. Il primissimo libro che hai letto. Credo sia stato “Padre Padrone” di Gavino Ledda. Almeno così avevo risposto qui anni fa a una domanda identica a questa.
35. Qual era il tuo sogno da bambino? Lo hai realizzato almeno in parte? Da bambino sognavo di guidare i treni, ma poi ho capito che avrei potuto aspirare a qualcosa di più. A conti fatti era meglio se guidavo i treni.
36. C'è un insegnante che ha segnato un momento importante della tua vita scolastica o universitaria? La mia maestra delle elementari. Dio, non ricordo nemmeno più come si chiamava…
37. I tuoi familiari condividono con te la tua esperienza di blogger? Simona non solo condivide, ma partecipa entusiasticamente, pur preferendo rimanere nell’ombra. Invece nessuno della mia famiglia “allargata” sa dell'esistenza del mio blog e, visti gli argomenti che tratto, forse è meglio così :)
38. Qual è il "viaggio impossibile" che compi puntualmente nei tuoi pensieri? Un viaggio nella città di Perla, capitale dell’impero del sogno immaginato da Alfred Kubin.
39. Da 1 a 10 quanto ti piace il tuo carattere? Una sinusoide che oscilla tra 1 e 10 (cfr. risposta alla domanda n’1).
40. Quanto conta l'amicizia per te? Ha valore un solo tipo di amicizia, quella che ti danno certe persone che magari non incontri da anni, ma che potrebbero mollare tutto e precipitarsi da te se solo gli telefonassi.
41. Sei un tipo sportivo? O irrimediabilmente pigro? La seconda.
42. L'ultimo modello di pc che hai acquistato? Posso dirti la marca ma giuro che non ho idea del modello. Non saprei nemmeno dove andare a leggerlo. E comunque questo sul quale scrivo è il laptop aziendale che mi porto a casa. Non l’ho comprato.
43. Se tu fossi un libro, saresti… Un vangelo apocrifo.
44. Quanto tempo avrai impiegato a scrivere questo post? :-) Mi sono dato un quarto d’ora come tempo massimo, ma sono già passati 12 minuti e ho ancora 23 domande da evadere.

Domande di Orlando Furioso 
45. "Politicamente corretto": sì o no? Siamo cresciuti benissimo anche senza queste stronzate.
46. La tua ricetta per risolvere la "crisi del fumetto". Irrisolvibile. Abbiamo sbagliato tutto trent’anni fa, quando siamo passati dal Topolino al Commodore 64. Le nuove generazioni sono il parto di quell’errore.
47. Abbiamo (ancora) bisogno di Miti? Certamente. Il problema è capire a quali miti affidarsi. I divi della televisione e dello sport non valgono.
48. Quale divinità vorresti essere? (valgono tutte le mitologie) Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn!
49. Come far appassionare gli italiani e le italiane alla lettura? Un blackout nucleare che spenga per sempre questi dannati smartphone.
50. Consigliami il tuo libro preferito. Uno solo? “The Rosy Crucifixion” di Henry Miller (in un certo senso te ne ho detti tre).
51. Convincimi ad ascoltare il tuo disco preferito! Non voglio convincerti. Tutt’al più posso consigliarti un classico: “Concert”, il live dei Cure del 1984.
52. Si può cambiare idea? Solo i morti e gli stupidi non cambiano mai opinione.
53. Si può cambiare idea sulle cose fondamentali? Si può cambiare idea su tutto. Solo la fede calcistica è immodificabile.
54. Nostalgia? Canaglia.
55. Perché solo i blogger commentano sui blog? Perché il web è strutturato in compartimenti stagni. Altro che rete globale. Niente di strano, visto che l’intera nostra società si basa fondamentalmente su questo.

Domande di Max Citi 
56. Quando hai smesso di avere paura del buio? Mai avuto paura del buio.
57. In una serata di solitudine che cosa fai? Mi attacco al blog.
58. Preferisci gli scacchi o la dama? (Attento, questa domanda rivelerà la tua weltanschauung) Scacchi. E al diavolo la weltanschauung, qualunque cosa sia.
59. Hai ancora i tuoi giocattoli di quand'eri piccolo o li hai gettati via? A un certo punto i miei giocattoli sono spariti nel nulla. Sono ancora qui che mi chiedo come sia successo.
60. Hai mai provato a svuotare una penna bic e soffiarci dentro tenendola dritta sotto il labbro inferiore? Sai fare più di una nota? Ah sì, lo facevo spesso, ma non mi è mai uscita nessuna nota. Ho sempre rimediato alla frustrazione che ne derivava infilando nella cannuccia una pallina di carta ben compattata di saliva.
61. Quando sei al telefono scarabocchi? Disegni? Prendi appunti? Mimi ciò che non puoi/vuoi dire? Vedi immagine in fondo al post.
62. Finisci tutti i libri che inizi? Non ho firmato nessun contratto, di conseguenza se il libro mi ammorba lo pianto lì.
63. Hai l'abitudine di fare solitari a carte? Noooo! Che noia!
64. Ti è capitato di perderti nella tua città? Ho un senso dell’orientamento sviluppatissimo. Non mi perderei nemmeno in mezzo al bosco. Che ci vuoi fare, è una deformazione professionale.
65. Ti è capitato di prendere una posizione estrema – in politica, nella vita di ogni giorno, sul lavoro – e di aver mentito spudoratamente per difenderla? No, preferisco agire sotto copertura.
66. L'ultima bugia l'hai raccontata esattamente... Pochi minuti fa, rispondendo alla domanda n’ 11. 

Domanda di Elisa
67.Qual è il film più strano che hai visto? Ce ne sarà pure uno che è sembrato strano persino a te... Ho visto un sacco di roba "strana", come puoi di certo immaginare, ma in questo momento me ne viene in mente uno solo in particolare. Te lo dico solo se mi prometti di non correre a cercarlo (e comunque tanto non lo trovi). Si intitola “Mondo Weirdo – A Trip to Paranoia Paradise” (Carl Andersen, Austria, 1990), una pellicola surrealista farcita di sangue, violenza e pornografia, che si rifà qua e là ad Alice in Wonderland e al mito della Bathory. Non so se "strano" sia l'aggettivo giusto. Sicuramente è inguardabile. Anzi, diciamo pure che fa vomitare.

61. Quando sei al telefono scarabocchi? Disegni? Prendi appunti? Mimi ciò che non puoi/vuoi dire? 

Orizzonti del reale (Pt.7)

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LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Nell'articolo precedente ho introdotto una delle figure chiave di questa parte del progetto Orizzonti, quella di John Marco Allegro. Allegro era un filologo britannico che nel 1953 fu invitato a far parte del gruppo di studiosi che si stava formando per esaminare e decifrare i Rotoli del Mar Morto. Era un gruppo internazionale che, fino a quel momento, contava solo ecclesiastici o comunque membri di fede cattolica. Allegro invece non era praticante, perché pur essendo cresciuto in una famiglia anglicana ed essendo perfino stato un Pastore Metodista per qualche tempo, si era poi allontanato dalla religione e si dichiarava agnostico. Fu forse per questo che si permise di spingersi più in là degli altri nelle interpretazioni etimologiche delle parole in cui incappava nello studio dei testi antichi.
Allegro riteneva che la scrittura servisse per tramandare, mascherandoli, concetti e misteri che si voleva celare all'uomo comune per riservarli a una casta di “eletti”, gli iniziati. Riteneva che la parola scritta non fosse solo un simbolo, ma l'espressione di un'idea sviluppatasi all'interno di una determinata area etnico-sociale, utile quindi a comprendere il contesto filosofico preistorico che l'ha generata. E poiché il linguaggio liturgico è essenzialmente conservativo, ovvero tende a mantenere al suo interno le parole nel loro senso originale, primitivo, lo studio della religione dovrebbe sempre basarsi sulla filologia. La sua ricerca gli permise di rintracciare all'interno di parole semitiche e indo-europee una radice (fonema) riconducibile a una lingua più antica, in effetti la più antica lingua scritta scoperta dall'uomo e che costituisce un vero e proprio ponte fra quei ceppi linguistici, il sumero; i suoi studi si focalizzarono quindi sull'Antico e Nuovo Testamento, i due testi fondamentali del Cristianesimo, rintracciandone le basi in una cultura pre-ellenica e pre-semitica: la cultura sumera. I Sumeri, com'è noto, non erano monoteisti… ma questa, come vedremo, è solo una parte del problema.
A questo punto è però doveroso fare un altro passo indietro. Non avevo intenzione di dedicare troppo spazio alla storia di John Allegro, ma mi sono reso conto che è importante descrivere anche a grandi linee come e in che contesto “Il fungo sacro e la croce” venne alla luce; credo che ora più che mai occorra contestualizzare la vicenda e far conoscere i suoi protagonisti a coloro che non ne avessero mai sentito parlare. La storia, comunque, è molto interessante, anche se la versione che sto per proporvi è un po' semplificata (una fonte diretta di informazioni è il sito www.johnallegro.org, ma potrete trovarne anche altrove): trasuda sudore, passione, intrighi e menzogne… come una telenovela. O quasi.

John Allegro apparteneva a una famiglia piccolo borghese dai mezzi limitati: il padre, uno stampatore, non potendo forse garantire al figlio una carriera scolastica decorosa, o per mero pragmatismo, lo spinse a cercare un’occupazione in una compagnia di assicurazioni, lavoro che svolse fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. A quel punto, John si arruolò in Marina. Questo costituì la prima vera svolta della sua vita, perché la nave su cui era di stanza venne inviata nel Mediterraneo e questo gli permise di venire in contatto con la cultura araba e scoprire una predisposizione naturale per le lingue. Inizialmente, però, sembrava che la sua vocazione fosse un'altra: il sacerdozio. Già durante la guerra aveva ricominciato a frequentare la Chiesa Metodista, e una volta tornato in patria decise di intraprendere la carriera ecclesiastica. Fu un percorso a tempo determinato, perché scoprì ben presto che questa non faceva per lui; forse, chissà, già allora il suo spirito critico si rivelò più forte della fede, e non gli permise di accettare e interiorizzare le contraddizioni insite nei testi biblici e i loro tanti, troppi punti oscuri. Comunque sia, una volta deciso di abbandonare la facoltà di Teologia fu una scelta scontata per lui quella di intraprendere lo studio della Filologia: grazie a un fondo statale destinato agli ex combattenti poté iscriversi all’università di Manchester, dove dopo la laurea con lode si mise in lizza per un posto di assistente mentre prendeva un Dottorato di ricerca in lingue semitiche sotto l’egida del professor Godfrey Driver di Oxford, una personalità di spicco in quel campo.

Arriviamo quindi a quel fatidico 1953, l'anno in cui la facoltà di Oxford fu contattata da Gerald Lankester Harding, Direttore del Dipartimento delle Antichità giordano, che era alla ricerca di uno studioso di nazionalità britannica da inserire nel team internazionale, guidato da Padre Roland de Vaux, che avrebbe esaminato i Rotoli del Mar Morto. Driver era piuttosto in là con gli anni e aveva impegni pregressi, ma il suo promettente allievo John Marco Allegro fu ben felice di partire per Gerusalemme Est, allora situata in Giordania, per cogliere quella che doveva essere l'occasione della vita (e lo fu, sebbene fosse destinata a riservargli gioie e altrettanti dolori).
Allegro portò senza dubbio una ventata di entusiasmo e intraprendenza in quello che fino ad allora era stato un gruppo piuttosto omogeneo e “tradizionale” di studiosi. La ragione è da ricercarsi nel fatto che, come abbiamo visto, fra loro era l’unico laico e di conseguenza anche l'unico privo di appoggi religiosi, e oltretutto dotato di scarse disponibilità economiche: l'Università di Oxford lo finanziava, ma vivere in un paese straniero per mesi o anni può rivelarsi piuttosto dispendioso... Possiamo facilmente immaginare che, benché elettrizzato dall’opportunità insperata che gli era stata concessa, Allegro fosse forse più ansioso degli altri di terminare il proprio compito e tornare a casa nel più breve tempo possibile.
Allegro era conscio del fatto che il materiale a disposizione del team costituiva solo una parte dei reperti, che molti di questi erano ancora nelle mani dei beduini (che li cedevano a caro prezzo, spesso un pezzettino alla volta) e nuovi ne venivano scoperti ogni giorno, mentre il governo giordano assisteva impotente allo scempio, incapace di frenare il contrabbando. Per questo motivo, egli cercava di terminare le traslitterazioni e le traduzioni molto velocemente, nella convinzione che il lavoro potesse essere riesaminato con calma in un secondo momento, ma che in quella fase iniziale fosse più opportuno fornire immediatamente materiale per articoli e saggi. Il suo scopo (forse non lo era all'inizio, ma lo diventò) era quello di indagare le radici comuni delle tre grandi religioni monoteiste - Ebraismo, Cristianesimo e Islam - senza pregiudizi religiosi di sorta, e questo sarebbe stato possibile solo diffondendo le scoperte il più possibile a linguisti e altri addetti ai lavori, al pubblico - a chiunque fosse interessato, insomma, data la natura universale della materia.
Questo approccio gli costò caro quando, in seguito, cominciò a pubblicare dei saggi sull'argomento e la comunità accademica li stroncò definendoli poco accurati; inizialmente, però, tutti sembrarono apprezzare i sui sforzi per richiamare l’attenzione sulla ricerca e ottenere nuovi fondi. Questa instancabile attività esulava certamente dai suoi compiti, ma dal momento che nessun altro se ne occupava se n'era preso carico volentieri. Fu solo col tempo che cominciò seriamente a chiedersi come mai sembrasse l'unico all'interno del gruppo davvero entusiasta di partecipare al progetto.

John Marco Allegro
Allegro si stupiva di quanto tiepido fosse (o sembrasse) il coinvolgimento degli altri studiosi. Si convinse infine – lo si evince dai carteggi scambiati con i suoi colleghi nel corso degli anni - che nessuno di loro desiderasse realmente far sapere al mondo ciò che andavano scoprendo; che si fossero resi conto che la realtà che emergeva dalla lettura dei Rotoli non era conforme alla tradizione biblica e pertanto era inaccettabile, per se stessi prima ancora che per gli altri. Questi pensavano invece che lui si fosse spinto troppo oltre nel sottolineare i parallelismi fra la setta essena e il primo cristianesimo, nel sollevare scomodi interrogativi e nel gettare tutto questo in pasto al pubblico, e venne tacciato di essere un avido e un arrivista e di fomentare sterili polemiche. Col tempo, la frattura fra loro si fece insanabile.
Incompreso e solo, Allegro continuò comunque per la sua strada finché poté. Mentre si rivolgeva segretamente alla famiglia reale giordana per cercare di recuperare i Rotoli trafugati illegalmente dai beduini, si adoperava per cercare qualcuno interessato a riportare al pubblico le prime scoperte. Infatti, l’Università di Oxford, che avrebbe dovuto pubblicare un volume che nel tempo avrebbe racchiuso tutti i testi man mano resi disponibili, nicchiava, sebbene, come abbiamo visto, le trascrizioni - perlomeno quelle di Allegro - venissero prodotte a tempi record. Le istituzioni dei paesi a cui i vari membri del team appartenevano (Francia, Inghilterra, Stati Uniti) sembravano ugualmente poco interessate alle scoperte. Finì che Allegro contattò perfino la BBC. Ma andiamo con ordine.

Entro il 1956 John Allegro aveva già terminato integralmente il lavoro che gli era stato assegnato. Nel 1954 - lo stesso anno, ricordiamolo, in cui Aldous Huxley pubblicava “Le Porte della percezione” - egli era rientrato a Manchester e aveva cominciato la stesura di “The Dead Sea Scrolls” (che sarebbe stato pubblicato due anni più tardi), ma l’anno seguente era tornato in Giordania. Fu a lui che si dovette l’apertura dei famosi "Rotoli di Rame", lui a prodigarsi per scongiurare che l’antichissimo involucro che li sigillava non restasse danneggiato o distrutto: il College of Technology di Manchester propose un procedimento tramite il quale sarebbe stato possibile tagliare i Rotoli in strisce molto sottili da ricomporre poi come le tessere di un puzzle. L’autorizzazione dei responsabili del team però si faceva attendere e Allegro, frustrato, chiese personalmente al governo giordano di poter trasferire i Rotoli in Inghilterra per l’apertura. Nessuno poté opporsi e fu così che il primo di essi giunse a Manchester nel giugno del 1956. Il procedimento venne attuato con successo, rivelando una scoperta sensazionale: parte della mappa di un tesoro nascosto in varie località nei pressi di Gerusalemme e Qumran. Di che tesoro si trattasse, però, non era chiaro: per quel che se ne sapeva, avrebbe perfino potuto essere il famoso tesoro del Tempio scampato ai saccheggi del 70 dC.
Mentre l’invio del secondo Rotolo tardava, Allegro cominciò le trascrizioni e la traduzione del testo, che però fu poi assegnato per la correzione a un altro membro del team, Milik. Si concordò che, almeno in una prima fase, la scoperta restasse segreta, in modo che da non incoraggiare i cacciatori di tesori a devastare ulteriormente i siti e i reperti ancora da raccogliere. Allegro, che pure era d’accordo, concordò però con la BBC la realizzazione di una serie di interviste radiofoniche a tema. Non è chiaro se i responsabili delle ricerche fossero stati messi al corrente delle sue intenzioni o meno, anche se propenderei per la prima ipotesi, poiché i rapporti con De Vaux a quel tempo erano certamente tesi, ma non del tutto compromessi. Non ancora.

Nel corso di queste interviste, Allegro rivelò che dallo studio dei Rotoli era emerso che in seno alla comunità che li aveva redatti, e che avevano chiamato essena, esisteva una figura riconducibile a quella di Gesù, un Maestro di Giustizia prescelto da Dio che attraverso la sofferenza avrebbe ottenuto l'espiazione dai peccati e condotto i suoi seguaci alla grazia e che sarebbe risorto alla fine dei tempi. Qual è la novità? Semplice: il suo martirio, la crocifissione durante il regno di Alessandro Ianneo, lo collocava temporalmente almeno un'ottantina di anni prima del Gesù della tradizione, a riprova del fatto che in quell’area geografica esisteva una tradizione messianica precedente a quella i cui echi sono giunti sino a noi. La notizia ebbe una certa risonanza, ma la smentita arrivò secca e puntuale. De Vaux e il resto del gruppo lo accusarono infatti di aver male interpretato i testi, oppure di aver deliberatamente elaborato delle supposizioni non supportate da prove: in effetti, a quel tempo i testi tradotti non erano stati ancora pubblicati, anche se certo non per volontà di Allegro.
Dopo questi fatti, era inevitabile che il nostro venisse tagliato fuori definitivamente dal progetto anche quando finalmente il secondo Rotolo giunse in Inghilterra. Per fortuna, Allegro aveva già per le mani sufficiente materiale da poter dare alle stampe e nel giro di pochi anni pubblicò “The Dead Sea Scrolls” (1956) e “The People of the Dead Sea Scrolls” (1958). Entrambi i saggi erano corredati di fotografie dei Rotoli e dei siti che aveva scattato o fatto scattare personalmente.
Qualche anno dopo, appurato che del testo supervisionato da Milik non si vedeva nemmeno l'ombra, fu la volta del saggio “The Treasure of the Copper Scroll” (1962), in cui forniva la sua personale interpretazione sul contenuto dei Rotoli di Rame. Ancora una volta la sua posizione risultava diametralmente opposta a quella dei suoi colleghi: a suo avviso il tesoro menzionato nei Rotoli era reale, una convinzione ormai condivisa da molti altri studiosi seppur non supportata da prove, perché le ricerche archeologiche svoltesi finora sui luoghi dove si suppone che il tesoro sia stato sepolto si sono rivelate infruttuose.
In quegli anni Allegro tornò diverse volte in Giordania supportato da Re Hussein, che lo aveva insignito della carica di Consigliere Onorario del governo sui Rotoli del Mar Morto. Una carica prestigiosa, certo, ma priva di un vero potere decisionale e operativo. Quando il governo nazionalizzò i musei, alla fine del 1966, visti i buoni rapporti di Allegro con la famiglia reale le cose avrebbero finalmente potuto cambiare e la “dittatura” di de Vaux finire, ma… la Storia ci mise lo zampino. Dopo la Guerra dei Sei Giorni gli equilibri geopolitici del Medioriente erano mutati drasticamente, e con l'annessione di Gerusalemme allo stato di Israele i Rotoli del Mar Morto e il team che vi lavorava passarono sotto il controllo degli israeliani. Il sogno di John Marco Allegro giunse così al capolinea.
CONTINUA



L'estraneo nello specchio

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È completamente ossessionato dagli specchi, si è convinto che essi siano il passaggio di una non bene identificata entità maligna che sarebbe pronta ad attaccarlo o stronzate del genere. Beh, certamente un caso di schizofrenia degno di nota, anche se avere a che fare con soggetti psicotici dopo un po’ è meno interessante di come possa sembrare a inizio carriera. 
Non è la prima volta che mi capita di scegliere un libro a caso tra la vastissima offerta dei titoli di genere fantastico che, specialmente in questi ultimi tempi, sembra aver trovato una nuova linfa vitale. È stato il titolo, come potrete certamente immaginare, ad attirare la mia attenzione su questa breve raccolta di “novelle nere” a firma di Vincenzo Abate, e disponibile in vari formati a un prezzo pressoché irrisorio. A volte queste scelte casuali si rivelano delle perle, altre volte delle cocenti delusioni. Questo “L’estraneo nello specchio” si posiziona esattamente a metà fra questi due estremi, offrendo un numero di spunti interessanti sufficiente a convincermi a scrivere questo breve articolo. Vincenzo Abate, come recita la sua biografia in coda al volume, nasce nel 1984 a Cosenza. Grande appassionato di cinema e letteratura, è anche un cultore dei racconti di Edgar Allan Poe, Richard Matheson e H.P. Lovecraft. Collaboratore di cinefocus.it e biblon.it, Vincenzo esordisce nel 2011 con il romanzo noir "Il Faro della Coscienza" (scritto a quattro mani insieme a Giuseppe Oliva), edito dalla casa editrice Montecovello, e si ripropone con questo suo primo lavoro indipendente che pubblica all'inizio del 2014, in formato ebook, con la casa editrice Teomedia.
I diciotto racconti che compongono questa raccolta hanno come trait d’union l'indagine dei meandri più inesplorati dell’animo umano attraverso delle originali analisi psicologiche di individui di ogni genere, sesso ed età. La scelta di evocare lo specchio, fra gli oggetti di uso quotidiano quello che più di ogni altro rappresenta il perturbante in tutte le sue sfumature, non è affatto casuale: attraverso di esso ognuno di noi può raggiungere una dimensione inconscia alla quale non è possibile sfuggire. E così, mettendo in scena le vicende di personaggi completamente diversi gli uni dagli altri (padri di famiglia, uomini d’affari, sicari della malavita, ragazzine lesbiche, fino ad arrivare addirittura a vampiri e alieni), l’autore riesce a trovare un filo logico che, anche se necessiterebbe di qualche ulteriore puntello per sostenersi, tiene in qualche modo in piedi il tutto. 

Simpatica in particolar modo è l’idea di riutilizzare gli stessi nomi propri in più racconti e di lasciare dei personaggi anonimi, cosicché i ragazzini del racconto “I veri uomini non hanno paura del buio” possono essere immaginati adulti, molti anni più tardi, nel racconto “La vigilia di Ognissanti morirete tutti quanti”, mentre un equivalente del dottor Monroe, protagonista di “Protuberanza”, può essere ritrovato anche in “Ombre del passato”. 
Aldilà di ciò che può essere filtrato attraverso il mio piccolo preambolo, per quanto mi riguarda “L’estraneo nello specchio” si pone, come dicevo all’inizio, a metà strada fra l'eccellenza e il fallimento. Sono troppo criptico? Se è così, riformulerò il giudizio. È evidente che si tratta dell’opera di un giovane scrittore che, follemente innamorato della scrittura di Poe e Lovecraft, cerca in qualche modo di riproporla aggiungendo sagacemente alcuni ingredienti che se ne distacchino, tuttavia il risultato finale è in qualche modo deludente. Non perché globalmente gli intrecci o la scrittura siano sgradevoli, anzi, ma perché spesso li trovo fuori fuoco mentre sarebbe bastato veramente poco per elevarli al di sopra della media. 

Un ideale esempio di ciò che intendo è il racconto “Il pericolo è nell’ombra”, che narra la storia di Eugene, un giovane uomo d’affari dalla vita ormai totalmente incanalata sulla strada del successo professionale, una vita per la quale tuttavia egli ha sacrificato praticamente tutto, non ultimo un matrimonio nato più dalla noia che da un sincero sentimento d'amore. Il racconto scivola via piacevole per diverse pagine attraverso le quali l’autore riesce a descrivere perfettamente il personaggio e a fare in modo che il lettore si immedesimi in lui, benché, come pare evidente, si tratti di una figura non del proprio positiva. Il racconto si sviluppa in maniera se vogliamo ancora più intrigante quando Eugene decide di staccarsi da tutto e da tutti, e di ritirarsi per una breve vacanza in una baita in mezzo ai boschi dalla parte opposta del paese. La sua intenzione era di trascorrere quei pochi giorni con un vecchio amico, uno dei pochi che considera tali, ma stranamente quest’ultimo non si presenta all’aeroporto e il nostro Eugene si rassegna a partire da solo. Peccato che l’amico abbia un valido motivo per dargli buca, essendo stato pugnalato alla gola nel suo appartamento proprio la notte prima della partenza... Gli ingredienti a questo punto ci sono tutti: una vacanza solitaria in un luogo sperduto e un’omicida che, dopo aver colpito una prima volta, sembra avere tutte le intenzioni di colpire di nuovo. Purtroppo, il castello di carte fino a quel punto sapientemente costruito va infine in frantumi a causa di uno spiegone completamente fuori luogo che azzera tutta la suspense. 
Altri racconti decisamente più interessanti nello sviluppo sono però poco originali, come per esempio “Il colloquio”, ove viene ripreso il tema del vampiro in chiave moderna, assegnando ai potenti di oggi (industriali, politici) l’eredità del principe delle tenebre: come ragionamento non fa una grinza, però non si può dire che sia un tema nuovo, dato che lo ha già espresso tale e quale il regista Corrado Farina nel lontano 1971 nel suo fondamentale “Hanno cambiato faccia” (a scanso di equivoci, voglio comunque considerare quello di Abate un omaggio al regista piemontese). Sorvolo di proposito sulle storie di follia, specie se narrate in prima persona, in quanto il mio giudizio non sarebbe obiettivo (avendone lette centinaia, tutte praticamente indistinguibili l’una dall’altra), e passo decisamente al meglio di questa piccola raccolta perché, se da un lato è sacrosanto sottolinearne i piccoli difetti, dall’altro è altrettanto sacrosanto elogiarne i tutt’altro che trascurabili pregi. 
Paradossalmente, nel lavoro di Vincenzo Abate i momenti migliori sono quelli che meno hanno a che fare con il fantastico e il soprannaturale. Tra questi non posso esimermi dal citare “Nascondino”, il punto senza dubbio più alto dell’intera opera. Mi risulta difficile parlarne senza spoilare, ma va detto che l’autore è riuscito a confezionare un piccolo gioiello, dimostrando un’abilità narrativa degna dei suoi celebri ispiratori. Si narra della piccola Anna, una bimba di otto anni, e di suo nonno Adriano, un uomo di una saggezza che tocca il cuore. Nel corso di un pomeriggio di primavera, che i due decidono di trascorrere ai giardini pubblici, il nonno propone alla piccola di giocare a nascondino. Ma questo in realtà è tutt’altro che un gioco, come scopriremo a poco a poco nel procedere della lettura, ove vedremo la piccola Anna (e il nome scelto è tutt’altro che casuale) divenire protagonista di un avvenimento che non riuscirà mai a comprendere fino in fondo. Noi lettori cominciamo invece a comprenderlo a poco a poco, saggiamente imbeccati dall’autore che, in questo caso, di dimostra abilissimo a centellinare gli indizi e a trascinarci sino all’ultima riga in un crescendo di pathos indescrivibile a parole. 

Notevole è anche “L’inferno esorcizzato”, un’interessante riflessione sul genere umano mascherata da racconto. Con la scusa di inviare un fotoreporter a immortalare, in totale segretezza, le atrocità del regime di Pyongyang, l’autore ci mette di fronte ai nostri pregiudizi nei confronti di coloro che, ai nostri occhi, sono sempre e irrimediabilmente diversi. Una volta screpolato il muro che tiene nascosti i sentimenti di questi uomini, allora un intero mondo di colori e di nuove conoscenze può spalancarsi dinnanzi ai nostri occhi. È come assistere a un meraviglioso miracolo, il sentire che anche se vivi in una realtà diversa e molto distante gli esseri umani sono in un certo senso tutti fratelli, pronti a riconoscere nel sorriso di ognuno quella gioia e quel rispetto che un giorno porterà il mondo intero a vivere in armonia. Questo testo ci pone di fronte a un interrogativo che tutti noi, chi più chi meno, tendiamo sempre a snobbare. Da che parte si trova il Male? È sempre dall’altra parte della barricata, fra le persone che non conosciamo, oppure fa parte di noi, di tutto il genere umano? La risposta sembra ovvia, ma evidentemente non lo è abbastanza. Non prendetelo però come il classico messaggio buonista portato avanti dai soliti stolti, specie di questi tempi dove il mondo in cui viviamo è minacciato da ogni parte da fanatismi di tutti i generi, siano essi religiosi o laici; prendetelo invece come un messaggio di positività che cerca di ricordarci che la follia di pochi singoli non può e non potrà mai sopraffare il desiderio di pace della maggioranza silenziosa. La speranza del genere umano non è morta, essa è più forte di qualsiasi radicalismo, di qualsiasi statalismo, di qualsiasi fanatismo. 
Significativo, sempre per rimanere in un tema di attualità, è infine il racconto “Un’altra possibilità”, nel quale si affronta l’apparentemente irrisolvibile problema del gioco d’azzardo, una mania, anzi una patologia, che ha distrutto migliaia di vite in tutto il mondo. Per quanto mi riguarda ho una certa idea sull’argomento, avendo assistito con i miei occhi allo sbriciolarsi della vita di un amico d’infanzia proprio in questa maniera. Non ne ho mai capito la ragione, non ho mai capito quali fossero gli stimoli, ma ne ho visto i risultati. L’autore di “L’estraneo nello specchio” giunge alla conclusione che “la vita è sempre pronta a offrire ai suoi protagonisti un’altra possibilità”… con cui sono d’accordo solo in parte: ci sono casi in cui la vita non è così generosa nei confronti dei suoi “clienti” ma, aldilà delle nostre opinioni e delle nostre esperienze, è comunque positivo che si parli anche di questo, soprattutto in un contesto così distante dai soliti trafiletti relegati nelle pagine interne dei quotidiani.
In questa raccolta troverete diciotto racconti che si leggono rapidamente, nell’arco di una sera o due. Alcuni sono piccoli capolavori da incorniciare (anche se non vorrei abusare del termine), altri grossi scivoloni da dimenticare. Nel complesso, una piacevole compagnia. 

The Obsidian Golem

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Mosso dall'esigenza di raccontare una storia, a cui ho potuto assistere a seguito dei miei viaggi nello spazio/tempo, vi offro un'epopea che narra di un essere che ha il fardello di esistere per portare a compimento una missione: il Golem di Ossidiana. Del suo lungo e impervio viaggio, tra sentimenti apparentemente dimenticati, tra valori per i quali ci si giocherebbe l'esistenza, tra le speranze e le relative conseguenze, tra esistenze che volenti o nolenti si intrecciano tra loro, perché tutti sono... come contenitori entropici che collidono evitandosi. Il mio unico fine è di lasciarvi un'esperienza quanto più possibile immersiva. Ho assistito a questa vicenda nascosto nei riverberi più oscuri e ho deciso di riproporvela attraverso l'occhio di OG, mostrandovela, negli "atti" più salienti. Abbandonate ogni illusione e siate consapevolmente contenitori entropici. Non racconto per rispondere alle vostre domande, ma per farvi vivere in un'estetica anomala i contenuti che da sempre vi appartengono. Il loro spazio/tempo, invece non vi appartiene. 

Con queste parole esordisce Arallū, il nuovo misterioso autore estratto dall'inesauribile cilindro della dinamicissima Hollow Press, grazie alla quale ho già avuto modo in passato di scoprire gente come Gabriel Delmas, Shintaro Kago o Paolo Massagli. Il mio approccio a questo genere di arte visiva, come immagino sia ovvio per chi se ne intende davvero, è ancora molto acerbo e spero mi si perdonerà se anche questa volta mi troverò a usare parole non del tutto consone.
Ho detto "misterioso", riferendomi all'autore, perché non ho trovato assolutamente nulla in rete che mi possa aiutare a dare un volto a colui (o colei) che si nasconde dietro lo pseudonimo Arallū. Sull'opera che andremo tra breve a scoprire troviamo semplicemente scritto che "Arallū is a mind", il che potrebbe addirittura farci temere che l'autore non esista veramente sotto forma umana. Lo pseudonimo Arallū, con la ū scritta proprio in quel modo, non aiuta nemmeno a identificarne la nazionalità, sebbene mi pare abbastanza probabile che possa essere europeo (se non addirittura italiano). Ma in fondo, a pensarci bene, ci interessano davvero questi dettagli? Posso solo dirvi che Arallū rappresenta il nome babilonese e assiro del regno dei morti sul quale regna la dea Ereshkigal, che sola può consentire l’ingresso delle ombre nella città infernale, ma non credo che questo possa aiutare a svelare l’arcano. Può al contrario aiutarvi a entrare nel mood di questa nuova graphic novel dal curioso titolo di The Dim Reverberation of the Chaosholder, il cui primo capitolo (questo che stiamo vedendo oggi) è sottotitolato con un A Crippled Baby ‘n’ the Obsidian Golem, Towards the She-Outcast davvero difficile da ricordare. Poteva forse non attirare il mio sguardo quel Golem? Appunto.

Misterioso, o quantomeno abbastanza criptico, è anche il linguaggio utilizzato nell’introduzione al volume (“collidono evitandosi”, ” nei riverberi più oscuri”…) e, com’è ovvio, nelle didascalie. Ma… un primo capitolo, dicevamo. Il che ci lascia intendere che ci troviamo dinanzi a un'opera articolata, come quella siglata U.D.W.F.G. (sempre di Hollow Press) che abbiamo già avuto modo di sviscerare in più occasioni qui sul blog. La grande novità di quest'opera viene accennata dallo stesso Arallū nell'introduzione che avete letto in apertura, vale a dire che tutto qui è rappresentato dal punto di vista di OG (acronimo di Obsidian Golem, nel caso non si fosse capito). Ecco, qualcuno forse avrà pensato, non bastava la moda del POV al cinema? Beh, direi che la cosa è piuttosto diversa. Quando si sono sperimentati nuovi punti di vista sul grande schermo, solitamente quelli delle telecamere traballanti, il risultato è sempre stato piuttosto discutibile, se non altro perché l'effetto emicrania tende a prevalere. Su un foglio di carta, ben saldo nelle nostre mani, rimane solo il bello di questa originale forma di comunicazione. Il Golem di ossidiana è senza dubbio il protagonista ma, quasi con un pizzico di cattiveria da parte dell'autore, non riusciamo mai a distinguerne le forme, se non quelle delle sue appendici che, qua e là, riusciamo a intravvedere: il suo corpo ci appare perlopiù come un’ombra che si allunga, ora rassicurante ora minacciosa. Non solo non lo sentiamo mai parlare, ma nemmeno è chiaro se possa interagire in qualche modo con il mondo che lo circonda, essendo tutto il fascicolo, in buona sostanza, un lungo monologo di N'Tar, curioso animaletto il cui aspetto è un po' a metà strada tra il grillo di Pinocchio e il treppiedi di una reflex. Come potrebbe un golem fare qualcosa di vagamente senziente, d'altra parte? In fondo è fatto d'argilla, no? Anzi, avete ragione, questo qui è fatto di ossidiana, ma questo particolare non sposta poi di molto la questione. E così il nostro OG, e noi con lui che viviamo la scena con i suoi stessi occhi, ci facciamo trascinare dal quel mostriciattolo logorroico su e giù per lunghi corridoi alla ricerca di una via d'uscita da quella che scopriamo essere una "Grande Gabbia". Insomma il canovaccio, che comincia con un’evasione da portare a termine a ogni costo evitando i pericoli posti qua e là sulla via, sembra quello tipico di certe storie fantasy, ma né il personaggio che viene tenuto segregato né il suo liberatore hanno i tratti dell’eroe, anzi il minimo che se ne possa dire per ora è che siano entrambi piuttosto atipici. Dovremo attendere la prossima puntata per avere qualche dettaglio in più sulla loro vera natura e su quella di uno strano personaggio femminile che i due incontrano verso la fine del volume, oltre che sulla missione cui il Golem di ossidiana è chiamato. Non c'è molto di più da raccontare su questo primo "Chaosholder", se non che ci introduce in un mondo che, apparentemente, è una versione modernizzata o di immaginifica di quello in cui viveva il popolo mesopotamico a cui Arallū si è ispirato. Come sempre ciò conta di più è il disegno, il tratto, le geometrie per quali l'Autore sembra avere una potente predilezione. La qualità e la cura dei dettagli è quella tipica dei prodotti Hollow Press, questa volta superati da una stampa su carta "Tintoretto" impreziosita da piccoli tocchi di vernice semitrasparente, a evidenziare i particolari del disegno, già di per sé pregevolissimo, vergato su uno sfondo bianco piuttosto caldo.

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