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Orizzonti del reale (Pt.8)

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LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Il 1967 fu un anno cruciale per il Medio Oriente, perché in soli sei giorni lo stato di Israele combatté e vinse un conflitto armato contro Giordania, Egitto e Siria – la cosiddetta Guerra dei Sei Giorni, appunto - un conflitto prevedibile, scatenato da incomprensioni, rivalità mai sopite e una lunga serie di mutue provocazioni e scontri lungo le frontiere che perdurano ancora oggi. Le conseguenze, anche sul piano internazionale, furono moltissime e non serve che le riassuma io, ma fra quelle più sommerse legate alla presa di Gerusalemme Est (non dico minori perché no, per me non lo fu) vi fu l’inizio del “monopolio di stato” dei Rotoli del Mar Morto.
Ora che i Rotoli erano proprietà di Israele, anche il team di studiosi che lavorava alla loro decifrazione passò sotto il controllo del suo governo e le cose divennero, se possibile, ancora più complesse. In un momento storico così delicato, era ovvio che Israele non avrebbe di buon grado aggiunto alle dispute politiche quelle religiose, supportando una ricerca le cui derive rischiavano di compromettere i propri rapporti di “buon vicinato” con il Vaticano e le altre nazioni. Inoltre, indagare le radici del cristianesimo poteva mettere in discussione anche le radici dell'ebraismo. Insomma, forse nessuno più di Israele poteva (può) avere interesse a tener celato il contenuto più controverso dei Rotoli.
I Rotoli vennero chiusi in un museo che attualmente è sotto il controllo dell'Israel Antiquities Authority (IAA), e il suo accesso venne strettamente limitato e regolato dalle autorità. La cosa di per sé non fu un male, anzi si può dire che fosse un passo necessario nell'ottica di conservare al meglio i Rotoli stessi, l'80% dei quali sono scritti su pelle o pergamena e il 20% circa su papiro: prelevati dalle caverne, un ambiente relativamente stabile che, nel bene e nel male, ne aveva permesso la conservazione per duemila anni, essi cominciarono a deteriorarsi e altri danni vennero fatti, se pure involontariamente, da coloro che li maneggiarono, li fotografarono, li sottoposero a datazione al carbonio 14 o ad altri esami. Bisognava ricreare un ambiente il più possibile idoneo, per temperatura e umidità, a preservarli.
Insomma vennero fatti molti sforzi per conservare i reperti, ma che dire della loro interpretazione? Il lato dolente fu proprio che da quel momento in poi solo le personalità gradite al governo israeliano ebbero la possibilità di continuare a lavorare al progetto, e le personalità gradite erano quelle che cercavano di inquadrare i Rotoli nella più convenzionale, tradizionale idea di Cristianesimo.
Oggi, dopo tanti anni, sono moltissime le pubblicazioni dedicate ai Rotoli del Mar Morto ed esiste anche un sito ufficiale, deadseascrolls.org, sul quale è possibile trovare molte informazioni interessanti. Attorno al 2007 si cominciò a rendere disponibili in una libreria digitale immagini a colori e infrarosse dei Rotoli; nacque la Leon Levy Dead Sea Scroll Digital Library, la cui tecnologia permette agli studiosi di continuare a consultare e studiare i Rotoli senza doverli materialmente maneggiare e ai profani come me di andare a curiosare. I Rotoli sono corredati delle trascrizioni e interpretazioni, note di commento ed eventuale bibliografia… un sogno, non è vero?

Purtroppo, quando tutto questo avvenne Allegro aveva ormai lasciato questo mondo da vent'anni. Egli non ebbe mai più la possibilità di mettere mano ai Rotoli, e oggi della sua vicenda si ricordano in pochi e sono ancor meno quelli che ne parlano.
A quel tempo la sua disillusione dovette essere profonda, ma fortunatamente non lo fermò, anzi probabilmente gli diede la spinta necessaria per lavorare a una summa di tutte le sue teorie sulle tre grandi religioni monoteiste, un'opera titanica resa possibile non solo dalla sua esperienza diretta con i Rotoli, ma anche dai suoi studi di Teologia. Ci si sarebbe aspettati che un lavoro del genere richiedesse anni e anni per essere messo su carta, verificato e corretto e infine pubblicato, ma non fu così. Pochi anni dopo, le cose presero una strana piega. Allegro si dimise dal suo incarico di docente presso l'Università di Manchester: aveva deciso di pubblicare subito un saggio introduttivo di 205 pagine, più un centinaio pagine di note, che altro non è che l'opera che noi oggi conosciamo come “Il fungo sacro e la croce”. Se il primo fatto fu tutto sommato comprensibile (il mondo accademico non avrebbe accolto di buon grado la divulgazione delle teorie di Allegro sul contenuto dei Rotoli e una sua iniziativa in tal senso avrebbe decretato la fine della sua carriera, questo era chiaro), il secondo resta un mistero, perché a quel punto sarebbe stato più opportuno per lui pubblicare la sua ricerca non solo con delle note tecniche, come difatti avvenne, ma anche con una panoramica più dettagliata sulla genesi delle sue idee in modo da farne, secondo la sua idea originale, una vera e propria teoria comparata delle religioni del Medio Oriente. Questo gli avrebbe spianato la strada con un editore accademico, per il quale l’opera, così com’era, era improponibile; e, difatti, a pubblicarla fu un editore non di settore, qualcosa che, almeno per chi non conosceva a fondo la vicenda, di certo non deponeva in favore di Allegro e della sua credibilità di studioso.
Una possibile spiegazione è che fosse stato (o si sentisse) minacciato e temesse di non avere il tempo materiale di completare il lavoro nei giusti tempi… oppure, come più d’uno insinuò poi, che fosse impazzito, ma ormai la verità è sepolta con lui nella tomba. Fatto sta che, verso la fine del 1969, fu la Hodder & Stoughton, fiutato l’affare, ad accaparrarsi i diritti del libro e a farne precedere la pubblicazione, avvenuta nel seguente mese di marzo, da un battage pubblicitario intenso che fece molto scalpore, cedendo poi al Daily Mirror (giornale di stampo decisamente scandalistico) i diritti per la pubblicazione a puntate, ma del solo testo senza le note.

Se l’obiettivo di Allegro era la fama, ebbene ora l’aveva, ma il passare del tempo dimostrò quanto fosse effimera. La comunità accademica, come previsto, rinnegò immediatamente lui e il suo libro: lettere aperte di smentita e di insulti giunsero alle redazioni dei principali periodici nazionali e internazionali già una settimana dopo l’annuncio. Nessun esame critico del suo lavoro fu intrapreso per molti anni, ma del resto non ce n’era bisogno: Allegro definì l'Antico Testamento una sorta di divertissement disseminato di giochi di parole e doppi sensi derivati dall'immaginario fungino e destinati agli adoratori del dio-fungo, e il Nuovo Testamento alla stregua di racconti popolari creati per ingannare consapevolmente i nemici della “setta di Cristo", insomma ce n’era abbastanza da scatenare l’ira dell’intero mondo cattolico. I suoi detrattori liquidarono le sue affermazioni come i vaneggiamenti, o peggio le menzogne, di un ateo provocatore e misantropo, avido di gloria e denaro. Come abbiamo visto, ad accanirsi contro il “Il fungo sacro e la croce” furono gli studiosi, mentre i vertici ecclesiastici, da lontano, restavano a guardare.

Allegro, se pure fu colpito dalle violente reazioni ricevute, non lo diede troppo a vedere e per difendere se stesso e il suo operato non lesinò interviste per spiegare le sue posizioni (ne troverete senz’altro sul tubo, se siete interessati). Certo il fatto che il saggio sia stato pubblicato in altre lingue senza le note a corredo non aiutò, anche se le vendite della versione originale inglese furono inizialmente lusinghiere. Senza le note, che comunque sono fruibili solo da esperti linguisti, il testo potrebbe davvero apparire come la strampalata accozzaglia delle teorie di un folle, anche se a mio parere nessuno che abbia un minimo di obiettività e senso critico potrebbe negare che sono, oltre che plausibili, anche parecchio suggestive. Ma c'è di più: se anche una sola di queste fosse vera, saremmo costretti a rivedere completamente le nostre idee sul Cristianesimo.

Proverò ora a illustrare alcuni contenuti del saggio, ma sarà un lavoro lungo e faticoso. Non pretendo di essere esaustivo, perché allora tanto varrebbe copiare qui il libro parola per parola, ma non mi va neanche di riportare solo le teorie e i fatti più “sensazionalistici” come ho visto fare da altre parti. Mi scuso fin d'ora se annoierò qualcuno, ma se così fosse non dovrete far altro che attendere pazientemente che abbia finito e riprendere a leggere da lì in avanti. Il progetto Orizzonti del reale non si esaurirà con il riassunto de “Il fungo sacro e la croce”, perché è un progetto virtualmente… infinito.

Sappiate comunque che Allegro non rinunciò alla saggistica nonostante quanto accaduto: dopo “Il fungo sacro e la croce” pubblicò infatti "The end of a road" nel 1970, "The chosen people" nel 1971 e "The Dead Sea Scrolls and the Christian myth" nel 1979, solo per fare qualche esempio, opere che nel bene e nel male non ricevettero le attenzioni riservate alla sua più famosa, ma che di certo gli regalarono qualche soddisfazione. Inoltre, il tempo gli ha parzialmente restituito ciò che gli era stato tolto, perché nel 2009 “Il fungo sacro..." è stato riedito dalla Gnostic Media – Research & Publishing (quella in mio possesso è proprio questa edizione), ma già in precedenza diversi studiosi si erano avvicinati alle tesi in esso contenute e stanno ora cercando di approfondirle e di diffonderle. Fra questi, il famoso linguista Carl A.P. Ruck di Boston, che di quell'edizione ha scritto la postfazione.

Quella de "Il fungo sacro e la croce"è stata per me una lettura catartica, perché mi ha permesso di dar voce a tutti i dubbi che mi hanno sempre attanagliato sulla letteratura religiosa. Nel testo ci sono moltissimi riferimenti a versetti della Bibbia e dei Vangeli dei quali l'autore propone un'interpretazione alternativa, pertanto non stupitevi se vi dico che dopo essere incappato in questo libro non sono MAI più stato capace di guardare a questi testi come facevo una volta, ovvero con animo un po’ scettico ma anche con un sentimento a metà tra curiosità e reverenza. Forse sbaglio, perché qualunque siano le idee che questi testi volevano trasmettere sono comunque l’espressione di un sentimento religioso che va rispettato (e difatti, finora non ho mai fatto mistero che, pur non avendo mai assunto psicoattivi, non ho nessun pregiudizio nei confronti di coloro che scelgono di farlo), però mi fa impressione pensare che la morale cristiana si sorregga su contenuti che, in verità, potrebbero esprimerne una totalmente diversa, per molti versi opposta. Questa naturalmente è la mia opinione personale e non sono qui per fare proselitismo, ma per farvi capire cosa intendo bisogna cominciare ad affrontare la parte più ostica della questione, ovvero il contenuto del saggio.
Allegro comincia con il proporre un’importante (per quanto ovvia) riflessione sul significato della religione, creata dall’umanità per cercare di appropriarsi dell'immenso potere della natura, o quantomeno di volgerlo a proprio favore. Questo potere era da intendersi come l’espressione di forze controllate da una forma di intelligenza extra-terrena, leggi a cui tanto il regno vegetale e animale che l’uomo devono sottostare. Per sopravvivere l’uomo necessita innanzitutto dei frutti di un suolo fertile, e rituali come i canti e le danze che simulavano lo scorrere del fluido vitale, che dà e reitera la vita, avevano proprio lo scopo di evocare l'acqua che, sgorgando dal suolo o dal cielo, bagna la terra. In altre parole, si potrebbe dire che la vita dipende dal matrimonio fra il cielo e la terra, un matrimonio che in termini fisiologici non è altro che un’unione sessuale: i riti orgiastici dovevano sollecitare, ricreandola, tale unione. Su questo, e sul ruolo della donna come prostituta cultica nei riti, spero di tornare in seguito se il discorso non divergerà troppo. Non per una lettura o giudizio morale che, in quel contesto, non avrebbero alcun senso, ma per riflettere sul meccanismo che ha spostato il ruolo della donna, in termini religiosi, da fulcro del culto ai suoi margini. Come fa notare Allegro, è innegabile che nei loro stadi embrionali le religioni moderne contenessero in sé in germe della discriminazione sessuale. I risvolti sociali di questa gerarchia religiosa, purtroppo, li conosciamo fin troppo bene…
Vitale era anche preservare l’equilibrio della natura, in base al quale ciò che veniva preso doveva essere reintegrato o compensato. Era questo lo scopo delle offerte di frutti della terra, ma soprattutto di animali e spesso anche esseri umani che venivano sacrificati nell’antichità: il sangue dei primogeniti, più preziosi e forti perché frutto del potere ricreativo (o del sangue mestruale) nella sua massima espressione, doveva bagnare il ventre della terra, e la carne consumata in parte dall'elemento che l'aveva creata, il fuoco, e in parte dai sacerdoti, rappresentanti del dio in terra. D'altra parte che cosa, se non la morte, garantisce il perpetuarsi della vita? Il dio fornisce il seme della vita alla terra, che lo riceve; la terra sostenta gli animali e gli uomini che la abitano e consente loro di riprodursi; ogni animale e uomo vivente infine muore e ritorna alla terra che, in cambio, produce nuova vegetazione per nutrire la loro progenie; e così via, in un ciclo senza fine.
Da un punto di vista ideologico, secondo Allegro questa filosofia di compensazione potrebbe essere alla base di quel principio del dare-avere su cui si fonda la dottrina del Cristianesimo: ama il prossimo tuo, e così via. Quanto al rito vero e proprio, invece, con il tempo si tramutò in un culto nel quale a essere sacrificata era la pianta sacra, un pasto nel quale essa veniva consumata dagli iniziati per ristabilire l'equilibrio e per realizzare l'unione mistica con il dio, e che ha fornito al Cristianesimo il tema del sacrificio espiatorio e l'intero rituale dell'Eucaristia.
CONTINUA



Quattrocento!

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Era un uggioso pomeriggio di aprile… ehm… ehm… no, forse questo l’ho già detto. Tranquilli, non starò qui a raccontarvi per l’ennesima volta di quel giorno che, per ingannare alcune ore altrimenti noiose, decisi di aprire il blog. In fondo, in questi cinque anni abbondanti di blogging saranno pure capitate altre cose di cui vale la pena parlare, no? In cinque anni tante cose sono cambiate.
Il sottoscritto, per esempio, è di un lustro più anziano rispetto al “ragazzino” che iniziò a scribacchiare timorosamente in questo luogo. Cinque anni sembrano un’eternità ma, quando anagraficamente passi i trenta, allora tutto inizia a volare e cinque anni scivolano via in un attimo, che nemmeno te ne accorgi. A metà luglio compirò quarantanove anni. Praticamente un incubo. Ammetto che quarantanove non è poi molto diverso da quarantotto o da quarantasette, ma quarantanove è troppo pericolosamente vicino a cinquanta per non iniziare sin d’ora a pensarci con un brivido di terrore.
Quando sei giovane pensi ai cinquantenni come a dei "tagliati fuori" totali. Io stesso ricordo (roba di molti anni fa) un mio infelice commento nei confronti di un cinquantenne che si era perso mentre cercavo di guidarlo al telefono nella rimozione di un programma dal registro di sistema di Windows XP. Tra un po’, teoricamente, dovrei essere nei suoi panni e, volente o nolente, dovrò in qualche modo rispondere alle nuove generazioni dei miei limiti tecnologici. D’altra parte se mi guardo in giro vedo cose che a me non attirano per niente ma che, mi pare di capire, hanno un seguito mostruoso.

Il blog in tutto questo mi permette di respirare. È un luogo che conosco a menadito e, seppure in via di obsolescenza (come dicono in tanti), mi permette di sentirmi al passo con i tempi. Che poi non è vero, ma mi piace pensare di esserlo. Ma basta con questo discorso. Chissà come mai, quando arrivano le ricorrenze si inizia a sproloquiare di passato e di futuro. Dirò solo un’altra cosa per concludere. Ne avevo già accennato tre anni fa e adesso lo ribadisco. Il giorno del mio cinquantesimo compleanno aprirò un nuovo blog. Non ho ancora deciso se chiuderò questo per passare all’altro oppure se porterò avanti entrambi. Probabilmente la seconda. Ad ogni modo il nuovo blog si chiamerà The Terrible Old Man (abbreviato T.T.O.M.). Ho detto “si chiamerà” ma avrei dovuto dire “si chiama”, visto che già esiste e che addirittura l’ho creato, con quel preciso scopo, il giorno stesso in cui ho alzato il sipario su The Obsidian Mirror (aka T.O.M.). Non ho idea di cosa andrò a scriverci dentro... probabilmente solo cose molto patetiche, pensieri, parole, opere e omissioni. Ne parleremo magari meglio sotto data.

Ora è il momento di celebrare il quattrocentesimo post. Niente statistiche, come forse qualcuno già temeva. Vediamo solo cosa è stato fatto di buono e di sbagliato in questi ultimi cento post. A livello personale non molto è cambiato rispetto a quanto scrissi nella mia trecentesima uscita. Già allora scrissi che nel blog avevo trovato la mia giusta dimensione e che mi divertivo a sguazzarci dentro. È ancora così, fortunatamente. Oggi come allora il blog è un cantuccio che mi permette di distrarmi dalle quotidiane incombenze, da quei meccanismi di cui a volte mi sento prigioniero.
A livello di scrittura nemmeno il mio approccio è molto cambiato. In quest’ultima centuria sono comunque usciti sul blog articoli che credo mai sarei stato in grado di scrivere prima e, se me lo permettete, tra questi vorrei citarne alcuni, quelli che più mi hanno dato soddisfazione. Un posto d’onore va senza dubbio allo Speciale Whispering Corridors (post numero 303 e seguenti), a mio parere una delle iniziative meglio riuscite di Obsidian Mirror (e il fatto che il mese di Aprile 2015 sia stato anche il più importante per il contatore delle visite, l’unico a superare la fatidica soglia dei 10.000 visitatori/mese, non può che confermarlo). Sempre in tema di speciali, la centuria appena conclusa ha visto partire lo Speciale Ghost in the Well (post 380 e seguenti) che, per inciso, si sta riavvicinando ai nastri di partenza. Una orgogliosa menzione per il lungo articolo su il “Ritratto del morto” di Marrama (post 349 e seguenti) e “Lo strano caso di Elisa Lam” (post 360 e seguenti). Tra le interviste, quella a Federico Cenci, della casa editrice Cliquot (post 372) e a Sergio Duma, autore de “I libri degli incubi” (post 377). V’è stato anche il momento del dolore: impossibile dimenticarlo, tanto copioso è ancora il sangue che mi sgorga dal cuore (post 328 e seguenti). Due ambiziosissimi progetti sono inoltre iniziati proprio in questa centuria: trattasi di “Orizzonti del reale” (post 338 e seguenti) e “Hyakumonogatari Kaidankai” (post 371 e seguenti). In ultimo come non citare nuovamente il lavoro su sugli Yellow Mythos che, nel corso dell’ultimo anno abbondante, si è visto arricchire di numerosi nuovi tasselli…
Per tirare le somme mi pare che questa quarta centuria abbia superato di gran lunga tutte le precedenti, sotto tutti i punti di vista. Ancora una volta non posso che ringraziare voi, cari lettori, commentatori e visitatori. Tutto questo non si sarebbe realizzato senza il vostro instancabile sostegno. Cosa cambierà da qui al cinquecentesimo post? Sarà una sorpresa sia per voi che per me. Quello che so per certo è che ci arriveremo un passo alla volta, senza fretta.

Yuggoth! (Pt.1)

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Ripensandoci a mente fredda oggi, due mesi dopo l’epilogo degli avvenimenti che andrò tra poco a narrarvi, mi chiedo per quale strana e assurda combinazione tutto ciò abbia potuto avere inizio. In altri momenti avevo riso di gusto di quei gustosi aneddoti sull’inefficienza del servizio postale. Li avevo sempre considerati più che altro luoghi comuni, quasi impossibili da riscontrare nella vita reale.
Eppure quella mattina di maggio avevo davanti a me la prova che i “viaggi nel tempo” non erano del tutto impossibili, anche se, beninteso, tali viaggi non erano da intendersi come quelli immaginati nei libri e nel cinema di fantascienza.
Un pacco postale, il cui viaggio era iniziato ben ottantacinque anni prima, si era infine materializzato sotto i miei occhi, un reperto di un passato remoto la cui stessa esistenza era rimasta sospesa nel tempo fino a che un impiegato curioso non lo aveva scovato sul fondo di qualche scaffale polveroso, in qualche ufficio o magazzino statale, e non aveva provveduto a metterlo in consegna. Davvero difficile a credersi.
Ottantacinque anni: l’equivalente esatto di tre generazioni, visto che il nome del destinatario, indicato, con una scrittura incerta ma ancora leggibilissima, sulla carta giallo-ocra dell’imballo, era chiaramente quello del mio nonno paterno, Albert Wilmarth.
Mi chiamo Andrew e sono il direttore del dipartimento di letteratura alla Miskatonic University, la medesima posizione che un tempo fu del padre di mio padre. Forse fu proprio per via di tale coincidenza, stesso cognome, stesso indirizzo, che quel vecchio pacco postale destinato al mio avo poté, infine, finire sulla mia scrivania. Certo è che, pensai solo a osservarne l'imballo così consumato e ingiallito dal tempo, chiunque avrebbe potuto rendersi facilmente conto dell'errore. Evidentemente, chi lo aveva consegnato non aveva ritenuto necessario perdere tempo in questioni tutto sommato marginali.
Una cosa simile capita una sola volta nella vita, perciò, dopo aver sbrigato pochi convenevoli con la segreteria di direzione e dopo aver congedato alcuni impiccioni, decisi che la mia curiosità non poteva attendere. Aperto senza indugio ma con estrema attenzione il pacco secolare, ne estrassi uno strano manufatto di colore nero, ben avvolto in carta di giornale, alcune fotografie e una breve lettera di accompagnamento, scritta in una grafia appena comprensibile. Il timbro postale riportava il nome di una cittadina del Vermont chiamata Bellows Falls; il mittente era tale Henry Wentworth Akeley, residente a Townshend, nella Contea di Windham, sempre nel Vermont. Cosa potesse avere in comune mio nonno con un tizio che abitava così distante dal Massachusetts non lo potevo sapere, ma probabilmente la loro conoscenza aveva a che fare con la mania di mio nonno per il folklore americano, una mania di cui venni a conoscenza dai, seppur rari, racconti di mio padre.

Sollevai e soppesai lo strano manufatto: era una pietra di colore nero, probabilmente di ossidiana, la cui forma mi ora è difficile descrivere ma di cui, osservandone il taglio, era impossibile escludere senza ombra di dubbio l’artificiosità. Diedi un’occhiata anche alle fotografie, che rappresentavano quelle che sembravano orme lasciate su un terreno fangoso. Ma non orme di piedi: sarebbe forse più corretto parlare di orme di zampe, nonostante fosse difficile stabilire a quale specie potessero appartenere. Posso limitarmi a dire che ricordavano vagamente delle pinze di granchio, anche se c'era da rimanere indecisi riguardo il loro orientamento. Da una specie di cuscinetto centrale partivano in tutti i sensi altre pinze dentellate di cui non si poteva capire l'uso, dando per scontato che le impronte fossero state lasciate da un organo di locomozione. Un'altra fotografia meno chiara, perché scattata evidentemente all'ombra, rappresentava l'ingresso di una caverna chiuso da un masso tondeggiante. Sulla terra nuda che si estendeva davanti alla grotta si poteva notare una rete di impronte che, esaminate alla lente, risultavano identiche a quelle della foto precedente. Delle altre fotografie, tre rappresentavano paesaggi montagnosi o paludosi mentre nell’ultima si vedeva una fattoria, una graziosa casa bianca a due piani con un prato ben tenuto. Un viale fiancheggiato da bassi muriccioli conduceva all'ingresso, molto bello, e parecchi cani di grossa taglia erano sdraiati sul prato vicino a un uomo dal viso simpatico, con una corta barba grigia, che non poteva che essere il padrone di casa: a giudicare dal filo che teneva in mano, doveva essersi fotografato da solo.

Posai perplesso le fotografie e passai alla lettera. Mio caro amico– presi a leggere - come già ebbi modo a dirle sono sul punto di decifrare l'iscrizione di questa pietra; grazie ai suoi studi di demonologia, forse potrà fornirmi lei gli elementi che mi mancano. Suppongo che non ignori gli spaventosi miti anteriori alla venuta degli uomini sulla Terra, i cicli di Yog-Sothoth e di Cthulhu menzionati nel Necronomicon. Ho avuto occasione di scorrere quest'opera, e mi pare che ce ne sia un esemplare nella biblioteca della vostra università. Per concludere, caro amico, penso che, in base alle nostre rispettive cognizioni, ognuno di noi possa essere utile all'altro. Non vorrei compromettere la sua sicurezza, e ritengo sia mio dovere avvertirla che il possesso del rullo e della pietra potrà esporla a certi rischi: ma sono certo che lei non esiterebbe a correrli nell'interesse della scienza. 
I miei più cari saluti. Henry W. Akeley

Una volta terminata la lettura di quella vecchia lettera, mi sorpresi a bocca aperta. Avevo letto nomi e parole che avevo già sentito nominare migliaia di volte ma che sapevo riferirsi ad artifici letterari ideati da uno scrittore, mio illustre concittadino, vissuto quasi un secolo fa. Esisteva realmente, e lo dico per dovere di cronaca, una vecchia leggenda metropolitana secondo la quale una copia del mostruoso Necronomicon era conservata in chissà qualche segreto archivio all’interno di questa stessa università. Una leggenda che portava ogni anno, con mai sopito fervore, centinaia di appassionati a frugare disperatamente tra gli scaffali più angusti della biblioteca, fino ad introdursi nottetempo (ebbene sì, capitava anche quello) nei locali dell’Università con la pretesa di svelare chissà quale machiavellico segreto.
Naturalmente, le speranze di quegli “archeologi del fantastico” non avevano alcuna possibilità di essere soddisfatte: il Necronomicon, lo sapevano tutti, non era altro che uno pseudobiblium, ovvero un libro che non esiste e che non è mai esistito, la creazione di quel mio concittadino che, anni addietro, si divertì a seminare tracce di una mitologia pagana di sua invenzione tra le pagine di una rivista letteraria dell’epoca. Non ne sarebbe rimasto nulla se quell’anonimo scrittore, anni dopo la sua scomparsa, non fosse divenuto un caso letterario internazionale. Ma questa è un’altra storia.

Mi sorpresi a bocca aperta, stavo dicendo, anche perché su quella strana pietra nera c’era davvero una specie di iscrizione, che di primo acchito non avevo notato. C’erano degli strani segni, come dei geroglifici o delle figure stilizzate che a un occhio impreparato tutto potevano sembrare meno che un linguaggio. Qualcuno di quei geroglifici mi turbò profondamente. I miei studi mi avevano infatti portato a identificare alcuni di quegli ideogrammi con entità empie e terrificanti appartenenti a culture remote…
Mio nonno Albert era un tipo sicuramente bizzarro, a quanto sentivo raccontare da bambino, ma era anche tutt’altro che un ingenuo. Come avrebbe potuto quindi quel tizio, Henry Akeley, prendersi gioco di lui? Decisi che avrei dovuto saperne di più. E così feci. Presi il telefono e composi il numero di una mia vecchia conoscenza che viveva appunto in uno sperduto paesino nella Contea di Windham, nel Vermont. Ezra Noyes era un professore in pensione, appassionato di ufologia e parapsicologia, che per diletto scriveva su una piccola rivista chiamata Intelligencer, organo di un singolare gruppo di individui, una sorta di club esclusivo, che si autodefiniva Vermont Unidentified Flying Object Intelligence Bureau. Lo avevo conosciuto anni prima a Boston in occasione di una conferenza e mi era parso una persona preparata, per quanto bizzarra. Non che i suoi interessi c’entrassero qualcosa con ciò di cui avevo bisogno, ma ero certo che Noyes, più di chiunque altro, potesse darmi qualche notizia su un tizio vissuto dalle sue parti negli anni Trenta che rispondeva al nome di Henry Wentworth Akeley.
Mentre attendevo che qualcuno rispondesse al telefono, il mio sguardo cadde su quella pagina di giornale che aveva avvolto il curioso manufatto fino a pochi istanti prima. Era un quotidiano risalente al 14 marzo 1930 nel quale, in un trafiletto, gli astronomi dell’epoca annunciavano la scoperta del primo pianeta transnettuniano, il nono del nostro sistema solare. “Che curiosa combinazione”, pensai tra me e me.


Yuggoth! (Pt.2)

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LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Yuggoth!– mi interruppe il mio amico Noyes – Plutone anticamente si chiamava Yuggoth, non lo sapevi? E quando dico anticamente, mi riferisco al fatto che la sua esistenza era stata teorizzata molti anni prima della sua scoperta.
Non capivo come Noyes potesse dimostrarsi così entusiasta di quel piccolo aneddoto che avevo deciso di raccontargli una volta terminate le cordialità di rito tra due persone che non si vedevano da almeno quindici anni. Ezra Noyes era tale e quale a come lo ricordavo: irruente, ironico, irriverente, ma al tempo stesso preciso, attento e affidabile.
 Tuttavia, quando finalmente ebbi il modo di fare il nome di Henry Wentworth Akeley, il mio amico perse del tutto quella predisposizione alla simpatia che aveva contraddistinto i nostri primi minuti di conversazione.
Si ricordava naturalmente benissimo del caso Akeley e, come ebbe modo di spiegarmi, quel nome gli riportava alla mente uno degli avvenimenti più controversi che diversi lustri prima avevano segnato indelebilmente la memoria dei vecchi abitanti di quella regione. Non ne sapeva poi molto, tutto sommato, se non che si era trattato di un caso di cronaca alquanto singolare, un caso di sparizione, forse di omicidio, i cui retroscena non erano mai stati precisati.
Noyes mi disse che, stando ai racconti con i quali i vecchi amavano impressionare i più giovani nelle riunioni di famiglia, le vicende di Akeley avrebbero avuto a che fare con i grandi allagamenti che si produssero nel Vermont al principio di novembre del 1927. Fra le storie che si narravano a proposito dell'inondazione c’erano quelle che riferivano di creature mitologiche, metà uomo e metà pesce, i cui cadaveri sarebbero stati visti galleggiare sulle acque dei fiumi in piena. Dicerie senza senso, si affrettò a precisare il mio amico, come senza senso erano le voci di quelle strane impronte di artigli che qualcuno giurava di aver notato sulla riva dei ruscelli o in certi tratti argillosi del terreno. Akeley si sarebbe interessato alla vicenda da un punto di vista accademico ma, sussurravano alcuni, una volta spintosi oltre un dato limite, la cosa sarebbe stata notata da fantomatici enti governativi che…

Ezra Noyes interruppe il suo racconto come se la sua attenzione fosse improvvisamente calata, quasi come se fosse stata distratta da un elemento nuovo che si era fatto largo nella sua mente. Come mai ti stai interessando a quella vecchia faccenda?– mi chiese dopo un interminabile silenzio. Si tratta di una… una cosa che ho ricevuto per posta dal Vermont – risposi, lasciando trapelare nella mia voce un pizzico di preoccupazione. Per l’amor del cielo, Andy, in che pasticcio ti sei cacciato? Raccontai a grandi linee ciò che mi era accaduto quella stessa mattina, soffermandomi in particolar modo sulle fotografie che, ai miei occhi, non facevano altro che confermare le dicerie riferitemi dal mio amico. Quelle orribili creature che si ritenevano un semplice frutto del folclore locale probabilmente erano state reali, e quelle che avevo in mano erano senza dubbio delle prove inoppugnabili in tal senso.
Ascoltami attentamente - mi disse interrompendo il flusso dei miei pensieri – Hai raccontato a qualcun altro questa storia? Qualcuno ha visto il contenuto di quel pacchetto, oltre a te? No? Bene! Accertati che non succeda. Non fare niente. Non dire niente. Ti richiamo domani. 

Tentai di protestare per quell’inaspettata chiusura, ma non ne ebbi il tempo. La conversazione era stata interrotta. Osservai per qualche attimo il telefono, indeciso se ricomporre il numero di Noyes oppure lasciar perdere. Decisi per il nulla di fatto e mi lasciai cadere su una poltrona.
Mi soffermai a riflettere su quanto era appena successo. Non ero in ufficio che da poche ore, ma ero ormai sul punto di crollare. La tensione nervosa, che iniziavo ad avvertire solo in quel preciso istante, aveva lavorato a mia insaputa consumando tutte le mie energie. Un caffè, ecco quello che mi serviva. “Sono sul punto di decifrare l'iscrizione di questa pietra; grazie ai suoi studi di demonologia, forse potrà fornirmi lei gli elementi che mi mancano”. Ripensai alle parole con le quali quel tizio del Vermont si era rivolto al mio antenato. Davvero mio nonno si era occupato di demonologia? Quale rapporto c’era tra i due? Non erano affatto due sconosciuti, a quanto mi era parso di capire. Nessuno al mondo, infatti, avrebbe mai interloquito in quel modo con qualcuno di cui non avesse piena stima e fiducia; specialmente se la posta in gioco era così alta, come lo scrittore della lettera temeva, e come l’epilogo della vicenda avrebbe poi confermato. Che fine aveva fatto quell’Akeley? Era sparito? Era stato fatto sparire? C’entravano i servizi segreti? E quei bizzarri uomini pesce? Erano davvero solo leggende, oppure…

Sollevai la pietra nera e mi soffermai meglio sulle iscrizioni che già prima mi avevano turbato. Ero certo di aver già visto quegli strani simboli in precedenza, simboli che appartenevano a culture pagane che si ritenevano estinte migliaia di anni fa. Dagon, il dio anfibio mesopotamico della fertilità e dell’agricoltura; Dagon, il dio marino che comparve nelle leggende cosmogoniche fenicie; Dagon, la divinità semitica la cui figura affascinò il Cristianesimo fino al punto di essere da questo ripresa e celata nei suoi simboli a noi più noti. Avevo bisogno di saperne di più. Dovevo capire se le ipotesi che si stavano facendo largo nella mia mente avevano una base solida oppure se erano semplicemente il frutto della suggestione. Mi scrollai di dosso il torpore che poc'anzi mi aveva assalito e mi feci forza. La biblioteca della Miskatonic era a portata di mano e io, per via del mio ruolo, più di chiunque altro avevo il diritto e il dovere di usufruirne. Uscii dal mio ufficio dopo essermi accertato di aver chiuso bene a chiave la porta. Il materiale che mi era pervenuto per posta era al sicuro nell’ultimo cassetto, anch’esso ben chiuso. Mi incamminai giù per il corridoio alla mia sinistra; la biblioteca si trovava a non più di cinque minuti a piedi. Ce ne misi almeno venti per via di un paio di guastafeste che incontrai sul mio cammino, ma alla fine mi ritrovai, quasi in perfetta solitudine, di fronte a quell’enorme montagna di volumi che era l’orgoglio dell’Università e l’invidia di tutto il mondo. Sapevo esattamente dove cercare; e sapevo anche esattamente cosa cercare. In uno degli angoli meno accessibili della vasta biblioteca, in cima a una struttura soppalcata chiusa al pubblico, vi era una piccola vetrinetta dove venivano conservati gli esemplari più rari. Non esitai oltre e tra lo sguardo distratto dei pochi presenti mi avventurai su per la pericolante scala a chiocciola. Una volta giunto di fronte al piccolo reliquiario, inclinai la testa per cercare di leggere sui dorsini i titoli delle opere semicancellati dal tempo.

Vi era una rarissima edizione de “Le livre secret de Hali” che l’Università aveva ereditato proprio dalla collezione privata di mio nonno, così come a mio nonno si deve la sopravvivenza dell’ultima copia esistente de “Le Roi en Jaune”, un’opera che i più ritenevano perduta per sempre. Vi erano naturalmente i celebri manoscritti pnakotici e il famigerato “De Vermis Mysteriis” di Ludwig Prinn, alchimista e negromante arso sul rogo agli inizi del Cinquecento. Non poteva naturalmente mancare il leggendario “The Further Adventures of Arthur Gordon Pym” di Edgar Allan Poe, le tracce della cui esistenza erano state ormai da anni volutamente cancellate. Ciò che cercavo si trovava però nello scaffale inferiore, ben celato fra altri grossi tomi: si trattava dell’esecrando “De origine, moribus et rebus gestis Satanae”, che io personalmente sottrassi dieci anni prima alla collezione di Victor Fargas con l’aiuto di un mercenario senza scrupoli.


Yuggoth! (Pt.3)

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LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Quella stessa sera, seppure avvolto dal rassicurante calore della mia abitazione, non riuscii a trovare il modo di scacciare i brividi che tormentavano il mio corpo e la mia anima. Provavo uno strano malessere per il quale non riuscivo a trovare una ragione razionale. A tratti sentivo come se mi mancasse l’aria nei polmoni, cercavo di inspirare profondamente ma non ci riuscivo del tutto. Era come se qualcosa bloccasse le vie respiratorie, come se ci fosse una specie di valvola che una mano invisibile si divertiva a chiudere e aprire a suo piacimento, quasi prendendosi gioco dei miei disperati boccheggi.
Avevo già preso qualcosa dall’armadietto dei medicinali, una di quelle pastiglie che si sciolgono in acqua tra mille bollicine e che vanno bene un po’ per tutto. Ero perfettamente consapevole che si trattava solo di un intruglio di acqua zuccherata al sapor di limone, ma ormai da tempo avevo preso l’abitudine di ingurgitarne una in ogni occasione. Il mio inconscio, in un certo qual senso, godeva del piacere dell’illusione. Mi crogiolavo letteralmente al pensiero che potesse esserci una soluzione reale, palpabile, fisica, ai miei mali. Ma non era così. Non c’erano mali di nessun tipo, perlomeno nessun tipo di male che fosse mai stato catalogato da qualcuno. Il male non era dentro di me: il male era fuori, da qualche parte, tutt’intorno nella stanza e oltre la finestra, giù nella strada e nelle strade a fianco, attraversava tutta la città e si spingeva oltre.

Qualcosa era successo quella mattina, qualcosa che non sarebbe dovuto succedere. Si era spalancata una porta che non avrebbe mai potuto essere richiusa e io, maledizione, ne ero stato la causa. O forse no, forse anch’io ero solo una vittima, una vittima che il destino, travestito da impiegato delle poste, aveva recapitato alla mia porta. E io, povero sciocco che ero, non avevo potuto resistere alla tentazione di spalancare quella porta, di affondare le mani in profondità in un mistero che sarebbe dovuto rimanere tale. Ma quello non era l’unico errore che avevo commesso quel giorno.
L’ennesimo respiro smorzato mi terrorizzò. Stavo forse per morire? Non era la morte che mi stava perseguitando - era ormai chiaro - bensì qualcosa di mille volte peggiore che non so spiegare, una sensazione come un peso, un macigno che si era staccato dalla montagna per precipitare diritto sopra il mio cuore. Perché? Cosa avevo fatto? Noyes si era comportato stranamente quella mattina. Non avevo potuto fare a meno di notare l’improvviso cambiamento di rotta che la nostra telefonata aveva subito quando… già, quando? Avevo detto o fatto qualcosa di sbagliato?

Nel frigorifero c’erano solo lattine di birra. Ne afferrai una e strappai via la linguetta. Ci presi insieme anche un paio di aspirine, in un disperato tentativo di liberarmi di quel peso che non accennava ad andarsene. Marylin Monroe era morta in quel modo? Può essere, ma non era quello il momento di preoccuparmene. Il “De origine” che avevo prelevato dalla biblioteca era lì, e mi osservava poggiato sul tavolino di fronte alla poltrona. Lì dentro c’erano verosimilmente le risposte che cercavo, ma stranamente sentivo di non avere alcuna fretta. Tracannai la birra e ne stappai un’altra. Non avevo alcuna fretta, mi ripetevo, mentendo a me stesso. Infine cedetti.

Ciò che lessi fu allo stesso tempo straordinario e terribile. Lessi nomi e parole che sapevo riferirsi ai misteri più orridi: Yuggoth, il Grande Cthulhu, Tsathoggua, Yog-Sothoth, R'lyeh, Nyarlathotep, Azathoth, Hastur, Yan, Leng, il lago di Hali, Bethmoora, il Segno Giallo, L'mur-Kathulos, Bran e il Magnum Innominandum; fui condotto in mondi estranei al nostro, di cui l'autore del testo aveva vagamente intuito l'esistenza; presi conoscenza degli abissi della vita originale, delle diverse correnti che ne derivano, e, finalmente, d'una mostruosa mescolanza che si era prodotta tra quelle correnti e un ulteriore abominio venuto dall'esterno.
Lessi di una guerra che perdurava da milioni di anni fra due regni distanti nel tempo e nello spazio, due regni che non appartenevano nemmeno a questa stessa dimensione. Demhe e Hastur, due immense nazioni che cercavano di annichilirsi a vicenda senza che nessuno ormai fosse in grado di ricordare le ragioni di così tanto odio. Le loro capitali, Alar e Carcosa, entrambe bagnate dalle scure acque del grande lago di Hali, erano perennemente avvolte nella nebbia e i loro eserciti… già, i loro eserciti… quella era forse la parte più interessante… i loro eserciti avevano più volte, nel corso della storia, spostato il loro campo di battaglia qui da noi, nel nostro mondo. In diverse occasioni si erano mescolati a noi, avevano calpestato la nostra terra, scalato le nostre montagne e attraversato i nostri mari. “Fraternitatis Sancti lúmine”, “Fraternitatis Crocus Signo”, dove diavolo avevo già sentito quei nomi?

Improvvisamente il turbinio dei miei pensieri fu distolto dallo squillo del telefono. Mi alzai come un automa e sollevai la cornetta. Una moltitudine di voci e grida provenienti dall’altra parte del filo. Il fuoco! Il fuoco! – fu l’unica cosa che riuscii a comprendere, ma tanto mi bastò per capire. Attesi la voce di una delle mie assistenti confermare ciò che già sapevo. E non mi ci volle molto per capire che l’incendio si era originato proprio nel mio ufficio, là dove avevo imprudentemente lasciato la pietra nera, la lettera di Akeley e le fotografie.
Il fuoco non venne domato che alle prime ore del mattino: nulla poté salvarsi di quella parte dell’edificio, ma perlomeno, stando a quanto mi riferirono, non vi furono vittime. Qualche giorno dopo, quando ebbi il permesso di fare un sopralluogo in quello che restava del mio ufficio, capii che tutto era finito, disintegrato, evaporato come neve al sole. La lettera e le fotografie si erano certamente trasformate in cenere, ma che ne era stato del manufatto in pietra nera? Scomparso, come se non fosse mai esistito.

Per diverse settimane dopo quel tragico incidente cercai di prendere nuovamente contatto con Ezra Noyes. Non ci riuscii mai. Da ulteriori ricerche, che condussi personalmente, venni a sapere che Ezra Noyes, direttore del periodico Intelligencer, era stato catalogato come la 422a persona misteriosamente scomparsa nel solo Vermont dall’inizio del secolo. Qualunque spiegazione potesse esserci dietro questa bizzarra vicenda, ho il forte sospetto che il mio amico Ezra Noyes, così come Henry Akeley ottantacinque anni prima, rimase vittima di qualcosa più grande di lui. Oppure no? Oppure…
Non mi sono ancora spiegato il motivo per cui né io né mio nonno Albert Wilmarth siamo stati travolti da quel medesimo destino. Qualunque possa essere la ragione, temo però che la scopriremo presto. Il mondo intero saprà presto tutta la verità. Me lo sento. C’è qualcosa di diverso nell’aria da qualche tempo a questa parte. Ogni giorno è peggio. Non passa ormai notte senza che mi svegli di soprassalto, il sonno disturbato da strani rumori, come di passi. Mi sorvegliano, ormai è evidente, ma attendono nell’ombra. Li sento. Rumore di passi che non hanno niente di umano – clac-clac. Li sento anche adesso. Nella testa ho le loro voci. Sono vicini. Non fanno nulla. Attendono! Attendono. E quelle voci, che non erano voci umane. Era quasi uno strano ronzio nel quale si potevano solo distinguere poche parole sconnesse... “Ed è avvenuto che il Signore delle Foreste, essendo... sette e nove, in fondo alla scala d'onice... tributi portati a Quello dell'Abisso, Azathoth... sulle ali della notte, al di là dello spazio, al di là del... Quello di cui Yuggoth è l'ultimo nato, viaggiando solitario nell'etere nero al confine del...” 

15 luglio 2015 – Breaking News - La sonda New Horizons della Nasa ha ristabilito nelle scorse ore le comunicazioni con la Terra dopo essersi avvicinata a Plutone, il pianeta nano meno conosciuto del sistema solare. La sonda ha contattato la base della Nasa nel Maryland alle 20.52, 13 ore dopo essere passata nel punto più vicino a Plutone, che si trova a circa 12.500 chilometri di distanza dal pianeta nano. I tecnici della missione New Horizons diffonderanno oggi alle 15 le prime immagini scattate dalla sonda.
FINE



The Whisperer in Darkness

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In questa afosa serata di inizio estate, con il termometro che sembra impazzito e quel dannato ghiacciolo al limone appena preso dal frigorifero che già mi gocciola sulle dita, e la voglia di gettarmi sotto la doccia prevale su qualsiasi altra funzione vitale, occorre trovare il modo per mandare avanti il blog. Non manca poi molto, lo dico già da ora, che anche Obsidian Mirror chiuda per ferie ma, prima che ciò avvenga, c'è ancora qualcosina da raccontare.
Le forze ormai stanno venendo meno e pertanto, un po' furbescamente, oggi proverò con questo post a ottenere il massimo con il minimo sforzo.
In buona sostanza questo è un post doppio, signore e signori. Non nel senso della lunghezza, visto che quella è più o meno la solita, bensì per il fatto che in altri momenti sarei riuscito a scrivere due pezzi distinti su questo argomento. L'articolo di oggi in altre parole ha un duplice scopo: 1) riagganciarsi a Yuggoth!, il piccolo racconto che ho proposto sul blog la scorsa settimana e 2) partecipare all'annuale rassegna "Notte Horror", in compagnia della solita combriccola di blogger cinefili. Fatta questa doverosa premessa, vediamo cosa riesco a scrivere di "The Whisperer in Darkness", uno dei più importati tasselli dell'intera opera di Howard Phillips Lovecraft. Sono un po' timoroso, lo ammetto, al solo pensiero di dover affrontare questo argomento: migliaia di persone in gamba lo hanno fatto molto prima di me e, nel mio piccolo, non potrò certo essere all'altezza dei miei predecessori. Il destino però vuole che questo post arrivi proprio adesso, e quindi così sia.

A beneficio di tutti coloro che hanno letto Yuggoth! e non ci hanno capito nulla, credo valga la pena specificare che, sebbene Yuggoth! sia un'opera la cui dinamica si deve alla fantasia del sottoscritto, essa deve la sua genesi, la sua struttura e i suoi pilastri a un racconto che Lovecraft scrisse nel 1930, nel pieno della sua maturità artistica. Un racconto che, forse proprio per questo, è uno dei più illustri esempi della narrativa fantastica del Novecento giunti sino a noi e che, sebbene si possa leggere anche singolarmente, è parte integrante di quel vasto mondo che noi tutti oggi conosciamo come "I miti di Cthulhu", termine sotto il quale August Derleth cercò, dopo la morte del solitario di Providence, di riunire tutti i riferimenti alle divinità blasfeme e alle creature cosmiche dell'universo lovecraftiano. Yuggoth!, come dicevo, deve la sua esistenza a "The Whisperer in Darkness" (in italiano conosciuto come "Colui che sussurrava nelle tenebre"), del quale rappresenta un ideale sequel ambientato ottantacinque anni dopo gli eventi narrati da Lovecraft. Se avete quindi letto Yuggoth! e ne siete usciti con le idee confuse, vi invito a recuperare quanto prima il racconto di Lovecraft che trovate più o meno ovunque, anche gratis sul web (tipo qui).

Per i più pigri, riporterò invece qui di seguito due righe due di trama: Albert Wilmarth, insegnante di letteratura inglese alla Miskatonic University e appassionato di folclore, è incuriosito dalle storie bizzarre che sono state riferite a proposito delle inondazioni avvenute nel Vermont. Secondo i quotidiani, i locali avrebbero notato creature sconosciute, più simili a grossi crostacei che ad esseri umani, galleggiare sulle acque dei fiumi in piena. Wilmarth, che all'inizio del racconto assume decisamente la parte dello scettico, organizza diversi seminari in cui cerca di negare ogni spiegazione sovrannaturale, dipingendo gli abitanti di quei luoghi come degli sciocchi superstiziosi. Henry Akeley, uno studioso residente nel Vermont, in un lungo rapporto epistolare cerca di convincere Wilmarth ad abbandonare ogni ulteriore iniziativa in tal senso: discutere di quei fatti in pubblico, anche se da scettico, potrebbe essere molto pericoloso. Le creature, secondo Akeley, esisterebbero davvero: un popolo alieno, proveniente da Plutone, che avrebbe costruito il proprio avamposto proprio sulle colline di quella regione. Allo scopo di convincere il suo interlocutore, Akeley invia al professore alcune fotografie, delle registrazioni e un manufatto, una pietra nera sulla quale sono incisi quelli che sembrerebbero dei geroglifici sconosciuti.
È a questo punto che il tono del racconto cambia completamente: la pietra nera viene misteriosamente smarrita dall'ufficio postale, forse sottratta da qualcuno, e l'atteggiamento di Akeley cambia totalmente e improvvisamente. Se prima Akeley insisteva affinché l'argomento non trapelasse, improvvisamente, in una nuova lettera, lo studioso invita Wilmarth a recarsi sul luogo e a proseguire le ricerche a quattro mani. Basta, non vi racconto altro.

@ http://www.cthulhulives.org/
Se volete sapere come va a finire leggetevi il racconto oppure, se preferite, cercate di recuperare il meraviglioso film del 2011, realizzato da un collettivo chiamato H.P. Lovecraft Historical Society, in un incredibile bianco e nero che ricorda da vicino i grandi classici del cinema horror dei nostri nonni, quello dei Tod Browning (Dracula, 1930), dei James Whale (Frankenstein, 1931; L'uomo invisibile, 1933) o dei Karl Freund (La mummia, 1931). La tecnologia utilizzata, si legge sul sito della HPLHS, è quella del Mythoscope®, termine coniato per descrivere l'utilizzo di mezzi moderni in tecniche cinematografiche d'epoca. Il risultato è un film che ha un aspetto datato pur non essendolo affatto, un film del quale i giochi di luci e ombre costituiscono l'aspetto più affascinante, quello che riesce a trasmettere quel senso di orrore meglio di qualsiasi artificio tecnologico. Il bagliore, lo sfarfallio e il rumore che in parte si notano nei fotogrammi a corredo di questo articolo sono anch'essi parte del processo Mythoscope®, e vennero aggiunti al film in postproduzione.

Questo particolare già di per sé dovrebbe bastare a promuovere a pieni voti il lavoro del regista Sean Branney e dei suoi collaboratori. C'è in realtà molto di più: pur mantenendo assolutamente inalterati alcuni passaggi del racconto di Lovecraft (anche quelli a mio parere più deboli), la trasposizione cinematografica riesce sapientemente a mantenere sempre viva l'attenzione. La prima parte, quella che in Lovecraft è praticamente monopolizzata dai botta e risposta scritti fra Akeley e Wilmarth, è resa dagli autori con una drammaticità che sorprende, soprattutto chi come il sottoscritto è in gran parte avulso alle tecniche cinematografiche; posso solo immaginare quanto possa essere difficile, in fase di scrittura e direzione degli attori, e non solo, tradurre in immagini senza annoiare uno scambio epistolare.

@ http://www.cthulhulives.org/
Altro particolare curioso, che evidentemente la produzione ha tenuto a rimarcare più di quanto abbia fatto lo scrittore del New England, è quello relativo a Charles Fort, il celebre ricercatore del paranormale: appena citato da Lovecraft nel suo racconto ("Due o tre fanatici arrivarono a trovare plausibili i racconti indiani che attribuivano agli esseri misteriosi un'origine ultraterrestre: a sostegno delle loro argomentazioni citavano le stravaganti opere di Charles Fort, secondo cui esseri provenienti da altri universi avrebbero spesso visitato il nostro pianeta", cit.), diviene addirittura una figura di primo piano nella pellicola. Per farla breve, la HPLHS ha sparso molta farina del proprio sacco per rendere questa trasposizione cinematografica piacevole e intrigante. D'altro canto, come accennavo poc'anzi, ha voluto, credo inevitabilmente, sottolineare certi aspetti a mio parere ingenui che sono una caratteristica peculiare, più che un difetto, del racconto di Lovecraft. Come scriveva Fritz Leiber nel suo celebre articolo "The Whisperer Re-exhamined", appare assolutamente ridicolo il modo in cui Albert Wilmarth si lasci abbindolare dalla lettera, così palesemente fasulla, con la quale i Plutoniani (o chi per essi) fanno in modo di attirarlo nel Vermont. Altrettanto opinabile è il modo in cui lo stesso Wilmarth, una volta giunto a destinazione, ci metta un tempo inspiegabile per mettere a fuoco la situazione, nonostante i mille inequivocabili indizi che fioccano attorno a lui. Ancora più bizzarro, sempre secondo Leiber, è il lungo protrarsi del gioco con il quale i Plutoniani stringono il cerchio intorno al malcapitato professore. Proprio come un gatto gioca col topo, gli alieni scelgono la strada meno percorribile per chiudere i conti quando, al contrario di quello che avrebbe dovuto teoricamente essere il loro interesse, sarebbe stato estremamente facile sbarazzarsi in fretta di un testimone scomodo come Wilmarth.
Le riflessioni dell'autore de "Il grande tempo" e di "Novilunio" non vengono tuttavia minimamente percepite come critiche da parte dei signori di HPLHS; quelle che possono sembrare, dopo un'attenta lettura, delle forzature, sono invece considerate da Branney e soci come il più lampante marchio di fabbrica del suo autore e, come tali, vengono riportate fedelmente nel film. Visti con gli occhi di chi non ha mai letto Lovecraft, certi passaggi appaiono inequivocabilmente assurdi, ma ciò non toglie che l'intensità emotiva che viene trasmessa raggiunga apici difficilmente eguagliabili. Conclusione, questa, alla quale fra le righe mi pare sia giunto anche Fritz Leiber.

Diciamo che questo è tutto per oggi. Ancora una volta sono andato ben oltre la lunghezza massima che mi ero imposto per questo articolo. L'argomento in realtà non si è ancora esaurito del tutto: "Colui che sussurrava nelle tenebre", grazie ai suoi numerosi spunti, è un grande trampolino di lancio per tornare a parlare di Yellow Mythos. Quando? Non subito. Magari verso la fine dell'estate. Prima avevo in programma di spendere qualche altra parola su Yuggoth! e sulla sua genesi...
Concludo ricordando che questo post è anche il mio personale contributo allo speciale "Notte Horror" che è iniziato martedì scorso sui blog SolarisRecensioni Ribelli, per proseguire giusto due ore fa su In Central Perk. L'elenco completo dei blog partecipanti non è ancora definito, ma sarà mia premura pubblicarlo, appena disponibile, qui da qualche parte.

Yuggoth! Rehearsals (Pt.1)

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Prima o poi era inevitabile che quella lunga di serie di post sulla mitologia del Re in Giallofinisse per sconfinare nel magico universo lovecraftiano. Era scontato sin dall’inizio, non vi pare? D’altra parte non è affatto un mistero che i cosiddetti Miti di Cthulhu si siano ampiamente ispirati, almeno per quanto riguarda la parte pseudobiblica, al famigerato King in yellow citato dal contemporaneo, per Lovecraft, Robert W. Chambers. Restava solo da stabilire il momento in cui il solitario di Providence avrebbe potuto fare il suo ingresso in questa serie di post e, neanche a farlo apposta, con Yuggoth! quel momento è in un certo qual modo arrivato. 
Non avrei per inciso potuto scegliere diversamente, perché proprio scrivendo uno degli ultimi articoli, precisamente quello pubblicato a fine novembre dal titolo The Dream Leech, ispirato all’omonimo racconto di William Laughlin, avevo già gettato involontariamente le basi per questo, chiamiamolo così, “piccolo speciale” al quale state assistendo dall’inizio di luglio. Un piccolo speciale (definito “piccolo” solo perché assolutamente casuale e non programmato) dedicato ad uno dei racconti più importanti dell’intero universo lovecraftiano, il già più volte citato “The Whisperer in Darkness” (ovvero "Colui che sussurrava nelle tenebre").
Abbiamo già affrontato più o meno nel dettaglio il racconto di Lovecraft la volta scorsa, quindi oggi proveremo a spiegare il significato di quella specie di racconto in tre parti che avete (spero) letto a partire da qui. Si tratta ovviamente di un’opera di fantasia che rientra nella logica della fan-fiction, vale a dire quel tipo di narrativa che prende spunto da storie o personaggi di qualcun altro e li ricicla in qualcosa di fortemente derivativo. Diciamo, per farla breve, che una fan-fiction è qualcosa che si trova a metà strada tra il plagio e l’omaggio. A qualcuno probabilmente si staranno rizzando i peli sulle braccia a leggere la parola plagio, ma è innegabile che utilizzare nei propri romanzi un personaggio già esistente è molto più facile che inventarne uno nuovo di zecca, almeno in teoria. Con questo non voglio dire che la fan-fiction sia riprovevole. Tutt’altro. Esistono milioni di esempi in cui l’allievo è riuscito anche a superare il maestro: lo stesso Lovecraft, come abbiamo detto e ridetto, si sarebbe ispirato a Robert W. Chambers (riutilizzando termini come “Il segno giallo” o “il lago di Hali”); quest’ultimo a sua volta si sarebbe ispirato ad Ambrose Bierce (riutilizzando il temine "Carcosa"), e così via.
Come sapete, lo stesso speciale “Yellow Mythos” che sto portando avanti da un paio d’anni non è altro che una lunga dissertazione sulla fan-fiction, visto che gioca proprio sulla ricerca di connessioni, rimandi, citazioni e rivisitazioni. Scrivendo “Yuggoth!” mi sono quindi divertito anch’io a giocare con personaggi e situazioni uscite dalla penna di Lovecraft, cercando di recuperarli laddove possibile e riutilizzarli per quello che potrebbe essere considerato una sorta di sequel.

Partiamo dall’inizio. Come mi è venuta in mente questa cosa? Qualche settimana fa ho ripreso in mano quei miei vecchi volumi dello scrittore di Providence con l’intenzione di andarmi a rileggere il racconto in questione. L’idea era quella di rinfrescarmi la memoria prima di andare a citare in un prossimo articolo i passaggi che avevano un chiaro collegamento con i Mythos. Mentre leggevo, un milione di idee mi rimbalzavano però nella scatola cranica. Lovecraft aveva scritto un gran bel racconto, ma aveva lasciato diversi punti interessanti in sospeso che uno scrittore con un minimo di talento avrebbe potuto utilizzare per un bel sequel, per un prequel, per un whatif o un crossover
Pur non essendo io uno scrittore di talento (e nemmeno uno scrittore tout-court), l’idea mi solleticava. Avrei potuto provarci, sì, ma in che modo? Rimuginandoci sopra giorno e notte, finalmente mi scattò la molla, anzi due: in primo luogo c’era lo strano uso che Lovecraft aveva fatto della pietra nera, quella che Akeley aveva inviato per posta a Wilmarth. Come sono certo ricorderete, il pacco svanì nel nulla in modo da far ipotizzare che qualcuno, sotto il controllo degli alieni, avesse provveduto a intercettare e poi distruggere il prezioso reperto. 
Quel passaggio, personalmente, mi è sempre parso un po’ debole, con tutto il rispetto per il mio scrittore preferito. Sebbene quel piccolo accadimento sia perfettamente funzionale alla storia, rappresentando in maniera evidente il giro di boa tra le due metà del racconto, così nettamente distinte fra loro, ho sempre avuto l’impressione che fosse un po’ una soluzione di fortuna. Ho sempre creduto, per dirla in altre parole, che Lovecraft avrebbe potuto trovare ben altro modo per far funzionare "The Whisperer in Darkness". Ma questa è di certo una mia personalissima sega mentale. 
Ad ogni modo, basandomi su quella mia vaga sensazione, ho voluto immaginare che quel pacco postale non fosse stato davvero sottratto dagli alieni o da qualche umano in combutta (coercitiva o meno) con loro. Ho immaginato che il pacco fosse finito chissà dove a causa di un disservizio delle Poste e che, per una strana combinazione del destino, potesse materializzarsi sulla scrivania del discendente di uno dei protagonisti originali. L’idea, me ne rendo perfettamente conto, non è molto originale, ma di fatto avevo trovato un modo plausibile per inserire nel mio piccolo racconto un punto di contatto tra passato e presente. Tutto ciò però non mi bastava ancora, ma grazie al cielo scattò in me quella seconda molla riflettendo sui tanti riferimenti a Plutone presenti nel racconto originale.

Yuggoth! Rehearsals (Pt.2)

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LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Come molti di voi avranno senz’altro sentito dire, Howard Phillips Lovecraft, grande appassionato di astronomia oltre che scrittore talentuoso, aveva da sempre ipotizzato l’esistenza di un pianeta transnettuniano (chiamato Yuggoth, nel suo immaginario) e ne era così certo che non esitò a menzionare quella sua idea in una lettera inviata al prestigioso Scientific American già nel 1906, quando il nostro era appena sedicenne. 
Plutone, come sappiamo, non venne scoperto che nel maggio del 1930, un quarto di secolo dopo le riflessioni del giovane Lovecraft. Quest'ultimo, che in quei giorni aveva appena iniziato la stesura di The Whisperer in Darkness, decise di citare il nuovo pianeta nel testo, precisamente là dove dice: “Gli astronomi l'hanno battezzato Plutone senza rendersi conto quanto gli si adatti quel nome! Sono profondamente convinto che altro non è che Yuggoth, e rabbrividisco chiedendomi perché, in base a quale piano, i mostri ne abbiano consentito la scoperta.” E più avanti dove invece dice: “Ecco tutto. Sono fortunato di non aver perso la ragione. Talvolta pavento quanto ci porteranno gli anni futuri, soprattutto da quando è stato scoperto il nuovo pianeta, Plutone.” Howard Phillips Lovecraft immaginava Yuggoth/Plutone come “l'avamposto di una terrificante razza interstellare il cui luogo d'origine doveva trovarsi molto al di fuori della nostra galassia”.
Secondo Lovecraft gli alieni in questione, molto più simili a crostacei che agli esseri umani, avrebbero scelto l’unico pianeta non ancora classificato dai terrestri per nascondere le proprie malevole intenzioni (sul fatto che fossero davvero “malevole” c’è in realtà tutta una letteratura sulla quale, e permettetemelo, sorvolerei). In un altro passaggio HPL scrive che: “Esso [Plutone, ndr] sarà scoperto dai nostri, quando Quelli-di-Fuori lo desidereranno.” E ancora: “Sono contento che [la lettera, ndr] sia sparita insieme al rullo e alle fotografie; e mi rammarico, per le ragioni che esporrò in seguito, che sia stato scoperto un nuovo pianeta al di là di Nettuno”.

La mia idea a questo punto l’avrete già capita. Se HPL aveva scritto il suo racconto nel fermento della scoperta del nono pianeta da lui ipotizzato, perché non immaginare di riproporre quelle stesse vicende 85 anni più tardi, ambientandole nei famosi giorni in cui la sonda spaziale New Horizon trasmetteva a Terra le prime immagini di Yuggoth? Gli avvenimenti, come sappiamo, sono piuttosto recenti (questo avveniva esattamente un anno fa, per essere precisi) e, ho pensato forse con un pizzico di presunzione, è molto probabile che a questo collegamento non abbia ancora pensato nessuno. In realtà, quando nel luglio scorso il mondo vide finalmente il vero volto di Plutone, milioni di persone dedicarono almeno un piccolo pensiero ai miti di Cthulhu...
Avevo però trovato un secondo modo di associare due avvenimenti distanti 85 anni uno dall’altro. Non solo, avevo anche la possibilità di chiudere il cerchio. E potevo farlo in un testo di ventimila battute scarse (una dimensione che mi è sempre para molto adatta al formato del blog). Mi mancava solo di inserire i due avvenimenti nello stesso contesto. Se per la Pietra nera mi era bastato lo stratagemma del disservizio postale, per Plutone non ho trovato di meglio che avvolgere la Pietra nera nella pagine di un quotidiano del passato e spedire letteralmente il “Plutone” del 1930 nella realtà del 2015. 
Tecnicamente ho però creato quello che taluni definirebbero un OOPArt (acronimo derivato dall'inglese Out Of Place ARTifacts, «manufatti, reperti fuori posto»): infatti, nel racconto originale il narratore, pur vivendo in un presente del 1930, raccontava avvenimenti accaduti due anni prima, nel 1928. Va da sé che, nella visione di Lovecraft, Albert Wilmarth non avrebbe mai potuto incartare la Pietra nera nel foglio di un giornale che non era ancora stato pubblicato. 
Veniamo ai personaggi. Era fondamentale mantenere un collegamento saldo tra i protagonisti del passato e quelli del presente. Henry Akeley, secondo HPL, aveva un figlio, tale George Goodenough Akeley, che molti anni prima delle vicende narrate si era già trasferito a San Diego. Avrei potuto agganciarmi a quella discendenza, senonché qualcun altro lo aveva già fatto anni prima in un sequel apocrifo di "The Whisperer in Darkness" di cui parleremo più avanti. Non mi rimaneva che appoggiarmi alla discendenza di Albert Wilmarth… e così feci. 
Albert Wilmarth, secondo lo scrittore del New England, insegnava letteratura inglese alla Miskatonic University nel 1927. Possiamo quindi benissimo localizzarne la nascita una cinquantina di anni prima, diciamo nel 1877. Un eventuale discendente che possa svolgere lo stesso ruolo nel 2015 (particolare che in parte spiega la consegna nelle sue mani di un pacco indirizzato ad altra persona) non può che esserne il nipote, se non addirittura il bisnipote. 
Ho scelto per lui il ruolo di nipote perché preferivo che il mio protagonista fosse un bel po’ oltre la mezza età, in modo da potergli regalare quel po’ di esperienza accademica che non guasta. Secondo il suo ideatore Albert Wilmarth, come dicevo poco fa, insegnava letteratura inglese, ma nel mio scarabocchio ho invece deciso di nominarlo “Direttore del dipartimento di letteratura alla Miskatonic University”. Questo particolare non è campato per aria: fu infatti Fritz Leiber, altro mostro sacro della letteratura fantastica, a riprendere lo stesso personaggio e a fargli fare carriera: nel suo romanzo "To Arkham and the Stars", scritto e presumibilmente ambientato nel 1966, Fritz Leiber promosse infatti Wilmarth a “Chair of Miskatonic's Literature Department”. 
Avevo però bisogno almeno di un altro personaggio nella mia blog-novel, un personaggio che interagisse seppure a distanza con il mio protagonista. Tale personaggio non doveva fare un granché, solo imbeccarlo un attimino fornendogli qualche piccola informazione che potesse metterlo sulla pista giusta. Ho pensato a un professore di una certa età, domiciliato, guarda un po’, nei luoghi che furono scenario degli avvenimenti del 1930. Il nome Noyes non è affatto casuale, come avrete senz’altro capito. Si chiamava infatti così quel sinistro personaggio di "The Whisperer in Darkness" che pareva essere controllato dagli alieni, lo stesso personaggio che, sospettiamo, fu anche responsabile di tutte le porcherie del racconto originale, dalla sottrazione del pacco con la pietra nera alla xxxxxx del vecchio Akeley (quelle cinque x sono lì per evitare uno spoiler colossale, casomai qualcuno non avesse letto "The Whisperer in Darkness"). Anche il nome di battesimo di Noyes, sebbene mai precisato nel racconto di Lovecraft, non nasce dal caso... ma di questo particolare parleremo più diffusamente la prossima volta.

Yuggoth! Rehearsals (Pt.3)

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LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Nella prima parte di questo articolo avevo accennato all’esistenza di alcuni punti in comune tra l’universo di Lovecraft e quello ideato da Ambrose Bierce e sviluppato in seguito da Robert W. Chambers. In realtà, a parte l’evidente rassomiglianza che i miti di Cthulhu hanno con le meno celebri leggende di Carcosa, nell’immensa produzione lovecraftiana esistono pochissimi riferimenti al lavoro dei suoi predecessori e, lo avrete già capito, tali riferimenti sono praticamente tutti inclusi in un singolo racconto, quel “The Whisperer in Darkness” con il quale vi sto tediando da ormai diverse settimane.
Nello specifico, sono due i passaggi che è necessario prendere in esame. Il primo, che ho ripreso praticamente tale e quale nel mio “Yuggoth!”, recita: “Lessi nomi e parole che avevo già sentito altrove e che sapevo riferirsi ai misteri più orridi: Yuggoth, il Grande Cthulhu, Tsathoggua, Yog-Sothoth, R'lyeh, Nyarlathotep, Azathoth, Hastur, Yan (Luogo), Leng (luogo), il lago di Hali, Bethmoora, il Segno Giallo, L'mur-Kathulos, Bran e il Magnum Innominandum; fui condotto in mondi estranei al nostro, di cui l'autore del Necronomicon aveva vagamente intuito l'esistenza; presi conoscenza degli abissi della vita originale, delle diverse correnti che ne derivano, e, finalmente, d'una mostruosa mescolanza che si era prodotta tra quelle correnti e un ulteriore abominio venuto dall'esterno”.
Credo sia superfluo dire che i punti che attirano immediatamente la nostra attenzione sono il Segno Giallo, il lago di Hali e il misterioso Hastur. Quest’ultimo punto ci riporta ad un’annosa questione che avevamo lasciato aperta: molto tempo fa ci eravamo chiesti se considerare “Hastur” un nome proprio di persona oppure un toponimo. Ero quasi tentato di riprendere oggi l’argomento ma ho realizzato che sarei finito fuori tema, per cui non mi resta che promettere di ritornarci su in seguito.
Il secondo passaggio invece recita: “Esiste una setta segreta di uomini malvagi (l'erudito che è in lei comprenderà facilmente che mi ricollego a Hastur e al Segno Giallo) il cui solo scopo è di catturarli e di ucciderli per conto di potenze mostruose appartenenti ad altre dimensioni. È solo contro questi aggressori che sono dirette le rigorose misure difensive di Quelli-di-Fuori.
Questo è un altro punto che ho voluto in qualche modo omaggiare nel mio “Yuggoth!”, sebbene il collegamento con Lovecraft sia piuttosto oscuro. Nel mio raccontino trovate infatti, nella parte finale, il seguente brano: “Lessi di una guerra che perdurava da milioni di anni, […] Demhe e Hastur, due immense nazioni che cercavano di annichilirsi a vicenda, […] i loro eserciti avevano più volte, nel corso della storia, spostato il loro campo di battaglia qui da noi, […] “Fraternitatis Sancti lúmine”, “Fraternitatis Crocus Signo”, dove diavolo avevo già sentito quei nomi?
Se il traduttore di Google non mi ha ingannato, “Fraternitatis Sancti lúmine” e “Fraternitatis Crocus Signo” dovrebbero essere la traduzione in latino, rispettivamente, de “La fratellanza della luce spirituale” e de “La confraternita del segno giallo”. Per inciso ho scelto il latino solo perché mi piaceva di più, senza una ragione contingente. Diciamo che, nella mia testa, il nome di una confraternita è più “appealing” se lo si legge in latino; il latino rende il tutto un po’ più, come dire, misterioso, massonico, alchemico…
In poche parole, ho cercato di dare un nome ai due eserciti contrapposti ai quali Lovecraft, nel brano precedente, ha soltanto vagamente accennato, e in un brano a cui magari in pochi hanno fatto veramente caso ma che, se questa sua interpretazione fosse confermata, aprirebbe le porte a uno scenario pazzesco: una sorta di Hastur Vs Cthulhu, roba da far impallidire i più imponenti crossover della Marvel o della DC Comics. Ora che ci penso, potrei quasi quasi arricchirmi se riuscissi a proporre un soggetto del genere a Hollywood…

Senza divagare troppo, torniamo però al punto in cui ci eravamo lasciati qualche giorno fa: nella parte dei miei appunti sulla genesi di “Yuggoth!” avevo promesso di spiegare quali erano stati i meccanismi che mi avevano portato alla scelta del nome Ezra Noyes per uno dei miei personaggi. Un tizio di nome Noyes, come già avevo riferito, era presente nel racconto originale di Lovecraft, ma il nome di battesimo, omesso da Lovecraft, lo dovetti recuperare da tutt’altra parte. Precisamente, “Ezra” proviene da una curiosa novelette intitolata “Documents in the Case of Elizabeth Akeley” che, con più di trent’anni di anticipo rispetto al sottoscritto (era il 1982), ha immaginato un sequel per “The Whisperer in Darkness”.
L’autore del racconto in questione si chiama Richard Allen Lupoff, esponente americano di letteratura fantascientifica (ma noto più che altro per il suo impegno come editore di fanzine, una delle quali gli valse l’Hugo Award nel 1963). In “Documents”, Lupoff immagina che George Goodenough Akeley, per anni leader di una specie di congregazione esoterica non meglio identificata, abbia avuto una figlia, Elizabeth, che alla morte del genitore avrebbe preso in gestione la Chiesa stessa. Una chiesa che, per la cronaca, si autodefinirebbe “Spiritual Light Brotherhood”, particolare che ci ricollega a quanto detto nella lunga premessa a questo articolo. Nulla è stato lasciato al caso, come vedete.
Richard Lupoff decise di ambientare le vicende di “Documents” nel 1979, vale a dire in un contesto di trentasei anni antecedente al mio. Tecnicamente la cosa è perfettamente possibile se consideriamo che la nipote di Akeley, Elizabeth, è descritta come giovanissima, mentre il nipote di Wilmarth da me immaginato è parecchio avanti negli anni. Questa discrepanza temporale mi ha però costretto ad effettuare delle scelte precise per “Yuggoth!” allo scopo di non interferire, per quanto possibile, con quanto concepito da questo mio secondo, illustre predecessore.
Dopo varie riflessioni, devo però ammettere che questo gap temporale mi ha portato più benefici che altro: per la mia “fan-novel” avrei infatti potuto approvvigionarmi anche da “Documents”, creando quindi un’opera che rappresentasse un doppio omaggio (o una doppia scopiazzatura, se preferite giudicare cinicamente il mio operato).
Ecco quindi che arriviamo a Ezra Noyes, un personaggio dai contorni piuttosto oscuri che nel 1979, giovanissimo, aveva incrociato la strada di Elizabeth Akeley e che, trentasei anni più tardi, avrebbe interagito con Andrew Wilmarth. I particolari che ho illustrato in “Yuggoth!” a proposito di Ezra Noyes, vale a dire la rivista Intelligencer e il gruppo denominato Vermont UFO Intelligence Bureau, sono anch’essi farina del sacco di Richard Lupoff.
Vorrei raccontarvi molto di più di “Documents in the Case of Elizabeth Akeley”, ma il tempo e lo spazio sono tiranni e, nota a margine, non è questo lo scopo di questo articolo. Se tuttavia avete modo di recuperare il racconto (credo mai tradotto in italiano), e se siete affamati di curiosità sull’opera di Lovecraft, scoprirete grazie a “Dick” Lupoff un’incredibile quantità di dettagli sulla dinastia Akeley.
Ramsey Campbell, per inciso, ha definito il racconto di Lupoff ”uno dei migliori racconti lovecraftiani che abbia mai letto". E non c’è bisogno che vi ricordi chi è Ramsey Campbell, no?

Questo è più o meno tutto quello che c’era da dire su “Yuggoth!” e sulla sua genesi. Ci sarebbe in realtà da aggiungere almeno un accenno alle piccole citazioni pseudo-bibliche, ma mi pare di aver già abusato troppo della vostra attenzione. E poi, credeteci o no, comincio a essere stanchino. The Obsidian Mirror pertanto si concede una pausa tonificante, appende alla porta di casa il consueto cartello “Chiuso per ferie” e si rende irrintracciabile per qualche settimana. Questo spazio riaprirà verso la fine di agosto o giù di lì. Dite che basta per ricaricare le pile? Sì? No? Boh? Beh, vedremo. Il sottoscritto vi saluta caldamente, vi abbraccia vigorosamente e spera di ritrovarvi tutti quanti all’appuntamento con una nuova imperdibile stagione ossidianica. STAY GOTHIC! \m/

Si alzi il sipario

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Facciamo che si ricomincia, che dite? Ma sì, ricominciamo. Tanto ormai agosto è agli sgoccioli e le vacanze, che poi vere vacanze per me non sono state, sono una cosa a cui si potrà ripensare tra qualche tempo. Non è per nulla facile tuttavia buttare giù questo ennesimo incipit, considerati tutti gli avvenimenti dolorosi che stanno insanguinando il nostro e gli altri paesi. A volte mi chiedo se abbia senso uscire con un post infarcito di sciocchezze come questo, uno di quelli dove si parla di tutto e di niente e che sono solito scrivere in occasioni come questa. Poi ci rifletto un attimo, e mi dico che in fondo mettersi a scrivere di sciocchezze ai miei livelli è sempre meglio che dirle o farle ad altri livelli.
Scrivere, leggere. Non c’è nulla di più lontano dal poter essere definito una sciocchezza, nonostante i creativi di quella nota catena di articoli sportivi abbiano recentemente suggerito il contrario. In questo mese di pausa blog avrei in realtà voluto leggere molto di più, per poter poi proporre il mio solito post di recap settembrino dedicato alle mie letture estive. Ahimè, così non è andata. Qualcosa ho letto, ma non moltissimo, o almeno non quanto avrei voluto. A posteriori mi giustifico pensando che in fondo ho staccato dal lavoro una sola settimana e, per quante cose puoi provare a ficcarci dentro in una settimana, non ci vuole molto affinché questa si riempia a tappo. E così è stato.

Come ogni agosto, da tre anni a questa parte, sono riuscito a fare la mia piccola puntatina al Festival del Film di Locarno, che dista non più di un paio di ore di macchina da casa mia. Una trasferta fattibilissima e tutto sommato poco impegnativa, considerato che proprio di “puntatina” si tratta (praticamente un solo giorno con pernottamento e rientro il giorno successivo per cena). Non avevo effettivamente molta voglia di fare di più visto che due giorni su sette, anche se non sembra, sono quasi mezza vacanza. E poi non è che si poteva lasciare da sola a casa la Piera (vedi foto in alto) per più di una notte, poverina. Anche se le numerose ciotole di crocchette lasciate tatticamente in giro per casa erano ancora quasi tutte piene, a me devasta l’anima starmene in giro quando la mia gatta, a casa, non ha nessuno a cui crogiolare. 
Tornando a Locarno sono riuscito a vedere un paio di film, uno orrendo e da dimenticare, e l’altro invece decisamente piacevole, al punto che vorrei riuscire anche a parlarne qui sul blog una volta o l’altra. A completamento dell’esperienza locarnese, mi preme far menzione del piacevole incontro avuto con Frank Viso del blog Visione Sospesa, seppur schiacciato in un tempo brevissimo dovuto a tabelle di marcia, per entrambi, estenuanti. Ci saranno comunque altre occasioni, spero. 

Non sono riuscito a leggere come avrei voluto, dicevo pocanzi. Non mi riferivo solo a romanzi, racconti e fumetti, naturalmente, bensì anche a quell’operazione di recupero dei post dei miei blogger preferiti che mi ero ripromesso di fare, quei blog che nei mesi precedenti ho per un motivo o per l’altro un po’ trascurato. Operazione fallita, quindi. Credo che a questo punto convenga metterci una pietra sopra e ripartire da zero, cose se nulla fosse successo, sperando che nessuno se ne abbia troppo a male. Il fatto è che, tra le tante cose, avevo anche un profondo bisogno di ignorare gli infiniti stimoli generati dall’osservazione del mio blogroll, da tutti i feed e da tutte le notifiche social che martellano impietose come gocce da un rubinetto chiuso male. 
Ho passato solo un po’ di tempo sulla mia pagina facebook, quasi esclusivamente dallo smartphone, ma tutto lì. Erano secoli che non cazzeggiavo su quel dannato social e devo dire che, nonostante sia effettivamente brutto come me lo ricordavo, in certi casi potrebbe avere un suo perché. 
Tra l’altro ho realizzato, con grande sgomento, che esiste un tizio (o una tizia) che su facebook sta usando da almeno un paio d’anni il nome e il logo “Obsidian Mirror” a mia insaputa, proprio quel logo rosso su sfondo nero che siete abituati a vedere là in cima da tempo immemore. 
Sul nome non avrei nulla da dire, visto che “Obsidian Mirror” non è un vero nome e, tra le altre cose, certo non l’ho inventato io; sul logo qualcosa da dire invece l’avrei, visto che, oltre ad essere una mia creazione, in un certo modo dovrebbe servire a identificare univocamente questo spazio del web. 
Esiste invece un altro posto in tutto e per tutto simile a questo, dai contenuti tra l’altro piuttosto discutibili, che avrei preferito non scoprire. Inutile ovviamente sperare che l’owner di quel profilo possa rispondere ai miei cortesi inviti, così come è inutile appellarsi a facebook visto che, come mi ha risposto, liquidandomi, Mark Zuckerberg, non ci sono gli estremi per lamentarsi. 
Temo quindi che dovrò rassegnarmi a cambiare volto, sebbene a quel volto ormai mi ci fossi abituato. In fondo, mi viene da pensare, è una cosa che prima o poi avrei fatto comunque quella di dare una rinfrescata alla parte grafica del blog. Sta a vedere che alla fine questa cosa sarà servita a darmi un ulteriore stimolo… 

Non ho letto molto, mi ripeto per la terza volta, anche perché nelle ultime settimane ho trascorso molto tempo a scrivere. D’altra parte, come avrei potuto trascurare questa mia creatura per un mese intero? Ho lavorato, seppure off-line, anche parecchio, se devo dirla tutta. E il risultato di tanto lavoro potrete cominciare a gustarlo a partire dal primo di settembre, quando andrà finalmente in onda la seconda parte dello speciale Ghost in the Well. Avete quindi ancora qualche giorno di tempo per andarvi a ripassare la prima parte, uscita come ricorderete lo scorso aprile, e per non farvi trovare impreparati alla riapertura. 
Nel frattempo mi sono divertito a realizzare il solito post-trailer, che potete trovare sul mio canale YouTube. E inoltre sto finendo di impaginare i contenuti e di programmare le uscite dei vari post, un lavoro forse anche più faticoso dello scrivere. Mi manca, in verità, ancora da mettere nero su bianco la parte conclusiva ma, chessarammai, tanto quella andrà online il 30 settembre. Ho davanti un sacco di tempo. Che altro dire? Grazie per essere ritornati su The Obsidian Mirror. Mi auguro che non abbiate di che pentirvi…

The Ring Virus

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Sembra quasi ieri che questo lunghissimo speciale su Ringera stato messo in pausa. Sono passati invece quattro lunghi mesi, quattro mesi durante i quali siamo passati dal freddo al caldo più insopportabile a temperature di nuovo accettabili, almeno qui da me. Se fossimo in una serie televisiva, a questo punto ci starebbe bene un riassunto delle puntate precedenti, ma visto che qui non facciamo televisione, e visto che i post precedenti all’occorrenza sono facilmente recuperabili, direi che possiamo senz’altro saltare a pie’ pari tutti i convenevoli, con la sola raccomandazione, qualora ve ne fosse bisogno, di fare mente locale su tutto quanto è già stato detto e su quanto ci eravamo ripromessi di andare a dire. 
Nell’ultimo articolo della prima serie avevamo dedicato poche parole a quello che, per quello che ci era allora dato di sapere, rappresentava uno dei capitoli più anomali dell’intera saga. Il sequel “apocrifo” (il virgolettato è necessario) fu girato appena dopo la prima versione di Hideo Nakata e rappresentava (o avrebbe voluto rappresentare) la trasposizione cinematografica del secondo romanzo di Kōji Suzuki, vale a dire “Spiral”, che di “Ring” (ovvero del cerchio) rappresenta una delle possibili evoluzioni, non ultima quella geometrica. A differenza del sequel ufficiale, come avevamo visto, in Spiral la videocassetta cessava improvvisamente di essere essenziale nell’economia della vicenda. Era risultato ben presto evidente, senza doversi inoltrare nuovamente nella questione, che il titolo del film (ma anche, sottolineamolo, del romanzo) fosse un chiaro riferimento alla genetica e, nello specifico, alla struttura a doppia elica del DNA: se era questo lo sviluppo che aveva previsto lo scrittore giapponese, allora ci vediamo costretti a rivedere sotto una diversa luce tutto quanto è emerso nei lungometraggi che abbiamo già analizzato, vale a dire nel secondo Ring di Nakata e in Ring 0  (immaginato come un prequel) di Norio Tsuruta.

In questa seconda parte dello speciale, pertanto, oltre a tirare i tanti fili lasciati in sospeso proveremo a esplorare anche questo nuovo sentiero. Oggi cerchiamo invece di chiudere il percorso suggerito da Hideo Nakata spostandoci a Seul, in Corea del Sud, dove nemmeno un anno dopo il primo Ring uscì un’ennesima quanto clamorosa (e inaspettata) rivisitazione delle vicende di Sadako Yamamura. Vi chiederete a cosa possa servire un remake asiatico di un horror asiatico: me lo sono chiesto anch’io, in effetti! Ancora una volta stiamo infatti parlando di un tassello assolutamente superfluo, una brutta copia dell’originale realizzata frettolosamente a esclusivo uso e consumo del mercato coreano. Il motivo è forse da ricercarsi nella speranza di generare “cash-flow” ai botteghini con un prodotto dall’enorme potenziale teorico, arricchito dalla presenza di giovani attori dall’altrettanto evidente enorme potenziale.
Come nel Ring di Hideo Nakata, il protagonista indiscusso del quale seguiamo con apprensione le vicende è una donna, sebbene il nome Asakawa si trasformi qui nel ben più nazionalistico Sun-Joo.
Interpretata da una convincente Shin Eun-Kyung, la nostra eroina indaga sulla misteriosa morte della nipote, finendo dritta come un fuso in balia della videocassetta fatale che uccide nel giro di sette giorni chiunque ne prenda visione. Praticamente, niente di nuovo sul fronte orientale.
Particolare curioso: l’attrice Shin Eun-Kyung, che in seguito sarebbe diventata celebre con la serie di culto “My Wife is a Gangster”, sarà protagonista, qualche anno dopo “The Ring Virus”, dell’horror giapponese “Uzumaki”, tratto dall’omonimo manga di Junji Itō (ne abbiamo parlato qui) nel quale le vicende ruotano attorno a una città colpita dalla maledizione delle spirali! Viene quasi naturale a questo punto affermare che la vita non è altro che una spirale… fine dell’inciso.

Esattamente come nel film di Nakata, Sun-Joo è assistita da un ex marito (Choi-Yul, la versione coreana di Ryūji) che l’accompagnerà nella sua lunga opera di ricostruzione dei fatti, risalendo sino alla triste vicenda di Sadako Yamamura, che per l’occasione è anch’essa ribattezzata nella più accettabile, linguisticamente parlando, Park Eun-Suh.
Sebbene ampie parti di questa versione coreana si rifacciano molto più fedelmente al romanzo, come il caratteristico ermafroditismo di Sadako, le circostanze della sua morte e, non ultima, l’appassionante analisi del video maledetto (che abbiamo visto qui), “The Ring Virus” può considerarsi a tutti gli effetti un “clone” dell’omonimo film di Nakata  (il titolo internazionale “The Ring Virus”, sebbene possa lasciar sperare in quel passaggio a una fase successiva già vagamente accennata in Spiral, è in realtà abbastanza casuale, tenuto conto che il regista Kim Dong-Bin aveva originariamente intitolato il suo film, senza un grande sforzo di fantasia, Ring).
Il risultato, come dicevo, è in tutto e per tutto un clone, uno di quelli pessimi che tentano in tutti i modi di replicare con scarso successo un po’ tutto, inclusa la regia che, senza alcuna vergogna, preleva pari pari dal film di Nakata anche le inquadrature e le angolazioni di ripresa. Anche Sadako, che ci aveva terrorizzato non più di un anno prima, appare del tutto priva di mordente, nonostante il visino ambiguo prestatole da Bae Doona, attrice ai tempi sconosciuta ma con qualità tali da permetterle di sbarcare da lì a poco sul palcoscenico internazionale (Sympathy for Mr. Vengeance, The Host, Cloud Atlas).

Gli stessi dialoghi, che cercano di rifarsi al film di Nakata, vengono qui riproposti un po’ a casaccio, quasi come se lo sceneggiatore avesse buttato giù i suoi appunti tentando di ripescare dalla memoria le battute di un film visto molto tempo prima. Credo che se uno spettatore si trovasse ad affrontare la visione di “The Ring Virus” senza conoscere nulla della vicenda, ne uscirebbe completamente confuso e disorientato (se non incazzato). Nemmeno il finale, completamente insipido, riesce a risollevare “The Ring Virus” dalla mediocrità. E, a mio parere, la mediocrità è quasi peggio del fallimento. Il peggior difetto di questo film, in effetti, è che si è pronti a dimenticarlo un minuto dopo averlo visto. Non un gran biglietto da visita per un horror, no? 

Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 15 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato qui lo scorso aprile. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 15° candela...

Ghost in the well

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Nel corso della prima parte di questo speciale ci siamo addentrati nella meandri della leggenda di Okiku, quell’affascinante personaggio del folklore giapponese al quale la saga di Ring deve in qualche modo la sua stessa esistenza. La vicenda di Okiku, uno dei fantasmi più celebri e celebrati del paese, si tramanda ormai da diversi secoli (almeno quattro, stando alle testimonianze giunte sino a noi), e nel corso del suo lungo cammino i suoi contorni si sono più volte alterati, come è normale che avvenga quando la sopravvivenza di una leggenda è affidata alla narrazione orale, lasciando spazio a un incredibile numero di variazioni sul tema.
Abbiamo già descritto alcune di queste versioni qualche mese fa e tutte hanno in comune il finale tragico, quello che vede la giovane serva Kiku gettata in un pozzo e lì abbandonata a una lenta agonia. L’assassino il più delle volte è identificato in un samurai ribelle, Aoyama Tessan o Asayama Tetsuzan, un uomo reso folle di desiderio a causa del suo amore non corrisposto. In altre, rare occasioni si è preferita una soluzione più romantica, lasciando al succitato samurai la più positiva parte del paladino della giustizia. Comunque vadano le cose, Okiku trova una delle morti più terribili che si possano immaginare e, com’è quasi superfluo sottolineare, lo spirito di Okiku, una volta abbandonate le spoglie mortali che lo tenevano prigioniero, si trasforma in un temibile onryō (怨霊), un inarrestabile “terminator” vendicativo che non farà fatica a trovare la strada di ritorno dal regno dei morti.
Quello a cui non avevamo accennato, e lo faremo oggi, è la versione più edulcorata del dramma, e probabilmente anche la più celebre. Come già accennato, si tratta in buona sostanza di una storia d’amore, se pure portata alle estreme conseguenze. Siamo ben lontani dalle vicende che varranno a Sadako la genesi delle caratteristiche che conosciamo ma, come spesso accade nel cinema e nella letteratura moderni, Kōji Suzuki e Hideo Nakata preferirono dare maggiore enfasi al lato macabro della questione anziché concentrarsi sui fatti che trasformarono in dramma una vicenda dalle tinte rosa.
Per raccontare il lato più romantico di Okiku, facciamo ora un salto indietro di cinquant’anni e andiamo a scoprire un vecchio film quasi dimenticato che fu girato da un regista giapponese piuttosto celebre a quel tempo. Toshikazu Kōno riprese quel vecchio spettacolo kabuki Banchō Sarayashiki, di cui abbiamo parlato diffusamente la volta scorsa, ribattezzandolo Kaidan Banchō Sarayashiki (Ghost in the Well, 1957) e trasformandolo in un incredibile mediometraggio di quarantacinque minuti, girato in quel bianco e nero d’epoca che, visto oggi, contribuisce a rendere l’esperienza cinematografica davvero unica.
Ma come? Non avevamo detto tempo addietro che il primo a portare sullo schermo le vicende di Sadako fu il regista Chisui Takigawa, che con il suo Ring: Kanzenban, nel 1995, anticipò di ben tre anni il successo di Hideo Nakata? E adesso? Stiamo forse spostando indietro la questione di ulteriori 40 anni? In un certo senso è proprio così e non c’è nulla di cui stupirsi, considerato che stiamo parlando di una storia vecchia di secoli. Nella pratica però non va dimenticato che Sadako è inequivocabilmente farina del sacco dello scrittore Kōji Suzuki, e sarebbe forse eccessivo sottrargli, in poche righe, il merito di tutto ciò di cui abbiamo parlato sino a ora. D’altra parte, Ghost in the well ci racconta proprio tutta un’altra storia, sebbene al pari di Ring sia stato ispirato dalla stessa vicenda.

Siamo a Yoshiwara, il quartiere del sesso dell’antica Edo, dove facciamo subito la conoscenza di Harima Aoyama (Chiyonosuke Azume), uno dei samurai di grado più elevato dello shogunato Tokugawa. Aoyama è proprio come potremmo aspettarcelo per via della sua giovane età: una testa calda, sempre in cerca di una scusa per sguainare la spada. Proprio nell’antefatto di Yoshiwara, egli si troverà coinvolto nel diverbio che segnerà il suo destino. Harima Aoyama non è una brutta persona: il suo sentimento nei confronti della giovane serva Okiku appare sin dall’inizio sincero, nonostante gli ovvi impedimenti dovuti alla netta differenza di classe sociale. La stessa Okiku, dopo un iniziale tentennamento, si accorge della profondità dei sentimenti di Aoyama e volentieri inizia a cedere alle sue attenzioni, acconsentendo implicitamente a rimanere nell’ombra nella paziente attesa che il suo signore possa trovare il modo di rendere pubblico il loro amore. Ma le cose non sono così semplici nel Giappone feudale e minacciose ombre si addensano all’orizzonte: lo Shogun, venuto a conoscenza dei fatti di Yoshiwara, decide di prendere seri provvedimenti nei confronti di uno dei partecipanti alla rissa che, contravvenendo alle sue disposizioni, ha disturbato la quiete pubblica, e lo invita bruscamente al suicidio rituale. Prima che lo stesso provvedimento colpisca anche Aoyama, il capofamiglia riesce a organizzare rapidamente per lui un matrimonio “politico” con una fanciulla di pari grado sociale: in cambio della protezione del futuro suocero, che si impegna a intercedere presso lo Shogun per salvare la vita di Aoyama e garantire la sopravvivenza dell’intero clan, la famiglia della sposa riceverà una preziosa collezione di piatti finemente decorati che da generazioni rappresenta il più grande vanto della famiglia di Aoyama. Una collezione celebre per la sua bellezza ma che, leggenda vuole, è anche stata per secoli la vera chiave della fortuna della famiglia: con una simile prospettiva, il futuro suocero è ben lieto di acconsentire subito alla celebrazione del matrimonio.

Come avrete senz’altro capito, siamo di fronte a una della tante storie di amori impossibili di cui scrittori di ogni epoca hanno inondato pagine su pagine. Anche il tragico finale, che vedremo tra un attimo, non ha nulla da invidiare a vicende ben più note a noi occidentali. Okiku e Aoyama si struggono di passione e sofferenza, ma nulla possono fare per opporsi al volere del fato. Giunge il fatidico giorno dell’incontro di Aoyama con la famiglia della sposa, il giorno in cui è prevista la consegna dell’inestimabile dono. È la stessa Kiku a doversi occupare della preparazione dei piatti, ma il destino vuole che, fra un sospiro e l’altro, alla giovane serva uno di questi scivoli di mano e si infranga a terra. Quale punizione può essere adeguata per rimediare, almeno in parte, a un simile disastro? La preziosa collezione è ora incompleta e Aoyama sa che questo sarà la fine della sua casata; la promessa di matrimonio non potrà più essere onorata e, dietro l’angolo, si profila la lunga ombra vendicatrice dello Shogun. Aoyama sa che dovrà uccidere Okiku con la sua stessa spada, se non altro per mantenere integro il suo onore di samurai, ma la sua mano non riesce a sollevarsi sull’oggetto del proprio amore. Okiku se ne accorge e, rendendosi conto della situazione, cerca di convincere l’amato a rinunciare a ogni indugio, ben disposta al sacrificio pur di alleviare la sua colpa e mettere a tacere la propria sofferenza, e pur di offrire ad Aoyama una possibilità di riscatto sociale. Ma la mano del samurai non accenna ancora a colpire. Colta dalla disperazione, Okiku afferra un altro piatto e, questa volta volontariamente, lo infrange a terra. Travolto dall’ira, Aoyama trova la forza di portare a termine il suo dovere. Per un attimo lei sembra cambiare idea, lo prega di non ucciderla e gli ricorda la sua promessa d’amore, ma è troppo tardi. Ferita a morte, Okiku si trascina in cortile, verso il pozzo e, traboccante d’amore, vi cade dentro.
Il seguito non starò qui a raccontarlo nel dettaglio, visto che magari avrete voglia di recuperare Ghost in the well e godervelo in santa pace sullo schermo di casa. Sappiate solo che la storia d’amore tra Aoyama e Kiku non si conclude con la morte di quest’ultima, ma questo immagino fosse facilmente prevedibile.

Curiosamente, in questa versione della leggenda Okiku si trasforma in uno Yurei (fantasma), ma non in un Onryo (fantasma vendicativo), il che rappresenta un particolare davvero unico e singolare rispetto alla norma. D’altra parte non è solo il rancore a poter trascendere la morte, bensì anche un amore profondo e irraggiungibile, meglio ancora se mai appagato. È con questa stessa premessa che il regista ha innestato temi che riguardano la tradizione e l’onore, cioè due temi cardine della filmografia legata alla figura del samurai, su un tipico canovaccio da kaidan, permeando però il tutto di un romanticismo struggente che finisce per prevalere. Comunque sia, mancando del tutto il tema della vendetta definire questo film un horror sarebbe riduttivo...

Affermare che il primo Ring cinematografico sia questo “Ghost in the well” del 1957 vorrebbe forse dire peccare di presunzione o, molto più semplicemente, non andare molto a fondo nella questione. Un’opera talmente celebre come il Banchō Sarayashiki non ha certamente dovuto attendere così tanto per poter vantare una trasposizione sul grande schermo. Secondo IMdB infatti vi sono stati numerosi altri tentativi, più o meno riusciti, in tal senso, ma il tempo, la distanza e la cultura a noi così estranea probabilmente non hanno permesso all’eco di tali opere di giungere sino a noi. Il celebre database online farebbe infatti riferimento a diversi Banchō Sarayashiki, la maggior parte dei qualirisalenti all’epoca del muto.In rigoroso ordine cronologico esisterebbero: un Banshû sarayashiki, cortometraggio del 1911; un Shin sarayashiki, cortometraggio del 1911; un Shin sarayashiki, cortometraggio del 1912; un Banshû sarayashiki, cortometraggio del 1913 interpretato da Kangorō Nakamura e Ichinojo Ichikawa; un Bancho sarayashiki, cortometraggio del 1914 diretto da Shozo Makino e interpretato da Matsunosuke Onoe; unBanshû sarayashikidel 1918 diretto e interpretato da Matsunosuke Onoe; un Shin sarayashiki del 1921; un Bancho sarayashiki del 1922 diretto da Jirō Yoshino e interpretato da Genōsuke Sawamura, Tachibana Arashi e Genjūrō Sawamura; un Shin sarayashiki del 1923 diretto da Shirō Nakagawa e interpretato da Ritoku Arashi, Shōzō Arashi e Hōshō Bandō; un Bancho sarayashiki del 1923 diretto e interpretato (ancora!) da Matsunosuke Onoe; un Shin sarayashiki del 1924, diretto da Zanmu Kako e interpretato da Shirōgorō Sawamura; un Banshû sarayashiki, cortometraggio di 8 minuti del 1929 interpretato da Sôsuke Matsui (Aoyama) e da Kazuko Tukushi (Okiku).
Abbandonando l’epoca del muto, ma sempre in epoche antecedenti la nostra “Sadako del ‘57”, saltano fuori due ulteriori versioni: un Bancho Sarayashiki(aka Plate-counting Ghost of Bancho) del 1937 diretto da Taizo Fuyushima e interpretato da Kazuo Hasegawa (Aoyama) e Kinuyo Tanaka (Okiku); un Bancho sara yashiki: Okiku to Harima(aka A Samurai's Love) del 1954, diretto da Daisuke Ito e ancora una volta interpretato da Kazuo Hasegawa (un Aoyama di vent’anni più anziano) e Keiko Tsushima (Okiku).

Che dire quindi di Kaidan Banchō Sarayashiki (Ghost in the Well, 1957)? In tutta onestà, il film di Toshikazu Kōno, che è evidentemente stato solo l’ennesimo di una lunga serie, è stato scelto per questo speciale sul blog solo perché è stato l’unico tra i tanti che sono riuscito a recuperare (vorrei potervi dire dove, ma giuro che non lo ricordo). Provate comunque a cercarlo, se ho destato in voi un po’ di interesse. Se proprio non riuscite a trovare Ghost in the Well, potete comunque ripiegare sul (relativamente) recentissimo Banchosara Yashiki (2002), quarto episodio della serie giapponese 100 tales of horror (sul tubo lo trovate qui). Sebbene sia stato accantonato il particolare del pozzo, il tasso di tragedia nella vicenda rimane immutato e, detto tra noi, ogni tanto un’edificante storia di amore eterno non fa male.

Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 16 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato qui lo scorso aprile. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 16° candela...

Dance of darkness

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Quando nel secondo articolo dello speciale di Ring ho introdotto la figura di Sadako, ho fatto quello che inevitabilmente fanno tutti, chi prima e chi dopo: ho posto l'accento sulle sue caratteristiche fisiche e sul suo incedere claudicante, sbilenco e bizzarro, al limite dell'umano. È giunto il momento di riflettere un momento sulle ragioni per cui tutto ciò appare così terrificante per lo spettatore, quasi oltre la soglia della sopportabilità. La risposta a tale quesito pare ovvia, ma non è detto che lo sia davvero.
Come tutti i fantasmi in cerca di vendetta, anche Sadako ha alle spalle una storia di terribile violenza culminata con la sua uccisione, una storia da cui non si può prescindere. Come tutti i fantasmi, Sadako si mostra alle sue vittime trasfigurata dalla morte, gli occhi spiritati, il viso pallido ed emaciato e i lunghi capelli spettinati, ondeggianti davanti al viso. Il vero colpo di genio di Hideo Nakata è però quello di donarle delle movenze molto particolari: Sadako si muove a scatti, ora lenta ora inaspettatamente veloce, come un maratoneta che risparmi le forze per il rush finale; gli arti assumono pose innaturali, le articolazioni scricchiolano. Nessuna persona nel pieno del vigore e della salute potrebbe mai muoversi a quel modo. Ognuno di quei movimenti è uno spasmo di dolore che ci parla di una lunga e solitaria agonia nelle buie profondità del pozzo.
La Sadako di Nakata, insomma, non comunica solo con il suo aspetto esteriore, ma utilizza il linguaggio del corpo per narrare la sua storia, per mostrarci che è in preda all'odio e al rancore, ma anche che soffre e ha sofferto. Solo il pubblico occidentale può aver pensato che questo fosse qualcosa di nuovo, di mai visto prima: la realtà, per il pubblico giapponese, è un po' diversa.

Abbiamo già visto che Sadako non è altro che la trasposizione moderna (o meglio, la reinterpretazione) di Okiku, la sfortunata protagonista del Banchō Sarayashiki che viene gettata in un pozzo dal suo signore. Okiku, a sua volta, non è che una delle numerose figure del folclore con il tipico aspetto delle donne giapponesi, i capelli corvini e la pelle candida, enfatizzata in tempi remoti dall'usanza di usare pigmenti bianchi sul viso. La lunga veste bianca da un lato evidenzia la purezza di queste figure femminili, in genere divenute fantasmi perché vittime di qualche crimine, e dall'altro la loro condizione di trapassate, perché in Oriente il bianco è il colore del lutto.
Se le sembianze di Sadako hanno origini antiche e ben sedimentate nell'immaginario nazionale, le sue movenze (quel procedere lento interrotto da brusche accelerazioni) hanno invece un'origine molto più recente. Fu infatti verso il finire degli anni '50 del Novecento che in Giappone nacque una forma di danza d'avanguardia chiamata Ankoku-Buyou, più tardi rinominata Ankoku-Butoh, che letteralmente significa “danza delle tenebre”.



L'Ankoku-Butoh, o semplicemente Butoh, fece il suo debutto ufficiale nel 1959 al Festival Giapponese della Danza di Tokyo grazie al genio del coreografo Tatsumi Hijigata (土方 巽, vero nome Kunio Yoneyama, 1928-1986) - che fu anche ballerino e attore - e del ballerino Kazuo Ohno (大野 一雄, 1906-2010) - che ci ha lasciati da qualche anno, ma a novant'anni suonati danzava ancora con grande successo.
Hijigata aveva due grandi amori: la danza e la letteratura. Amante del balletto classico come del jazz e dell'Ausdruckstanz (*), apprezzava opere letterarie provocatorie come quelle di Lautréamont, Artaud, de Sade e Genet e, in generale, il movimento surrealista francese. La sua maggiore fonte d'ispirazione fu però il suo connazionale Yukio Mishima, e non a caso il primo spettacolo di Butoh mai messo in scena, "Kinijiki" (Colori proibiti), fu tratto proprio dal romanzo omonimo di quest'ultimo, un'opera controversa perché, se pure con toni delicati e profondi, trattava il tema dell'omosessualità.
Pare che la direzione del festival, che inizialmente aveva sponsorizzato Hijigata, una volta colte le reazioni sconvolte dei presenti abbia cercato di boicottare lo spettacolo prima che questo avesse fine spegnendo le luci sul palco, e lo abbia poi bandito dal festival. Allo spettacolo prese parte anche Yoshito Ohno, figlio di Kazuo, che in seguito collaborò molte altre volte con Hijigata. La parte più “sconveniente” dello spettacolo fu affidata proprio a Yoshito, all'epoca ventunenne (ovvero, per la legge giapponese, poco più che maggiorenne), e lo vide trattenere un pollo vivo tra le gambe: si pensò, a torto, che l'animale fosse morto strangolato durante la performance, il che non fece che esasperare gli animi.
Anche senza questa memorabile chiusa, “Kinijiki” sembrava creato apposta per dare scandalo, ma la verità è che, semplicemente, per il pubblico giapponese il Butoh era un tipo di spettacolo senza precedenti, sia esteticamente che concettualmente, e forse i tempi non erano ancora maturi perché potesse essere apprezzato al di fuori degli ambienti artistici più all'avanguardia; raccogliendo la lezione tedesca, sceglieva una forma di espressione che si distaccava decisamente da quella della danza classica, ma dove l'Ausdruckstanz mostrava un approccio più psicanalitico, il Butoh era impregnato di Buddismo zen e di una tensione spirituale tipicamente orientale.

Considerato che i danzatori di Butoh non esitano a presentarsi sul palco nudi o seminudi, con la testa rasata e il viso e il corpo dipinto, e si muovono seguendo coreografie che facilmente virano nel grottesco, quando non in un vero e proprio parossismo di violenza, era chiaro che questo stile di danza era destinato a scioccare fin dalla sua prima apparizione. Non bisogna però cadere nell'errore di attribuire troppa importanza all'aspetto dei ballerini, perché la nudità era solo una delle loro possibili “vesti di scena”; in altri casi, questi potevano indossare un costume, minimale o molto elaborato, addirittura barocco; allo stesso modo, la loro testa poteva essere rasata oppure acconciata in maniera molto elaborata; e così via. Quando non indossavano costumi, il loro corpo era dipinto d'oro o d'argento, o di bianco, di nero o di rosso. Sprazzi di colore che riportano alla mente le visioni che, nella filosofia buddista, accompagnano il processo della morte man mano che i quattro elementi del corpo (terra, acqua, fuoco, aria) si dissolvono: la visione bianca, l'apparizione del rosso, il tocco di nero e infine “la chiara luce della morte”. Per questo, non esito a dire che questa danza, persino all'occhio di un profano come me - che sia lenta o frenetica, lineare o dai movimenti contorti e persino nelle sue rappresentazioni più ferine e viscerali – non fa che riproporre la dissoluzione dell'ego resa possibile dalla meditazione. In effetti, il Butoh ha parecchio a che fare sia con lo zen che con le arti marziali, che poi in fondo sono due facce della stessa medaglia, e richiede uno sforzo che non è solo acrobatico, ma anche spirituale ed emozionale.
La riprova la fornisce lo stesso Kazuo Ohno con questa frase, così celebre che la troverete citata praticamente ovunque: "You can dance like a flower, you can imitate it and it will become the flower of everyone, banal and lacking interest; but if on the contrary, you put the beauty of that flower and the emotion that it evokes into your dead body, then the flower you will create will be unique and true".
La chiave è nelle parole “Into your dead body”, perché il corpo deve svuotarsi per potersi riempire (**), non deve recitare una storia o esprimere idee o emozioni astratte ma diventare quelle idee e quelle emozioni; deve morire, simbolicamente, per trasformarsi, farsi contenitore per ospitare le visioni dal subconscio, proprio e dello spettatore, il quale deve poter vedere aldilà della solidità fisica del ballerino, andare “dentro al dentro”.



Là dove le forme classiche di danza ricercano l'armonia e il bello, il Butoh mostra il corpo umano con tutte le sue imperfezioni. Le coreografie non si preoccupano di essere verosimili e sono anzi spesso oniriche e surreali; i movimenti rappresentano la profonda relazione di interdipendenza fra il corpo e la mente, ispirandosi a quel principio di dualità proprio di tutti gli esseri umani, la cui parte più oscura, incluse le pulsioni più nascoste e proibite, è sempre la più inesplorata. In questo senso, il Butoh è una pratica psicanalitica eseguita col corpo, e proprio per questo il risultato può essere gioioso o drammatico, lieve o selvaggio, spirituale o demoniaco ma più spesso tutte queste cose assieme, come una primitiva danza della pioggia volta a portare rinascita e rinnovamento. Si dice, infatti, che Hijigata avesse portato con sé il ricordo indelebile delle danze tribali a cui aveva assistito da bambino nel suo paese natale, momenti di trance durante cerimoniali per il risveglio della natura, molto comuni soprattutto nelle aree rurali dove le pratiche scintoiste erano molto vive (ma del resto, i giapponesi si sono sempre sentiti liberi di praticare più religioni assieme e non hanno mai abbandonato del tutto lo Scintoismo). Questo spiega anche quel sapore ancestrale, sciamanico, che costituisce il cuore del Butoh.

Concettualmente, però, il Butoh era anche una sfida. Una sfida culturale, perché osava distaccarsi dalla tradizione, sebbene sia innegabile un suo debito verso il teatro Noh, tanto che ancor oggi molti lo considerano più una forma di teatro che di danza; ma anche una sfida sociale e politica, nella misura in cui esprimeva la sofferenza di un popolo traumatizzato dalla tragedia della bomba atomica. Erano gli anni del secondo dopoguerra, quelli in cui il Giappone cercava di riaffermare o forse di cercare una propria identità, in cui sublimava il risentimento per l'America e l’Occidente in un'impressionante e deliberata tensione verso il progresso a tutti i costi, con tutte le derive che conosciamo. In questo senso, il Butoh può essere letto anche come un distacco da questa ossessione, e da quell’ottica di consumismo che la sottende. Mentre svelava il legame della danza tradizionale giapponese con quella occidentale, che pure amava, Hijigata osò creare una forma d'arte che sfidava il naturale sentimento di riservatezza nazionale, che metteva a nudo l'anima oltre che il corpo, rivelando la fragilità e la sofferenza di un popolo ancora intento a leccarsi le ferite.
Gli esperti vi diranno che il Butoh oggigiorno è molto diverso da come era alle origini, ma non sono in grado di dirvi fino a che punto questo sia vero. Certamente la sua carica eversiva non c'è più o, se c'è, è stata molto ridimensionata dal passare del tempo, ma questa danza sa ancora farsi caos, catarsi, è ancora in grado di regalare struggenti suggestioni, anche quando a prevalere è il suo umorismo latente, dosato sapientemente come in quelle storielle zen che, a leggerle superficialmente, sembrano parlare del nulla.
Ora, per chiudere il cerchio, è necessario tornare al pretesto che ha dato il via a questo articolo, ovvero alla nostra Sadako; Sadako che, con la “danza delle tenebre”, esprime il suo dolore e il suo terrore e li trasmette alle vittime della sua vendetta, che a loro volta potranno trasformarsi in fantasmi vendicativi, in un ciclo, spirale o anello (ring) di odio infinito. Un ulteriore legame della nostra Sadako con il Butoh è dato proprio dal cinema, perché, come accennato all'inizio del post, Tatsumi Hijigata fu anche attore per registi come Teruo Ishii, Kazuo Kuroki, Kô Nakahira e Masahiro Shinoda. Memorabili sono le coreografie da lui ideate (e interpretate) per film come “Zankoku ijô gyakutai monogatari: Genroku onna keizu” (Orgies of Edo) e “Kyôfu kikei ningen: Edogawa Rampo zenshû” (Horror of malformed men) del 1969 e “Kaidan nobori ryû” (Blind Woman's Curse) del 1970, tutti di Teruo Ishii; “Nippon no akuryo” di Kazuo Kuroki del 1970 (un oggetto misterioso che non sono ancora riuscito a visionare); “Yami no naka no chimimoryo” di Kô Nakahira, del 1971; e, infine, “Himiko” di Masahiro Shinoda, del 1974. Ma Tatsumi Hijigata compare, in immagini di repertorio, anche nei due documentari “Dance of Darkness” (1989) e “Butoh: Body on the Edge of Crisis” (1990), girati pochi anni dopo la sua morte. Hideo Nakata si è quindi appropriato di un’icona nazionale per crearne un'altra forse meno colta ed elitaria, ma con le potenzialità di raggiungere la popolarità mondiale. E così è stato…


(*) Erede della “danza libera”, in rottura con l'ambiente del balletto classico, e debitrice delle arti visuali espressioniste, l'Ausdruckstanz o “Neuer Tanz” rappresentò il vero punto di non ritorno. Con essa nacque la concezione di danza come “arte del movimento”. I ballerini “espressionisti” cercavano di ritrovare il contatto con la natura e con il cosmo, spezzatosi con il progredire del progresso e soprattutto con l'avvento della società industriale e meccanizzata, e per farlo seguivano il proprio ritmo interiore e non il ritmo della musica, che diventava elemento di contorno e non più elemento portante della coreografia. L'Ausdruckstanz ebbe anche un teorico, l'ungherese Rudolf von Laban, il primo a riprendere il termine "coreosofia" dalla cultura ellenica, nella quale la danza era una disciplina molto complessa.
(**) Mi ha molto colpito l'affinità di questi concetti con quelli espressi in un post di aprile sul blog La Nostra Libreria (questo, dedicato al maestro Kengiro Azuma) che è stato pubblicato proprio nei giorni in cui il presente articolo prendeva forma. Se non l'aveste letto potete recuperarlo ora – merita! Ne approfitto anzi per ringraziare Glò, l'autrice, per il bell'approfondimento, ho molto apprezzato anche se (come spesso accade) sul momento non ho commentato.

Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 17 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato qui lo scorso aprile. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 17° candela...

Ring TV: Saishūshō

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Finora abbiamo esplorato varie versioni cinematografiche di Ring: “Kanzenban” di Chisui Takigawa, il primo e il secondo capitolo di Hideo Nakata, il sequel apocrifo “Spiral” (Rasen) di Jōji Iida, il prequel “Ring 0: Birthday” di Norio Tsuruta e, infine, proprio all’apertura di questa seconda parte dello speciale, la versione coreana “The Ring Virus”. Come avrete notato mancano ancora all’appello i remake americani, ma non siate troppo precipitosi, c’è ancora un bel po’ di cose di cui parlare prima di arrivare a quelli. Occorre innanzitutto cercare di chiudere idealmente “l’anello asiatico”, che nel 1999 si arricchì di nuovi interessanti (quanto sconosciuti a noi occidentali) capitoli. Avete capito bene: ho proprio scritto 1999. In quello stesso anno, proprio mentre veniva alla luce “Ringu 2” di Nakata, l’emittente giapponese Fuji Television in coproduzione con la Kyodo Television proponeva al proprio pubblico la miniserie tv “Ringu: Saishūshō” (リング, 最終章, Ring The Final Chapter). “Saishūshō” è in linea teorica l’adattamento del primo romanzo Kōji Suzuki, “Ring”, ma nella pratica numerose linee narrative sono inventate di sana pianta: la durata globale prevista (una decina di ore complessive) richiedeva evidentemente diversi personaggi di contorno utilizzati da un lato per creare false piste e suspense, e dall’altro per aumentare l’effetto drammatico. Alla voce “Ringu: Saishūshō” di wikipedia si dice che quella che ho appena definito banalmente “serie tivù” è in effetti un dorama, parola che deriva dall’inglese “drama” e che è usata per indicare un certo genere di format televisivo giapponese. Non necessariamente si tratta di prodotti raffazzonati o di scarsa qualità. Anzi. Molti dorama sono basati su manga di successo e questo garantisce loro, se non altro, maggiore varietà di generi e trame di quanta non ve ne sia nelle fiction di casa nostra.
Saishūshō” nella fattispecie è composto da 12 episodi (*) e la trama, come già accennato poco fa, diverge sia da quella del libro di Suzuki che da quella del film di Nakata. I personaggi principali sono il giornalista Kazuyuki Asakawa (Toshirō Yanagiba) e il solito Ryūji Takayama (Tomoya Nagase), stavolta nell’inedito ruolo di antagonista. Takayama è qui poco più che ventenne, cosa che, come scopriremo alla fine, non è affatto un vezzo dello sceneggiatore, ma è funzionale alla trama. Asakawa invece è vedovo con un figlio piccolo, Yōichi (Yūta Fukagawa), ed è coadiuvato nelle indagini dalla sua giovane, petulante collega Akiko Yoshino (Kotomi Kyōno, palesemente innamorata di lui) e dalla bella dottoressa Rieko Miyashita (Hitomi Kuroki), un’amica della sua defunta moglie. 
Yoshino e Miyashita, per inciso, sono anch’essi personaggi nati dalla penna di Suzuki, ma nei suoi romanzi sono… due uomini. Yoshino compare in “Ring” e, come nella serie, coadiuva Asakawa nelle indagini; Miyashita è invece la “spalla” del protagonista Mitsuo Andō in “Spiral”. Per concludere la panoramica, il dottor Nagao (Kei Yamamoto, qui capo di Miyashita e in lizza per la carica di nuovo direttore sanitario) ricopre più o meno lo stesso ruolo che aveva nel libro, ma non è affatto una figura secondaria o legata solo al passato, perché si ritrova a fare involontariamente il gioco di Sadako; Mai Takano (Akiko Yada) è la sorella di Ryūji Takayama e Sadako Yamamura viene ribattezzata Sadako Ikuma, poiché adottata legalmente, giovanissima, dal dottor Heihachirō Ikuma e da sua moglie.

Come da copione, Asakawa incappa nel mistero della morte per arresto cardiaco di alcuni giovani avvenuta alla stessa ora dello stesso giorno e, dopo una breve indagine, riesce a recuperare e visionare il video maledetto che, come vedremo in seguito, qui altro non è che la registrazione del videoclip di un famoso brano pop. Fra gli studenti si mormora che chi vede il video di quella canzone è destinato a morire dopo 13 giorni, ma i più ritengono che questa sia solo l’ennesima leggenda metropolitana. 
Sul significato del numero 13, che in questa serie sostituisce il numero 7 originale, si potrebbero tentare delle ipotesi. In realtà è solo in Occidente che il numero 13 viene considerato un numero sfortunato (in Giappone, viceversa, si tende a demonizzare il 4 (shi) e il 9 (kyu) a causa della loro fonetica, così simile e quella di “morte” e “agonia” rispettivamente). Dopo varie elucubrazioni sono giunto alla conclusione che 13 giorni siano semplicemente un modo per poter comodamente includere trame e sottotrame, senza doversi affannare troppo per rispettare il limite temporale che, inevitabilmente, la maledizione di Sadako impone. 
È a questo punto che entra in scena Ryūji Takayama, un giovane laureato in antropologia che sostiene di avere facoltà paranormali e che vive con la problematica sorella Mai. Grazie a lui, Asakawa scopre che nel video è celata una maledizione e che gli restano pochi giorni per capire chi ne è l’autore e come neutralizzarla. Lui crede che le immagini nascoste nel video siano state create interferendo con onde elettromagnetiche nel segnale TV al momento della trasmissione, ma ovviamente si sbaglia e sarà proprio Takayama a indicargli quella che indirettamente si rivelerà la pista giusta: quella che punta a Shizuko Yamamura e a quella pratica chiamata nensha, o fotocinesi. Da qui si dipana la solita corsa contro il tempo, resa più adrenalinica da numerosi intermezzi, più o meno rilevanti per la storia proncipale, che coinvolgono diversi personaggi, molti dei quali destinati a scomparire prima dell’inedito finale. Asakawa e Yoshino si recano a Izu Oshima, luogo natale di Shizuko, ma la vera svolta arriva quando concentrano le indagini sul defunto dottor Ikuma: i due scoprono che questi aveva una figlia, Sadako, allontanatasi da casa circa vent’anni prima per tentare la carriera d’attrice. Mentre Takayama viene accusato di omicidio, al laboratorio Miyashita deve far fronte al furto di materiale genetico, ovvero delle colture delle cellule che contengono il virus trovato nel corpo di una delle persone morte d’infarto. Seguire a ritroso fino all’origine la diffusione della leggenda metropolitana che riguarda il video maledetto servirà invece a scoprire dove si trova (o si trovava) Sadako… 

Qualche altra spiegazione, pur senza entrare troppo nel dettaglio, è d’obbligo. Che l’infarto nelle vittime sia provocato da un virus lo scopre Miyashita già nel primo episodio: il virus è innescato dalla maledizione di Sadako. In altre parole, la visione delle immagini del video attiva un virus che è già presente, eppur in forma latente, in ognuno di noi. Una volta innescato, le sue cellule cominciano a replicarsi a una velocità molto accelerata. Ove la maledizione di Sadako può essere considerata un virus a tutti gli effetti è nella sua capacità di espandersi in maniera esponenziale, invadendo il corpo umano come un parassita. L’odio di Sadako è un agente distruttivo che travolge indifferentemente tutto e tutti, ma anche una caratteristica trasmissibile geneticamente; Ikuma lo aveva capito ma, non avendo il coraggio di adottare una soluzione radicale, aveva ideato un geniale antidoto, o meglio un vaccino, contro il riaffiorare delle memorie genetiche di Sadako. 
Asakawa e Miyashita sono in qualche modo complementari, il primo più disposto a credere all’intangibile e la seconda razionalista convinta, anche per deformazione professionale, e scettica per partito preso sull’esistenza della maledizione, con Yoshino al terzo lato di questo insolito triangolo. Per Asakawa spezzare la maledizione significa salvare se stesso e chi ama e Yoshino ha più o meno le stesse motivazioni, mentre per Miyashita conta anche la sfida intellettuale, la sua lotta di medico che desidera riaffermare la supremazia della scienza. Miyashita riuscirà davvero a raccogliere l’eredità di Ikuma, ma questo non avverrà per l’infallibilità della scienza, ma solo grazie a un po’ di fortuna, o meglio a un aiuto insperato. La vera chiave di volta si troverà dipanando il passato di Ryūji e Mai e il segreto di una mutua dipendenza che assume fin da subito toni morbosi, nonostante (o forse proprio per questo motivo) fra i due non vi sia un vero legame biologico, come si evince dai diversi cognomi che portano. 

Come avrete capito, in questa serie TV viene introdotto per la prima volta anche quello scenario genetico che tanta parte avrà nel seguito di questo speciale. Ne riparleremo verso la fine del mese, più o meno, dopo aver introdotto anche la seconda serie TV (cosa che avverrà nel prossimo articolo) e qualche altro argomento, per tirare le somme sulle varie trasposizioni della saga di Ring e, soprattutto, sui romanzi da cui derivano. 
Per ora cercherò invece di dare un giudizio su “Saishūshō”, un giudizio che non sarà molto imparziale perché (ebbene sì, nel caso ve lo steste chiedendo) a me la serie è piaciuta. Cosa potevate aspettarvi, d’altronde, da un fan di vecchia data della saga di Ring come me? I principali difetti della serie sono indubbiamente le diverse linee narrative a volte non ben bilanciate e intervallate da quelli che possono sembrare dei riempitivi, e il gusto estremo per il dramma. Il taglio delle inquadrature, la qualità delle immagini, la sovrabbondanza di primi piani e di musica denunciano subito la sua origine: la serie è pensata per un pubblico televisivo, e si vede. A volte l’effetto soap operaè in agguato, specialmente nei siparietti pseudo-romantici fra Yoshino e Asakawa e nelle (tenere, peraltro) interazioni di quest’ultimo con il figlioletto, mentre in altri momenti il susseguirsi di avvenimenti e colpi di scena non lascia letteralmente il tempo di tirare il fiato. 
Oltre a questo, alla fine non tutto torna perfettamente e l’ipotesi scientifica sulla quale il tutto si regge sembra quantomeno opinabile, ma pazienza: la storia è avvincente e i personaggi sono quasi tutti interessanti e ben delineati, anche quando si capisce che la loro ambiguità è volutamente esagerata. Fra i principali, Ryūji è quello che rimane tra luci e ombre fino alla fine, per poi abbracciare un destino che lascia l’amaro in bocca, ma quello davvero indimenticabile è il piccolo Yōichi. Se avete un cuore, state certi che lui ve lo spezzerà. 

Ma forse la domanda che voi tutti vi state ponendo è: “Ringu: Saishūshō” fa paura? Sì e no. Qualche sobbalzo la serie lo regala, ma si tratta quasi sempre di tensione nervosa. Le morti messe in scena certo non mancano, ma non aspettatevi sangue o frattaglie esposte: più che un horror, questo è un thriller atipico che si regge sull’investigazione e sul lento svelamento del mistero. Un po’ di terrore in più, sempre entro i limiti televisivi, lo regalerà la seconda serie, ma di questa, come detto, parleremo la prossima volta. Una piccola curiosità riguarda il fatto che nella serie hanno recitato ben due popstar giapponesi: la prima, Tomoya Nagase, che presta il volto a Ryūji, è il singer della band Tokio. La seconda è la giovanissima (al tempo delle riprese, naturalmente) Nao Matzusaki, che nella serie TV, oltre a comparire in un episodio nella parte di se stessa, è anche l’interprete di “Shiroi yo”, il brano musicale il cui videoclip contiene la maledizione di Sadako. Se siete curiosi, “Shiroi yo” lo potete gustare qui di seguito. Una canzoncina a mio parere piacevole, se solo non fosse per la voce stridula di Nao Matzusaki che, se me lo permettete, dovrebbe dedicarsi ad un’attività diversa, magari più prossima all’agricoltura.

(*) I dodici episodi della serie TV Ring Saishūshō sono disponibili sul tubo: il primo episodio qui.



Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 18 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato qui lo scorso aprile. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 18° candela...

Ring TV: Rasen

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Lo stesso anno di “Ringu: Saishūshō”, il 1999, la Fuji Television propose una seconda serie TV (*) dedicata alla saga di Ring intitolata come l’opera a cui si ispirava: “Rasen” (Spiral), il secondo libro di Kōji Suzuki. Possiamo considerare questa serie un sequel della prima, anche se in realtà le loro storie hanno in comune soltanto l’ambientazione e la premessa, ovvero la maledizione di Sadako. Anzi, “Rasen” eredita da “Saishūshō” anche il personaggio di Mai Takano (sempre naturalmente con il volto di Akiko Yada), e in un ruolo forse anche più cruciale. Per il resto, il parziale cambio dei registi coinvolti nel progetto non apporta alcun sostanziale miglioramento tecnico: con quella patina un po’ rétro, i due prodotti sono visivamente molto simili, sebbene a mio parere nel secondo ci sia un uso migliore della colonna sonora (sempre onnipresente e spesso invasiva, ma almeno più azzeccata). 
La serie strizza più volte l’occhio al Ring di Nakata, soprattutto quando ripropone una sua versione della famosa scena di Sadako che sbuca all’improvviso dallo schermo del televisore. Anche se non si trattava certo di una novità, credo che la visione di quelle immagini debba essere stata piuttosto spaventosa per un pubblico televisivo come quello di “Rasen”. 
L’idea degli autori era probabilmente quella di dare un’impennata decisa ai momenti horror e in qualche caso (come nella terza puntata, ad esempio) è esattamente ciò che avviene, anche se nel complesso il tasso di terrore è altalenante. La serie tv “Rasen” fa comunque più paura del film omonimo, che dal quel punto di vista offre davvero il minimo sindacale.
Più che paura vera e propria, però, quello che davvero caratterizza questa serie è una strisciante inquietudine legata a quel mood cupo, apocalittico che essa condivide con il film. Entrambi passano con disinvoltura da temi sovrannaturali ad altri più incentrati sulla manipolazione del DNA e alla clonazione, ma in maniera così confusa da non rendere affatto giustizia al romanzo da cui sono tratti. In qualche modo, tuttavia, mi sembra che anche in questo la serie TV finisca per avere un impatto maggiore del film – fosse anche solo per accumulo, data la sua maggiore durata.
In breve, la storia riprende da dove si era interrotta, se pure con nuovi personaggi. Le voci legate al videoclip maledetto sono ancora diffuse in città ma, a complicare le cose, la leggenda metropolitana che lo riguarda si intreccia con quella di un edificio che ora ospita degli uffici, ma in cui si dice che in passato un serial killer abbia mietuto delle vittime: il killer era stato arrestato e giustiziato tre anni prima dell’inizio della nostra storia, ma si dice che il suo spirito infesti ancora il luogo dei suoi misfatti.

Proprio in quell’edificio si verifica la misteriosa morte di sei impiegati e il responso dell’autopsia è chiaro: si tratta di arresto cardiaco, ma la cosa strana è che su tutti i corpi vengono riscontrati i medesimi segni di reazione cutanea. Sembra che subito prima del fatto qualcosa sia comparso sugli schermi dei computer su cui queste persone stavano lavorando, ma la registrazione del video di sorveglianza non è d’aiuto per chiarire cosa fosse: contiene però uno strano fruscio che, inizialmente, viene preso per la traccia di un’onda magnetica, ma che ovviamente si rivelerà essere ben altro. Tutte le piste portano al killer Gozo Arita, ma come può un uomo morto andarsene in giro a seminare le sue impronte digitali ovunque? È evidente che chi sta sabotando le indagini è il vero colpevole, o un suo complice. 
Sul caso indagano Mitsuo Andō (Gorō Kishitani), professore in una scuola vicina al luogo del crimine, e Natsumi Aihara (Takami Yoshimoto), impiegata presso il Criminal Investigaton Laboratory, l’ufficio preposto a coadiuvare il lavoro della polizia: Misaki Nishijima (Lisa Sudō), l’unica superstite fra gli impiegati, è una ex allieva di Andō ed ex compagna di classe di Aihara. 
Quello di “Rasen” è un mondo che sembra avviarsi verso una rapida fine. Non solo la maledizione di Sadako sta ancora falciando vite, non solo le morti di quegli impiegati sembrano l’inizio di un countdown che può potenzialmente estinguere l’intera umanità, ma il sedicente sensitivo Tōru Kawai (Takeshi Masu), che avrebbe ricevuto i suoi poteri niente di meno che da Nostradamus in persona, annuncia in diretta tv l’avvento del King of Terror (**).
Costui è una sorta di Anticristo, preannunciato da un terremoto, venuto a seminare morte e distruzione. Mentre la luna si tinge di rosso la povera Misaki, scopertasi incinta, è impaurita dalle ricorrenti visioni di un pozzo. Nel frattempo Mai, che è in grado di percepire la presenza di Sadako, prende contatto con Andō e gli rivela quanto successo in passato.

“Saishūshō” appesantiva la narrazione con un’indagine fin troppo razionalistica che durava praticamente per tutti e 12 gli episodi; ecco, “Rasen” ha più o meno la stessa impostazione, ma nelle sue 13 puntate (13, come i giorni di incubazione del virus Ring!) introduce qualche piccola novità, la più importante delle quali riguarda la figura di Sadako, molto più presente qui che non nella prima serie, e non solo nella sua veste immateriale: assisteremo infatti a diversi suoi tentativi di tornare in vita, appropriandosi di un corpo fatto di carne e di sangue. 
Insomma, le indagini e i colpi di cena sono una costante anche di questa seconda serie. Se però in “Saishūshō” ci volevano sei puntate solo perché i protagonisti venissero a conoscenza del nome di Sadako, qui questo avviene già nel secondo episodio. Vi domanderete allora che cosa può ancora accadere una volta che tutte le carte sono state scoperte: molto, credetemi. Intanto, com’è finita Sadako (perché questo è avvenuto, credo lo abbiate intuito da soli) nella rete di computer di un’azienda? Nella prima serie TV la maledizione era registrata su una videocassetta, ma se quel video è ancora in circolazione che fine ha fatto il vaccino sintetizzato da Rieko Miyashita nell’ultimo episodio? In “Rasen” non se ne parla più, come se non fosse mai esistito. 
Spostare la questione della sopravvivenza di Sadako da un supporto “volatile” come una cassetta alla memoria di un pc ha delle implicazioni che certo non vi saranno sfuggite. Perché, grazie a quell’invenzione geniale che corrisponde al nome di Internet (che somiglia, in effetti, a un’immensa rete neurale), ogni computer può comunicare con moltissimi altri: il risultato è un enorme parco giochi virtuale in cui Sadako potrebbe sguazzare a suo piacimento mentre popola il mondo con i suoi “cloni”.

Tralasciando i personaggi minori, Mai non è più la stessa persona che abbiamo conosciuto nella prima serie, ma una giovane donna decisa e, tuttavia, ancora legata a un passato ingombrante; mentre Andō e Aihara sono la classica coppia che incarna i principi opposti e complementari di istinto e ragione. Ma abbiamo anche una serie di figure fin troppo ambigue e un po’ più caricaturali di quelle di “Saishūshō” (a parte il dottor Nagao, incapace di provare rimorso per il suo crimine fino alla fine), e stranamente la differenza tra buoni e cattivi si assottiglia, tanto che sul finale perfino Sadako finisce per fare miglior figura di chi non ha esitato a manipolare e distruggere vite per amore della scienza. 
La figura più tragica però è sicuramente quella di Mitsuo Andō, una brava persona che rischia in prima persona per amicizia e senso del dovere. Mitsuo è però anche un padre distrutto dalla morte del figlio che per ben due volte si trova a dover fare una scelta terribile. Non vi nascondo che non ho apprezzato la deriva presa dalla sua vicenda, troppo moraleggiante e buonista, l’ultimo, triste atto di una serie TV che della tristezza ha quasi fatto un marchio di fabbrica. 
Rasen” mette tanta carne al fuoco, fin troppa, e qualche sforbiciata qua e là gli avrebbe certo giovato, ma non si può dire che non sia coinvolgente. Se poi all’azione preferite la ricerca di significati profondi, potrete apprezzarla anche come strumento di riflessione sulla responsabilità individuale, l’amore, la libertà e tanto altro, per non parlare dello scenario scientifico e degli interrogativi etici e filosofici che solleva. 
Proprio sullo scenario scientifico intendo tornare più avanti, nel corso del mese, cercando di raffrontare le idee espresse nei romanzi di Suzuki con quelle delle sue varie trasposizioni e proponendo una mia interpretazione. Qualche piccolo spoiler sarà inevitabile, visto l’argomento, ma confido sul fatto che, nel mare magnum di materiale a disposizione, le mie parole finiscano per essere, appunto, solo una goccia nel mare...

(*) I tredici episodi della serie TV "Rasen" sono disponibili sul tubo: il primo episodio qui.
(**) È qui evidente il riferimento alla famosa quartina di Nostradamus che così recita "L’anno millenovecentonovantanove al settimo mese / Dal cielo un gran re del terrore calerà / che farà resuscitare il gran re d’Inghilterra ammuffito / prima che poco dopo Marte regni felicemente." (Centuria X , verso 72). La prima puntata delle serie TV "Rasen" andò infatti in onda in Giappone il 1° luglio 1999 e, palesemente, si intendeva sfruttare al meglio la contemporaneità con un periodo nel quale tutti attendevano eventi catastrofici che, fortunatamente, non si sono verificati. 

Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 19 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato qui lo scorso aprile. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 19° candela...

Sadako, l'acqua e l'asceta

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En no Gyōja
Dopo aver accennato in precedenza al significato archetipico e mitologico del pozzo, è ora di spendere qualche parola anche su un altro elemento ricollegabile a Sadako Yamamura: l’acqua. Il legame di Sadako con l’acqua si deve non tanto a quel pozzo nel quale è stata gettata ed è rimasta così a lungo, ma alla natura stessa del personaggio. Sappiamo che l’acqua – che in senso lato è brodo primordiale, liquido amniotico, sangue, clorofilla – è principalmente la sorgente della vita, ma è anche un simbolo di rigenerazione e purificazione spinte fino al punto di arrecare la morte, perciò essa è allo stesso tempo creatrice e portatrice di distruzione, il che giustifica anche il suo legame, all'apparenza paradossale, con l'elemento opposto, il fuoco
Come simbolo cosmogonico, l'acqua presenta un'altra dualità: quella fra la sua natura maschile e quella femminile. L'acqua è infatti sia seme divino, “uranico”, che feconda la terra, sia elemento “lunare” (perché fertile e legato quindi al sangue mestruale), che nasce dalla terra e dall'alba e permette la fecondazione. L'acqua come elemento dalla natura ambivalente di vita e di morte è stato sfruttato in tutti i film della serie mentre, come abbiamo già visto, il dualismo fra maschile e femminile è appannaggio solo del capostipite, “Kanzenban” di Chisui Takigawa, che lo riprende pari pari dal romanzo di Kōji Suzuki: la Sadako letteraria, infatti, è ermafrodita. Pur essendo biologicamente un maschio, Sadako ha l’aspetto (e la psicologia) di una bella donna e suscita le attenzioni di molti uomini, uno dei quali, scoperta la sua vera natura e sentendosi umiliato da lei, dopo averne abusato arriva a ucciderla. Ma una Sadako ermafrodita e per di più con poteri ESP così letali non è un po' troppo? 

Diciamo che, se la sua storia si limitasse a quanto narrato nel primo romanzo, “Ring”, si sarebbe potuto pensare che Suzuki avesse inteso utilizzare l'espediente dell'ermafroditismo al solo scopo di amplificare l'emarginazione e la solitudine della protagonista e di suo padre e per creare le circostanze più adatte al verificarsi della morte violenta di Sadako; tuttavia, alla luce di quanto accade nel secondo romanzo, “Rasen”, è evidente che l'ermafroditismo è un elemento essenziale al proseguimento della storia, che doveva essere ben chiara nella mente del suo Autore fin dall’inizio, e alla sua decisa virata scientifico-apocalittica. fondo Sono portato a credere che, in qualche modo, tratteggiare la figura di Sadako sia stato un processo in parte anche irrazionale: Sadako doveva essere esattamente com’è per l’economia della saga di Ring nel suo complesso, ma ciò non toglie che Suzuki può avere attinto a quella memoria ancestrale, atavica, che noi tutti possediamo. 
Hideo Nakata sviluppa il legame con l'acqua rivelando che il professor Ikuma non è il vero padre di Sadako, e anche se l’identità di quest’ultimo non viene rivelata, è lecito immaginare che esso sia un demone o comunque un essere che, in qualche modo, ha a che fare con l’acqua, che si sarebbe unito con sua madre Shizuko perché, presumibilmente, attratto dal suo grande potere. 
Ci sono almeno due particolari che sorreggono una tale ipotesi. Il primo è che Sadako aveva l’abitudine di fermarsi a lungo a fissare il mare quando era bambina e abitava ancora nel villaggio natio, come in preda a un’inspiegabile nostalgia; il secondo è che, come ricorda il cugino di Shizuko, la donna, incinta di Sadako, aveva tentato di abortire, ma il feto le era stato restituito dal mare. Anche in questo, la versione di Suzuki è un filino diversa: Sadako – seppur dotata di poteri psichici - è un comune essere umano, frutto della relazione fra la madre Shizuko e il professor Ikuma. Tuttavia, nel corso delle loro indagini Asawaka e Takayama scoprono che i poteri di chiaroveggenza erano probabilmente stati conferiti a Shizuko da una statua di En no Ozunu che lei aveva ripescato dal mare. 

En no Gyōja - Hokusai Manga (1819 ca)
Ed è proprio in questo frangente che la fantasia si confonde con la realtà: En no Ozunuè infatti un personaggio storico, un asceta nato nel 634 e noto anche col nome di En no Kimi Ozunu, En no Ozuno o anche Otsuno, En no Ubasoku o En no Gyōja, che significa appunto “En l’Asceta”: fu il padre fondatore della setta Shugendō, che fonde elementi dello Scintoismo, del Buddismo e del Taoismo ai miti Ainu e ad antiche tecniche sciamaniche legate a luoghi sacri (le montagne). Si diceva che potesse dominare l'occulto e le arti mistiche, evocare dèi e demoni e che conoscesse i segreti delle erbe medicinali. La sua capacità di prevedere il futuro lo aveva reso famoso, ma quando aveva cominciato a fare troppi proseliti le autorità avevano cominciato a considerarlo una minaccia per la società e nel 699 lo avevano esiliato a Izu no Shima (Izu Oshima).

Izu, come sappiamo, nel romanzo era la città natale della famiglia di Shizuko. Lì En no Ozunu aveva occupato una piccola caverna sulla costa orientale, e sebbene personalmente fosse dedito a una forma estrema di ascesi, aveva insegnato agli abitanti dell'isola a coltivare la terra e a pescare. Dopo essere stato perdonato, circa tre anni dopo, era tornato sulla terraferma e aveva fondato la tradizione monastica Shugendō, tuttavia gli abitanti del luogo non lo avevano dimenticato e avevano ribattezzato quella spiaggia Spiaggia dell'Asceta, e nella piccola caverna, la Grotta dell'Asceta, che da allora era stata considerata un luogo sacro, avevano posto una statua in pietra che lo raffigurava. 
In base al racconto di Genji Yamamura, il cugino di Shizuko, da secoli a Izu Oshima il 15 giugno di ogni anno si celebrava la Festa dell'Asceta, ma subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel quadro della politica contro lo Scintoismo e il Buddismo, le truppe di occupazione avevano rimosso la statua dalla grotta e l’avevano gettata nell'oceano. 
Shizuko, che nutriva una fede profonda in Ozunu, aveva evidentemente assistito all’episodio e in qualche modo era riuscita a tenere a mente il punto esatto in cui questa era scomparsa tra i flutti e così, con l’aiuto di Genji e con modalità che avevano quasi del miracoloso, la statua era stata ripescata. Subito dopo, Shizuko aveva cominciato a soffrire di forti emicranie accompagnate da visioni che puntualmente si avveravano. Circa un anno dopo si era trasferita a Tōkyō, dove aveva conosciuto il professor Ikuma… e il resto è storia. 

Shizuko affermava che i poteri psichici esistessero, latenti, in ogni individuo, ma indubbiamente i suoi avevano ricevuto un’impennata dopo il recupero della statua di Ozunu. È possibile che un afflato del grande potere del mistico, unito a una predisposizione naturale di Shizuko molto maggiore di quella della media delle persone, fosse confluito nella bambina che questa aveva in seguito portato in grembo. La tradizione vuole che Ozunu fosse il figlio di un dio e di una donna mortale: sua madre era così bella da aver attirato l'attenzione di un’antica divinità, che l’aveva resa gravida con il solo sguardo, senza nemmeno la necessità di sfiorarla (un mito simile è diffuso fra molti popoli, inclusi gli Ainu). Questo farebbe di Sadako, in un certo senso, la figlia di un semidio. La portata di questo è enorme, è un po’ come se noi, nella nostra cultura, dicessimo che era figlia di Cristo… ma non voglio essere blasfemo. Per oggi ci fermiamo qui. Nel prossimo articolo "parcheggeremo" momentaneamente Sadako nel buio del suo pozzo e proveremo a fare una piccola digressione nel folclore legato all'acqua.

Katsushika Hokusai: En no Gyôja Opens Mount Fuji (1834 ca)

Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 20 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato qui lo scorso aprile. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 20° candela...

Gli spiriti dell'acqua

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Umi-bōzu (海坊主)
La centralità dell'acqua nella mitologia ha a che fare tanto con il suo potere di creazione che di distruzione, a partire dal mito biblico della genesi, in cui lo spirito divino aleggia sulle acque della creazione, fino a quello del diluvio universale volto a punire un'umanità infedele a Dio. Due racconti che difatti ricorrono, con poche variazioni, fra moltissimi popoli. In particolare, la concezione di una distesa di acque primordiali è praticamente universale: per molte culture, anche geograficamente lontanissime, se non agli antipodi, su queste acque galleggiava un uovo da cui sarebbe nato il mondo, il più famoso dei quali è senz'altro il Brahmanda della civiltà vedica. Spesso, come fra i cinesi, le acque primordiali simboleggiano il Caos prima della creazione (Wu-chi). Molte popolazioni, inoltre, veneravano divinità dell'acqua e della pioggia. L'acqua è anche elemento rituale, come nel sacramento del battesimo che lava via i peccati, o nelle abluzioni richieste agli ebrei e ai musulmani prima della preghiera. Abluzioni che, pur diverse nella forma, sono pratica comune anche in India e in generale nei paesi del Sudest asiatico. Vi è poi una ricorrente analogia fra acqua e saggezza, ad esempio nel Taoismo la saggezza viene concepita come libera e senza costrizioni come l'acqua che scorre seguendo la pendenza naturale del terreno, mentre per i cristiani l'acqua della saggezza, o Spirito Santo, dimora nel cuore del saggio. Nel Medioevo si consolidò la concezione dell'acqua come vita spirituale offerta da Dio e di cui Gesù è la sorgente. Il fatto che, ancora adesso, nelle più famose mete di pellegrinaggio vi siano delle sorgenti e che le loro acque vengano considerate sante e gli vengano attribuiti poteri curativi e spesso miracolosi è un retaggio degli antichi culti che si concentravano, appunto, attorno alle sorgenti.

Ma di acqua sono fatti anche i fiumi infernali. La mitologia classica parla di cinque fiumi che separerebbero la terra dei morti, l'Ade, da quella dei vivi: Stige, Acheronte, Cocito, Flegetonte e Lete. In uno di essi, lo Stige, la dea Teti immerse il figlio, l'eroe Achille, per renderlo invincibile, tenendolo per il calcagno.
Ma Achille e Teti sono solo alcuni dei tanti personaggi legati in qualche modo all'acqua: pensiamo a Narciso, a Oceano, a Melusina, alle Nereidi e alle Naiadi, a Beouwulf, alla ninfa Ondine o a Decalione (il “Noè” greco che sopravvisse al diluvio causato da Zeus, e che ha un corrispettivo in Atrahasis, Ziusudra e Utnapishtim nella mitologia sumera, Manu in quella induista, e così via).
Molto spesso nell'acqua si celano spiriti o veri e propri mostri, come Scilla e Ceto, il biblico Leviatano o il Kraken, le Sirene e i Tritoni. La mitologia scozzese, prima del Mostro di Loch Ness, ci aveva già regalato, fra gli altri, i Selkie, gli Ashrays, i Kelpie, gli Uomini Blu del Minch e le Streghe del Mare. Quella slava ci ha dato le Rusalka, “fantasmi d'acqua” prevalentemente femminili, anime di donne morte in giovane età, spesso assassinate, in laghi o corsi d'acqua o nei loro pressi; quella degli aborigeni australiani i Bunyip, diavoli o spiriti che si celano nei fiumi, nelle paludi o in altre pozze d'acqua; quella del Camerun i Jengu, quella cinese i draghi dell'acqua, o Panlong, tipici dei laghi orientali.

Kappa (河童)
Il Giappone, con la sua lunga e complessa tradizione folkloristica, non fa eccezione. Vediamo insieme qualcuna delle sue fantastiche creature in qualche modo collegate con l'acqua, creature raggruppate sotto la definizione generica di yōkai – ne abbiamo già parlato altre volte, ma ci tengo a sottolineare ancora che questa parola viene tradotta alternativamente con il termine demoni, spiriti, o folletti, ma in effetti non è nessuna di queste cose, o meglio è tutto questo e molto di più. Qualcuno, per tagliare la testa al toro, disse che gli yōkai sono “superstizioni con una personalità”, e credo onestamente che questa sia la definizione migliore possibile.

Il Kappa (河童), chiamato anche Gawappa, Kawataro e in altri modi, è uno degli yōkai più famosi, non solo per i numerosissimi avvistamenti riportati ma anche grazie al premio nobel Ryūnosuke Akutagawa e al suo romanzo breve “Kappa”. Il Kappa è uno spirito acquatico, vive cioè in laghi, fiumi e in generale nelle zone umide, inclusi i piccoli stagni e le paludi. Il suo corpo antropomorfo può raggiungere il metro e mezzo, ha un carapace sulla schiena, zampe palmate dotate di artigli e la testa a forma di piatto. Il naso a becco è allungato, mentre la pelle (amagawa) è verde o verde-giallo, meno spesso verde-blu e bitorzoluta come quella delle rane. Prima di dormire il Kappa deve rimuovere la pelle e questo è il momento in cui è più vulnerabile, perché senza di essa non potrà tornare in acqua. Si dice che generalmente non sia aggressivo, ma se si arrabbia non ci pensa due volte ad annegare le sue vittime, oppure ne afferra gli intestini e li strappa via dal basso per cercarvi lo shirikodama, un organo misterioso che leggenda narra si trovi proprio nel colon. La sua testa piena d'acqua è la fonte dei suoi poteri, per cui se lo si incontra bisognerebbe cercare di farlo inchinare o rovesciare per indebolirlo e potergli sfuggire.

Funa-yūrei (船幽霊)
I Funa-yūrei (船幽霊 o 舟幽霊), invece, sono comuni soprattutto nelle acque costiere ma vengono avvistati anche nei laghi e nei fiumi. Sono le anime inquiete di persone morte per annegamento e il loro aspetto varia quanto più tempo trascorre dalla loro dipartita da questo mondo. Poco dopo la morte possono somigliare a una persona normale e dare l'impressione di essere ancora vivi, ma col tempo diverranno sempre più emaciati fino a tramutarsi in veri e propri scheletri ambulanti. I Funa-yūrei emergono dalle profondità per affondare le imbarcazioni di coloro che sono così incauti da trovarsi ancora in mare dopo il tramonto, spesso dopo averle attirate a sé con segnali di fuoco o di luce. Non sono cattivi: vogliono, semplicemente, qualcuno che condivida il loro triste destino. Una versione della leggenda racconta invece che i Funa-yūrei sono costretti a viaggiare notte dopo notte sulla loro barca fantasma finché non trovano qualcuno che prenda il loro posto. Qualcuno che, ovviamente, provenga dal mondo dei vivi. Se vi trovate in Giappone, ricordate di non fare crociere notturne: se doveste avvistare delle figure ricoperte di lunghe vesti svolazzanti, con la testa ornata del tipico copricapo triangolare dei defunti nei funerali buddisti, sarebbero guai...

Un altro pericolo per i pescatori o gli escursionisti solitari, o semplicemente per chi incautamente cerca di guadare i fiumi, sono le Nure Onna (濡女), le donne-serpente o donne-dragone che infestano le baie, le anse dei fiumi e tutte le insenature dove l'acqua è bassa, ove riescono a celarsi bene nonostante il corpo da serpente lungo almeno 30 metri. Il viso però è umano: è un viso femminile dai lunghi capelli neri che spesso avvicinano alla superficie per attirare potenziali vittime. Queste, convinte di vedere il volto di una donna annegata o sul punto di annegare, si avvicinano e vengono immediatamente ghermite, trascinate sott'acqua e divorate. Le braccia della Nure Onna infatti sono umane e squamose, così come le mani. Altre versioni dicono che, come Medusa, essa riesca a ipnotizzare gli esseri umani con lo sguardo. Nell'isola di Kyūshū i racconti divergono anche riguardo il suo aspetto: in alcuni di questi, infatti, essa viene descritta come una donna comune, con una lunga veste bianca e con un infante in braccio. In questi racconti (dove spesso i due sono sposati) la Nure-Onna preda insieme a un altro yōkai, l'Ushi Oni (牛鬼): la figura biancovestita, con un pretesto, affida il bambino alla vittima prescelta e scompare tra i flutti, come per suicidarsi, ma subito il bambino comincia a crescere fino a immobilizzare l'umano. A quel punto, l'Ushi Oni riemerge dalle acque per consumare il suo pasto.

Sembra incredibile, ma in questa bizzarra carrellata manca all'appello la più strana fra le creature acquatiche: l'Umi-bōzu (海坊主). Perché dico questo? Perché, fondamentalmente, si tratta di una massa d'acqua semovente che può arrivare ai trenta metri d'altezza, anche se gli esemplari più piccoli (forse i più giovani) misurano appena dieci centimetri e, non di rado, restano impigliati nelle reti dei pescatori. La loro apparenza è informe, ma nell'acqua è possibile ravvisare fattezze umane, a volte soltanto grandi occhi fiammeggianti. Sono insomma qualcosa di così alieno da turbare il sonno dei marinai da generazioni e generazioni. Gli Umi-bōzu sono, di fatto, gli spiriti dei marinai morti annegati che infestano il mare aperto con le loro apparizioni e con lamenti e pianti: solo occasionalmente quelli di dimensioni più ridotte si spingono fino alla corsa. Diversamente dai Funa-yūrei si mostrano a qualsiasi ora del giorno e della notte, spesso portando con sé la tempesta o strani fenomeni atmosferici, e tentano di rovesciare le barche. Se li si incontra, l'unica opzione è la fuga. Converrete con me che, al confronto di tutte queste stranezze, l'immagine di uno spirito che riemerge da un pozzo è in fondo poca cosa...

Nure Onna (濡女)


Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 21 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato qui lo scorso aprile. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 21° candela...

American Rings

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Ecco che è giunto il momento di affrontare una delle parti se vogliamo più spinose dell’intero speciale. E quando dico “spinose” intendo affermare che non sentivo davvero un gran bisogno di scriverlo, questo post. Se sono qui a farlo è solo perché uno speciale così lungo e approfondito non poteva dirsi completo se non citando, seppure brevemente, tutto ciò che è successo immediatamente dopo il travolgente successo del Ring di Hideo Nakata.
Immediatamente? Beh, non proprio, visto che ci vollero ben quattro anni affinché le case di produzione hollywoodiane si accorgessero del fenomeno Ring e se ne appropriassero.
Naturalmente, come accade sovente in questi casi, per Ring fu la consacrazione definitiva e il successo divenne planetario. Tra l’altro, è bene sottolineare che l’horror occidentale aveva trovato con Ring un nuovo canale dal quale attingere e con il quale potersi lasciare finalmente alle spalle i vecchi cliché del genere, quelli che da anni ormai avevano annoiato a morte anche i più irriducibili appassionati. Diciamocelo chiaramente: per quanto apprezzabili, se non in alcuni casi addirittura pregevoli, i numerosi tentativi di fare horror negli anni di fine millennio andavano poco più in là della riproposizione di situazioni viste e riviste un milione di volte, sfociando spesso in una sorta di horror-pop imbarazzante. Mi dispiacerebbe dover sminuire in poche righe il duro lavoro di centinaia di attori, registi e produttori, ma sarete certamente d’accordo con me quando dico che dodici film della serie “Venerdì 13”, dieci “Halloween”, nove “Hellraiser”, nove “Nightmare” e otto “Amityville” sono stati molto più che abbastanza.
Non che le cose in Oriente siano andate poi così diversamente, e lo prova il fatto che siamo qui, da quasi due mesi, a parlare di Ring in tutte le sue sfumature e derivazioni. Finalmente però, come dicevo, l’horror occidentale aveva trovato nuova linfa nella cultura di un paese sino a quel momento sottovalutato, o forse sarebbe meglio dire allegramente ignorato. E il remake? Com’è andato?
Direi che “The Ring”, tutto sommato, è andato piuttosto bene. D’altra parte più di quello che dico io ha valore quello che dice la storia e, sotto questo aspetto, l'adattamento di Ehren Krugerè stato giudicato da tutti maturo e intelligente, le performance artistiche di Naomi Watts e di Martin Henderson intense e affascinanti, mentre al regista Gore Verbinski (già celebre per The Mexican) è stato riconosciuto il merito di aver ben equilibrato il rispetto della trama con le necessità di un pubblico decisamente diverso da quello dell’originale. Insomma, per essere un remake non è andata affatto male.
In ultimo, a fronte di un costo di $48M (nemmeno poco), rientrò nella casse della Dreamworks una somma pari a cinque volte tanto. Naturalmente il primo punto sul quale si è andati ad agire, per adattare Ring al mercato statunitense, è stata la scelta dei personaggi: Sadako Yamamura, che qui viene ribattezzata con il più english-friendly nome di Samara Morgan, è decisamente lontana nell’aspetto dalla sua controparte giapponese. La classica rappresentazione dello Yūrei (幽霊), una fanciulla con una veste bianca e lunghi capelli corvini a nascondere il volto, non ha infatti alcun appeal nell’immaginario americano; non richiama alla mente quelle paure ancestrali insite nella tradizione nipponica; molto meglio quindi caratterizzare Samara in maniera completamente diversa, cucendole addosso un aspetto che richiama alla mente più l’indemoniata Regan di William Friedkin che uno spettro proveniente dall’oltretomba.


Il protagonista Asakawa, che in diverse altre occasioni era un uomo, nel Ring americano diventa Rachel Keller, una bella ragazza, molto bionda e molto americana, il cui volto viene offerto da una Naomi Watts a inizio carriera. La scelta è essa stessa molto americana perché va bene orrore e spaventi, ma la vaga possibilità che ci possa scappare una scena di sesso può essere una calamita ineguagliabile per il botteghino. Altri personaggi imprescindibili di The Ring sono il figlio di Rachel (lo Yōichi originale, che qui diventa Arian) e il coprotagonista Noah, ex compagno di Rachel (che fu Ryūji Takayama nel film di Nakata). Mettersi qui a raccontare trame e sottotrame di The Ring direi che è praticamente superfluo, considerato che a conti fatti non si discosta molto dal film che lo ha ispirato. È forse più interessante in questa sede mettere il Ring di Nakata e il remake di Verbinski fianco a fianco e provare a utilizzarli come strumento di confronto tra due culture molto lontane, e non solo geograficamente.

Per farlo possiamo semplicemente focalizzarci sulle due diverse versioni del video maledetto: il primo, quello di Nakata, proposto in calce a questo precedente articolo, il secondo inserito più in basso in questa pagina. Osserviamoli attentamente e proviamo insieme a trovare le piccole (grandi) differenze tra i due. Nel farlo, sorvoliamo sul significato del video descritto nel romanzo di Kōji Suzuki che in questi film è totalmente ignorato (un significato di cui abbiamo ampiamente discusso qui). A prima vista cosa salta agli occhi?
Beh, direi che la versione di Verbinski, quasi a garanzia del nome del regista, è decisamente più gore: dita mozzate, unghie strappate, cavalli uccisi o caprette mutilate… tutte immagini che non hanno alcun riscontro nel Ring giapponese. Sono anche presenti diversi oggetti a noi familiari: una scala a pioli, una sedia, un uomo alla finestra…
Viceversa, il Ring giapponese preferiva affidarsi a immagini decisamente più surrealiste: gli ideogrammi fluttuanti che suggeriscono l’eruzione di un vulcano, un gruppo di persone che si trascina a terra strisciando, un individuo con un ampio panno calato sulla testa, i primi piani intensi dell’occhio di Sadako con l’ideogramma sada (貞) in bella vista.
In parte nella scelta delle immagini sono confluite necessità culturali: il cavallo e la scala sono ovvi riferimenti a superstizioni nostrane (i ferri di cavallo portano bene, il passare sotto la scala porta male). Ma per Gore Verbinski c’era anche la necessità di realizzare un prodotto che potesse pienamente soddisfare il proprio pubblico. Il suo spettatore tipico aveva bisogno dello “spiegone”, ovvero aveva una necessità inconscia di far combaciare tutte le tessere dell’immenso puzzle che si stava dispiegando ai suoi piedi. Il video di Verbinski serve proprio a questo: la scala a pioli, la sedia, l’uomo alla finestra, avranno un riscontro nello svolgersi della trama e lo spettatore sarà invitato a pensare “Ah, ecco, ho capito”, anche quando non c’è niente da capire. Ciò che conta è che lo spettatore esca dal cinema soddisfatto, potendo crogiolarsi nel conforto della propria, vera o presunta, intelligenza. Questa ipotesi suggerisce che il pubblico di Verbinski sia fondamentalmente razionale, un pubblico che non si può maramaldeggiare gettando roba astratta in un horror.
Fantasmi, zombi e vampiri sono digeribili nella misura in cui viene data loro una concreta ragione di esistere, viceversa diventano inaccettabili. Vuoi infilarci uno zombi? Devi pensare a un fattore scatenante che sia scientificamente credibile. Come in un romanzo giallo, tutti i fili devono essere alla fine tirati; il minimo particolare sul quale l’autore decide di sorvolare rende il romanzo imperfetto.


Di contro, il pubblico orientale non ha bisogno di spiegazioni. Tutt’altro. Quasi mi verrebbe da dire che per esso è più importante lasciare alcuni passaggi irrisolti. Ed è forse per questo che Hideo Nakata ha preferito abbandonare la logica analisi del video descritto da Suzuki per gettarsi su una versione più astratta, ma decisamente più inquietante. Non che il video di Nakata non abbia una sua logica, ma è molto meno evidente e, per certi versi, un po’ forzata. Quell’individuo con quell’ampio panno calato sulla testa, che diverrà a un certo punto la chiave del mistero, lascia piuttosto perplessi. Chi è quel tizio? Cosa significa quella scena? Perché era presente nel video? Perché affidare la soluzione di un enigma a un’immagine così astratta? Probabilmente non esiste una risposta, anche se il panno sul volto potrebbe suggerire il comune rito di coprire il volto dei defunti (su quest'ultimo punto in altre occasioni avrei potuto scriverci un post, ma ora inizio ad essere un po' stanchino).

Comunque, mi verrebbe quasi da dire, la forza della versione giapponese sta nel celare mentre, al contrario, la forza del remake sta nel suo esatto opposto. Secondo una vecchia intervista che lo sceneggiatore Ehren Kruger rilasciò a suo tempo, sembrerebbe invece che sia lui che Verbinski, in fase di realizzazione del video maledetto, abbiano fatto di tutto per lasciare molti punti aperti alla libera interpretazione del pubblico, cercando quindi di ribaltare quanto aveva fatto Nakata. Una dichiarazione che mi lascia fortemente perplesso, visto che confermerebbe esattamente l’opposto di quelle che sono state le mie sensazioni. Non so quale possa essere la verità ma, se me lo permettete, preferisco rimanere della mia opinione. Opinione che, tra l’altro, è supportata dall’immagine stessa che i due registi hanno scelto per rappresentare il male: Sadako, se ci avete fatto caso, non mostra mai il proprio volto, mentre Samara lo esibisce invece piuttosto bene. Forse è proprio questo il punto a sfavore di “The Ring”, un film tutto sommato ben fatto, spesso curato nei particolari, ma di contro piuttosto artificioso e decisamente più debole a livello di atmosfera. Ma quindi? La sentenza finale? Quale vi suggerisco? La mia risposta non può che essere “entrambi”. Guardatevi la versione di Nakata se amate gli originali, e guardatevi il remake se ciò vi fa sentire più a vostro agio (anche perché, tra i tanti orrendi remake che Hollywood ci sta proponendo ormai da anni, quello di Ring è uno dei migliori). 

A questo punto dovrei forse accennare al sequel del The Ring americano, o magari dedicarci un intero articolo. Non credo che la seconda ipotesi possa mai realizzarsi, talmente povero di contenuti è stato, a mio modesto parere, “The Ring 2”. Qualche parola in merito tuttavia posso spenderla, giusto per non lasciare nulla di intentato: un paio di anni dopo il remake di Gore Verbinski, la DreamWorks incaricò nuovamente Ehren Kruger di scrivere la sceneggiatura di un secondo episodio che potesse iniziare laddove The Ring era terminato. A partire da un budget simile a quello che fu appannaggio di Verbinski, in gran parte speso per le impressionanti sequenze in CGI, il sequel riuscì comunque a terminare di gran lunga in positivo, incassando circa $150M worldwide.
Alla cabina di regia venne chiamato nientepopodimeno che l’ormai leggendario artefice del primo grande successo della saga, quell’Hideo Nakata che ne frattempo aveva ampliato la sua notorietà internazionale con il fondamentale Dark Water (2002), anch’esso tratto da un racconto di Kōji Suzuki. Ed è proprio a Dark Water che il secondo capitolo americano di The Ring strizza di più l’occhio, soffermandosi testardamente su quel rapporto madre-figlio/a che nell’originale, seppur presente, era stato lasciato un po’ andare. Infine, mentre scrivo queste righe da qualche parte negli Stati Uniti il regista spagnolo F.J. Gutiérrez sta mettendo in post-produzione il terzo capitolo della serie: Rings. Annunciato e smentito più volte nel corso degli anni, Rings dovrebbe finalmente uscire nelle sale quest’autunno e, stando alle dichiarazioni del regista, dovrebbe essere ambientato 13 anni dopo gli avvenimenti del secondo capitolo. Particolare, questo, che segna un distacco netto dalla serie originale che, come senz’altro ricorderete, alla terza prova aveva sorpreso tutti con un prequel. Non sono molto ottimista ma, come si dice in questi casi, mai mettere il carro davanti ai buoi. Staremo a vedere.



Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 22 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato qui lo scorso aprile. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 22° candela...

Mutazione

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Più che un approfondimento, l'articolo di oggi vuol essere il modo di mettere nero su bianco alcune riflessioni che riguardano i temi scientifici trattati nella storia di Ring. Ma potrebbe esserci anche dell’altro. Mettere i miei pensieri in ordine non sarà facile, ma ci proverò. 
Uno dei punti deboli della saga sembrerebbe essere l'innesto di elementi scientifici all’avanguardia in un contesto che ai nostri occhi appare, ahimè, datato, il che se vogliamo è un po' il rischio che corrono, con il passare del tempo, tutte le opere che sfiorano questi temi, per via del confronto con il nuovo che avanza. 
In realtà, questa percezione è legata prevalentemente agli adattamenti televisivi dei romanzi di Kōji Suzuki, le serie “Saishūshō” e “Rasen” delle quali abbiamo parlato pochi giorni fa. Benché siano state realizzate entrambe alle porte del Duemila, l’impressione è che siano molto più datate, e anche se l’azione non viene mai a mancare, le due serie ricordano irrimediabilmente delle soap opera, un po’ per la sceneggiatura e un po’ per il taglio delle inquadrature e l’uso delle musiche; l’aspetto dei due prodotti appare inoltre amatoriale anche se, bisogna ammetterlo, molto può essere dovuto alla bassissima risoluzione (ad occhio un 480p@25fps) con la quale sono state caricate su YouTube. Non è quella, tuttavia, l’impressione che si ricava dalla lettura dei romanzi. Perfino il primo, che a suo tempo ho definito “senza infamia e senza lode”, e che comunque a scanso di equivoci è ben scritto e piacevole da leggere, può essere rivalutato alla luce del suo avvincente sequel, che poi è anche il capitolo che segna davvero l’incursione della storia in campo scientifico.
Tutti i romanzi della celebre trilogia di Ring (Ring, Spiral e Loop) sono stati scritti da Suzuki negli anni ’90, e all’epoca la questione della clonazione era più che mai d’attualità: la nascita della pecora Dolly risale infatti al 1996, anche se non tutti sanno che Dolly non fu affatto il primo animale in assoluto a essere clonato, ma soltanto il primo mammifero la cui origine derivava da una cellula adulta anziché da un embrione (la discussione etica infuriava da tempo negli ambienti accademici anche se l’eco mediatica si ebbe solo più tardi).
Le uniche trasposizioni del secondo romanzo di Sukuzi furono le due serie TV e l’omonimo film (Spiral, il cosiddetto sequel apocrifo) di Jōji Iida e purtroppo, come ho già avuto modo di spiegare, a mio parere sono tutti dei pessimi adattamenti. Se è normale apportare delle modifiche alla storia originale in fase di sceneggiatura, è inaccettabile che nel farlo se ne stravolga il senso o, peggio ancora, se ne mini la comprensione. La maggiore pecca di Iida fu in realtà dovuta alla necessità di riallacciarsi al “Ring” di Nakata, che trasformava Kazuyuki Asakawa in una donna e Ryūji Takayama nel suo ex marito e padre di suo figlio: alleandosi con Sadako il Ryūji di Iida perde di credibilità, mentre il personaggio inventato da Sukuzi, non avendo figli (né, evidentemente, altri legami affettivi degni di nota), aveva potuto trasformarsi in un cinico traditore dell’umanità senza troppi problemi.
Un’altra scelta che finisce per rendere le vicende del film poco chiare è quella di far risorgere Sadako nei panni di Mai Takano, forse una “scelta di marketing” che permetteva di riutilizzare un’attrice già presente nel primo film ma che fu, se vogliamo, anch’essa figlia delle precedenti scelte di Hideo Nakata; nel film di Iida, Sadako ritorna incomprensibilmente dal regno dei morti con l’aspetto di Mai, e potrà replicarsi solo mantenendo l’aspetto delle persone che via via vengono infettate dal virus; nel libro, invece, il virus Ring contiene sia geni umani (quelli, appunto, di Sadako) sia quelli del vaiolo, pertanto, dopo che Mai è stata infettata, Sadako (ri)nasce da lei con il suo vecchio aspetto, ma anche come ermafrodita “perfetto” (cioè con gli organi riproduttivi di entrambi i sessi) e ciò significa che potrà di fatto continuare a partorire se stessa, trasmettendo alla sua “prole” solo e unicamente il proprio codice genetico. In origine, ricordiamolo, di Sadako si diceva che fosse soggetta a femminilismo testicolare e di conseguenza, come individuo XY, quindi biologicamente un maschio, non aveva l'utero (ne ho parlato qui).

Se non altro, però, Jōji Iida non stravolse il finale del libro, al contrario di ciò che avvenne nelle serie TV dove era necessario, immagino, pagare dazio al mezzo televisivo. La serie “Rasen” in particolare offre un lieto fine che è insieme consolatorio (Sadako si pacifica e il mondo è salvo) e moralista (la clonazione è un atto contro natura e chiunque apprenda di essere nato per clonazione rinuncerà alla vita piuttosto che accettare la sua condizione di “secondo”: questa, personalmente, è la “lezione” che ne ho tratto).
Prima di proseguire oltre, bisogna domandarsi che cosa ha impresso davvero Sadako sulla videocassetta: una maledizione per diffondere il suo odio e vendicarsi dell’umanità, come suggeriscono quasi tutte le trasposizioni cinematografiche, o qualcosa di diverso? Una delle chiavi di lettura delle trasposizioni dei romanzi è che il cerchio (ring) simboleggi l'odio eterno di Sadako, e dunque che l'amore e la decisione volontaria di non duplicare la cassetta per non fare del male ad altri sia la vera chiave per spezzare il cerchio, ovvero la maledizione… Ad esempio, l’ultima puntata della prima serie TVè costruita partendo da questo assunto. Molto commovente, ma anche molto lontano da quello che aveva in mente Suzuki! Leggendo “Spiral” appare chiaro che il ritorno di Sadako è stato pianificato fin dal momento della sua morte. Non c’è e non c’è mai stato da parte sua alcun desiderio di vendetta, ma soltanto quello di riprendere un’esistenza terrena interrotta troppo presto.
Questa è una affermazione rivoluzionaria, come avrete notato! Sin dall’inizio di questo speciale abbiamo parlato di Onryō (怨霊), ovvero dei fantasmi vendicativi della tradizione giapponese e ora, mesi dopo, ci rendiamo conto che Sadako non è affatto uno di loro!
Il video maledetto, se vogliamo essere più precisi, è il prodotto di due volontà: la sua e quella del virus. Prima di morire, Sadako era stata violentata da Nagao, l’ultimo malato di vaiolo registrato in Giappone, e ne era stata contagiata. Costretti nel pozzo, Sadako e il virus erano destinati a perire insieme, ma la loro volontà di sopravvivere era stata più forte e, grazie alle facoltà ESP di Sadako, aveva fatto sì che le loro informazioni genetiche potessero essere codificate nelle immagini del video.
Questo era stato possibile proprio per la qualità intrinseca delle immagini, che sono in pratica delle fotografie in grado di registrare un gran numero di informazioni su una superficie molto ridotta: pochi fotogrammi potevano contenere tutto il DNA di Sadako e del virus. Il passo successivo era inserire un messaggio per obbligare coloro che la guardavano a fare una copia della cassetta e a diffonderla per poter restare in vita. Potremmo domandarci insomma chi ha usato chi, se non fosse che un conflitto tra la donna e il virus, entrambi confinati nel pozzo, sarebbe stato solo sterile e, anzi, controproducente per entrambi…


La stessa forma ad anello del virus Ring simboleggia il ripetersi del suo ciclo vitale, la sua reincarnazione, mentre i virus aperti riscontrati in gran quantità nel corpo di Mai (ma anche di Kazuyuki Asakawa) hanno una forma che ricorda quella degli spermatozoi.
Quel che era avvenuto poi era nulla più che uno scherzo del destino: i ragazzi che per primi avevano guardato il video, nel cottage, non avevano creduto alla maledizione e avevano cancellato di proposito la parte finale del messaggio, quella che avvertiva di continuare la catena, di modo che chi lo avesse visto dopo ne fosse ancora più terrorizzato. La cassetta necessitava di essere replicata per diffondersi e proprio per questo l’incompletezza del suo messaggio non poteva essere un crudele tiro mancino di Sadako: se chi ha visto la cassetta non vedesse l’opportunità di salvarsi la vita, perché mai dovrebbe duplicarla? Tuttavia, proprio questo evento imprevisto era stato determinante per il successivo svolgersi degli eventi.
Le intuizioni di Sukuzi che rendono la sua opera unica sono parecchie, ma si possono riassumere, fondamentalmente, in due punti.
La prima grande intuizione è immaginare che il virus Ring sia un parto della coscienza, riallacciandosi in tal modo alla filosofia che vede nel pensiero il motore della materia. Si tratta dello stesso assunto che sorregge il concetto di fotocinesi e che fra l’altro, nel libro, permette a Ryūji di crittare un messaggio per il suo amico Mitsuo nella sequenza genetica del virus Ring presente nel suo sangue. Sollecitando il cervello tramite i sensi, il video genera nel corpo un virus molto simile a quello del vaiolo, oppure trasforma il DNA cellulare dell’organismo ospite nel suddetto virus.
La seconda grande intuizione dell’Autore è suggerire un’analogia fra il metodo riproduttivo del DNA e quello della videocassetta. In altre parole, cancellando una parte del messaggio è stata introdotta una mutazione, e sappiamo bene che la base dell’evoluzione è proprio la mutazione. Più che al darwinismo classico, Suzuki (per bocca del personaggio chiave del suo secondo libro, Ryūji Takayama) sembra però quasi fare riferimento a quella che viene definita teoria delle mutazioni, secondo la quale, trascorso un certo lasso di tempo, gli individui di una specie tendono spontaneamente al cambiamento (la mutazione, cioè, sarebbe un processo in un certo qual modo volontario, più che un semplice adattamento all’ambiente): ecco, in quest’ottica è come se Sadako, così come il virus Ring, fosse un agente di questo cambiamento (o, in altri termini, uno shock per lo status quo), drastico ma necessario e avvertito inconsciamente dall’umanità, il cui più grosso problema – e stimolo - è riuscire a gestire la noia.

Riassumiamo, quindi, ciò che sappiamo del virus. Il virus viene comunemente definito come un’entità biologica elementare che parassita le cellule di altri organismi: in altre parole, è in grado di infettare una qualsiasi forma di vita (vegetale, animale, umana ma anche batterica) e, alimentato dagli enzimi delle sue cellule, replicarsi al suo interno, danneggiandola. Questo avviene tramite l’alterazione genetica delle cellule dell’ospite: è come se queste venissero “possedute” dal virus.
Tenete a mente questo concetto, perché a breve ci torneremo su. Il suo programmatico “suicidio” non sembra avere altro scopo che uccidere l’organismo ospite, perché è evidente che la sua morte causerà anche la morte del virus stesso, a meno che questo non riesca a trasferirsi in un nuovo ospite.
Ma la questione interessante è un’altra: può un virus definirsi vivo nel senso comunemente attribuito a questo termine? E se non è vivo, come può avere una sua forma di coscienza? Certo, si potrebbe anche disquisire a lungo su che cos’è la coscienza, ma non è questa la sede adatta…
La comunità scientifica sembra scissa: da un lato c’è chi afferma che i virus non sono altro che frammenti o detriti subcellulari o meglio, mitocondriali, di cellule morte, cioè che non solo non sono vivi, ma non lo sono mai stati; dall’altra c’è chi, pur affermando che il virus è composto da materiale genetico, DNA e proteine, si riproduce ed evolve per “selezione naturale”, ammettono con un pizzico di imbarazzo che è difficile considerare vivo qualcosa che, come il virus, non ha una vera e propria struttura cellulare e soprattutto non ha capacità di azione e movimento, e per questo hanno coniato per descriverlo la geniale definizione di organismo “ai margini della vita" (cito da Wikipedia).
Una cosa è certa: fuori e dentro, siamo tutti assediati dai virus. Ogni volta che una delle miliardi di cellule che compongono il nostro corpo muore, viene frantumata in particelle infinitesimali che vengono poi espulse dal corpo. Il processo è quotidiano: come disse il saggio, fin da quando veniamo al mondo moriamo un po’ ogni giorno. Se pensiamo al numero abnorme di esseri viventi che popolano la terra, possiamo comprendere come questa sia letteralmente infestata dai loro “scarti” fisiologici che sono, appunto, dei virus. E allora? Se è privo di metabolismo, in altre parole se non è vivo, come fa il virus a provocare le malattie? E che cosa rende alcuni virus mortali e altri, la maggior parte di quelli esistenti, fondamentalmente innocui?
Non sta a me, naturalmente, rispondere a queste domande. Posso solo ipotizzare che il virus sia una concausa, in grado di provocare la malattia solo in presenza di altre disfunzioni e patologie che determinano risposte diverse in organismi diversi. O forse, come suggerisce Sukuzi (che però non inventa nulla e si rifà a una tradizione di matrice olistica), in qualche modo la mente gioca un ruolo fondamentale ogniqualvolta il corpo si ammala. Il discorso è piuttosto complesso, come avrete senz’altro notato. Arrivati a questo punto è forse il caso di interromperci, fare un po’ di ordine, lasciarvi il tempo di assimilare tutto questo bordello, e riprendere tra qualche giorno il filo dei pensieri.

Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 23 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato qui lo scorso aprile. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 23° candela...

Clonazione

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La seconda serie TV suggerisce velatamente un parallelismo fra virus biologico (il veleno, vīrus, dei latini) e virus informatico, perché Sadako finisce in una rete di computer dalla quale, tramite internet, le sarebbe teoricamente possibile raggiungere e infettare un numero spropositato di persone (la minaccia di Kenichi Azuma di sterminare l’umanità in questo modo occupa proprio le puntate finali della serie).
In effetti anche il virus informatico, introdotto in un organismo, in questo caso una macchina, è in grado di infettarlo e di replicarsi al suo interno.
Nella peggiore delle circostanze compromette il sistema operativo del pc e spesso non ci si accorge della sua presenza finché il danno non è esteso.
Ricordate quando la volta scorsa abbiamo accennato a come le cellule dell'organismo ospite sembrino "possedute" dal virus? Come un virus, anche Sadako è allo stesso tempo viva e morta, o meglio si trova in uno stato intermedio fra la vita e la morte. Ma Sadako può anche essere vista come una sorta di divinità, o forse un demone, in grado di prendere possesso di un altro organismo. Lo stesso può dirsi della videocassetta, e perfino dell’altra “volontà” che ne ha permesso la creazione (il virus del vaiolo) e del risultato di quel miscuglio di geni (il virus Ring) che si trova nella cassetta stessa. È per questo che nel reportage “Ring” scritto da Asakawa nel primo romanzo di Suzuki la risoluzione dell’enigma (che, come dovrebbe essere ormai chiaro, non consiste affatto nella sepoltura dei resti di Sadako, ma nella duplicazione della cassetta), viene definita “esorcismo”? Attenzione, bisogna sempre tenere a mente che, qualsiasi cornice scientifica Kōji Suzuki possa aver dato alla sua storia, l’elemento soprannaturale è altrettanto importante, a parte il fatto che è proprio su quello che le varie trasposizioni (cinematografiche e non) dell’opera hanno puntato per garantire e reiterare l’effetto horror.
Come abbiamo visto, nel primo film di Nakata e nel remake americano la narrazione ruota attorno al video maledetto che agisce come veicolo del contagio e della maledizione. Nella prima serie TV il video all’apparenza non ha nulla di anomalo, essendo la registrazione del videoclip di una canzone pop, ma poco cambia: a un esame più attento si scopre che questo contiene, occultata, la maledizione di Sadako. Un virus viene “inoculato” a chi guarda il video ed è questo a provocargli un arresto cardiaco.
Non è solo il modo in cui Sadako riesce a generare delle immagini e a registrarle con la forza del pensiero a provocare stupore e terrore, anche la virulenza del contagio è stupefacente: nessun virus, perfino il più aggressivo, può causare una risposta prevedibile sui soggetti colpiti, perché ogni individuo ha una diversa reazione agli agenti patogeni, così come alle medicine. Perciò, il fatto che i contagiati muoiano immancabilmente allo scadere del tempo a loro concesso dopo la visione del video, è la riprova del fatto che l’azione letale del virus è in qualche modo soprannaturale.
Nella seconda serie TV si scoprirà che uno dei personaggi (inesistente nel libro di Suzuki) ha trafugato i resti di Sadako per condurre degli esperimenti: nel fare questo, e nel sequenziare il suo DNA per poi caricarlo su un computer, è come se questa persona avesse di fatto evocato Sadako, permettendole di tornare alla vita - una “pista” soprannaturale che può andare ad aggiungersi a quelle più esplicite immaginate dall’autore della storia. In “Rasen” (la serie TV e il film) Sadako è inoltre in grado di accelerare la crescita di un feto nell’utero materno nel giro di una settimana, e la crescita del “clone”, una volta che questo è nato, in un’altra settimana. Potremmo, più banalmente, considerare Sadako una strega moderna?

Nel Medioevo, le cosiddette streghe erano nella maggior parte dei casi donne (o uomini) che tramandavano l’antica arte erboristica, e operavano nei villaggi come guaritrici e ostetriche, spesso accompagnando l’applicazione di rimedi sui pazienti con scongiuri o incantesimi rituali. Come già i culti più antichi, anche il Cristianesimo identificava negli spiriti maligni, che chiamava demoni, la vera causa di tutte le malattie. Quando un paziente moriva, non era raro che si incolpasse la strega della sua morte. E di pazienti, all’epoca della Peste Nera, ne morivano davvero a migliaia ogni giorno. Paradossalmente, anche le guarigioni di casi disperati destavano sospetto, a meno che non fossero avvenute per intercessione di un prete o di un esorcista cristiano: nessuna strega poteva operare miracoli ma, al massimo, fare appello a forze del male. Perciò, che guarisse o che fallisse, o che fosse semplicemente sospettata di diffondere il contagio della peste, la strega veniva comunque perseguitata e torturata, imprigionata e uccisa o, nella migliore delle ipotesi, bandita dal villaggio.
In “Ring 0: Birthday” Sadako viene sospettata di una serie di avvenimenti nefasti, giudicata sommariamente dai suoi impauriti colleghi e poi uccisa dal suo stesso padre: lei è la strega che, come nelle fiabe, bisogna eliminare perché tutto torni alla normalità.
Le cose sono un pelino più complesse di come le ho descritte ora (e un po’ diverse nel romanzo, ma poco importa), ma in effetti la genealogia, per così dire, extraterrena di Sadako non è una novità (ne abbiamo parlato qui).
D’altra parte, è cosa nota che Sadako avesse dei poteri molti superiori a quelli di sua madre Shizuko. In effetti, anche se finora non abbiamo ancora affrontato l’argomento, proiettare delle immagini su un tubo catodico non è la stessa cosa che farlo su una pellicola fotografica. I televisori producono immagini attraverso un processo del tutto diverso da quello fotografico, non si tratta semplicemente di esporre la pellicola alla luce. Un'immagine su uno schermo televisivo è composta da 525 linee, giusto? Ebbene, Sadako è riuscita a manipolarle. Questo è un potere di ordine del tutto diverso. (cit.)
Un potere di ordine del tutto diverso con (forse) un’origine del tutto diversa, un potere in grado di rendere anche la morte, per Sadako, un’esperienza del tutto differente da quella delle persone comuni.
Si dice che chi sta per morire sperimenti un flashback con le visioni dei momenti più significativi della propria vita: ogni scena del video maledetto, così carica di tensione e di emozione, rappresenta proprio il ricordo dei momenti che hanno lasciato l'impronta più profonda sulla vita di Sadako.

Torniamo però sul terreno apparentemente più sicuro della speculazione scientifica, perché dobbiamo dire ancora qualcosa a proposito della mutazione. Come abbiamo visto, il virus si riproduce solo tramite mutazione, ma anche la famosa videocassetta ne ha subita una quando alcune immagini (che con un po’ di fantasia possiamo considerare i suoi “geni”) sono state sovrascritte con qualcos’altro: Asakawa, copiando la cassetta per mostrarla a Ryūji, non ne ha copiato la versione integra, originale, ma quella “monca”, ha cioè riprodotto la mutazione, proprio come avviene quando il DNA replica le modifiche o i difetti dei geni.
Lo scenario che Suzuki apre introducendo questo concetto (che, per inciso, finisce per sovrastare di parecchio il tema della clonazione) è apocalittico, perché se la cassetta, ovvero il virus, è mutato una volta, allora sono possibili infinite mutazioni, e ciò significa che continuerà a diffondersi anche nel caso in cui la sua prima forma-contenitore venisse distrutta per sempre. La sfrenata fantasia di Suzuki immagina che il reportage di Kazuyuki Asakawa diventi un romanzo firmato da suo fratello Junichiro, che quel romanzo diventi un film con protagonista Sadako nella parte di se stessa, e poi che quel film venga immesso anche nel mercato degli home video e generi infiniti sottoprodotti (videogame, colonne sonore, gadget...).
Tramite i mezzi di comunicazione di massa e il web, le possibilità di una nuova vita per Sadako e per il virus Ring sono infinite.
Nel capitolo conclusivo della sua trilogia, “Loop”, Suzuki tira in ballo proprio la realtà virtuale, un ambiente creato da un team di scienziati utilizzando un centinaio di supercomputer. La storia è cronologicamente posteriore a quella narrata nei primi libri, e ambientata in un mondo in cui un’evoluzione del virus Ring, la cui origine è strettamente legata a quella dello stesso programma Loop, è in grado d’infettare indifferentemente uomini, animali e piante. Il programma consente a chi entra di scegliere se fare da osservatore (da fantasma) oppure fondere la propria coscienza con le persone nel Loop. Naturalmente il protagonista, Kaoru Futami, è particolarmente interessato alle vite di Asakawa, Ryūji e Sadako, perché sa che sono state essenziali per la genesi di Loop...
A molti lettori questo libro non è piaciuto, in parte forse perché ridimensiona parecchio il peso della figura di Sadako sulla storia nella sua globalità, concentrandosi maggiormente su Ryūji. Forse anche per questo non è mai stato adattato per il cinema, mentre perfino “Lemonheart”, un racconto appartenente ad una raccolta di racconti successiva, ha avuto la sua trasposizione (per la precisione in “Ring 0: Birthday”). La verità è che ogni tassello del puzzle dell’autore ha spostato un po’ il baricentro dell’affresco generale, e per quanto ci si sforzi è difficile coglierne tutte le sfumature.
La cosa più entusiasmante della saga di Ring è proprio questa. Cos’è più importante per l’autore? L’aspetto scientifico? Il soprannaturale? Oppure prevalgono i temi quali coscienza, libertà personale e molti altri? Di sicuro quella che i più considerano solo una storia di fantasmi, magari neanche così ben riuscita, nasconde invece mille altri significati.

Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 24 in un totale di 100Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato qui lo scorso aprile. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 24° candela...
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