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Sulle orme di Mae Nak

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Su un affluente del Chao Phraya, là dove la leggenda di Mae Nakè ambientata, sorge il distretto di Phra Kanong, uno dei cinquanta in cui è suddivisa Bangkok: un emblema della Tailandia intera, ove la tradizione si fonde volentieri con la modernità. È un quartiere tranquillo dove la vita si concentra principalmente attorno al lungofiume, dal quale il centro città è facilmente raggiungibile con lo sky train. Molti piccoli negozi, mercatini e bancarelle si affacciano sui moli in legno. A Phra Kanong non ci sono grattacieli, ma piccoli edifici immersi nel verde, con i templi buddisti, vero cuore culturale del distretto, a pochi passi dalla zona residenziale.
Qui si trova anche il Wat Mahabut, ovvero il tempio dedicato a Mae Nak: in quello che la tradizione indica come il luogo in cui sorgeva il tempio dove lo spirito venne esorcizzato, un sacrario ospita un piccolo altare con due statue ornate da foglie d’oro che raffigurano Nak e suo figlio. Le offerte dell’incessante folla di fedeli che visita il tempio sono ai suoi piedi, mentre di fronte c’è una tivù sempre accesa, e poco lontana una radio trasmette sovente canzoni d’amore. Mentre la si prega, si bada a che lei e suo figlio siano distratti dai doni ricevuti, dalle immagini della tivù o dalle canzoni in modo che i loro spiriti inquieti, ancora legati alla vita, non abbiano modo di riflettere su chi si trovano davanti, di provare invidia nel realizzare che i fedeli gli chiedono proprio di elargire ciò che a loro fu negato in vita.
Ma cosa si chiede essenzialmente allo spirito di Mae Nak? I giovani uomini in età per il servizio miliare chiedono principalmente di esserne esonerati in quanto, come sappiamo, fu proprio un obbligo militare la causa della separazione di Mae Nak dal suo amato sposo. Le giovani donne chiedono sovente un aiuto per la fertilità, ma ovviamente non senza le dovute cautele, considerato il fatto che la gravidanza fu per Mae Nak una parentesi dolorosa.
Tra l’altro, proprio a questo proposito, fuori dal tempio sono sparse ovunque ampie raccomandazioni destinate alle donne gravide, alle quali si consiglia vivamente di astenersi dalla visita. Sebbene placato, il rancore di Mae Nak potrebbe infatti tornare a scatenarsi alla vista di una futura madre, con le conseguenze che conosciamo.

Wat Mahabut: altare dedicato a Mae Nak
Sarebbe quasi un sacrilegio, infine, terminare questa lunga serie di articoli dedicati a Mae Nak senza citare uno dei personaggi più importanti della vicenda, perlomeno secondo la tradizione orale: quella di Somdej Toh, il monaco che riuscì ad esorcizzare definitivamente lo spirito irrequieto di Mae Nak. Ancora una volta quindi la realtà si confonde con la fantasia, perché se da una parte vi è ancora il dubbio sul fatto che Mae Nak possa essere o meno un personaggio appartenente al folclore tailandese (e niente di più), è indiscutibile che colui che ne placò lo spirito non lo sia affatto.
Somdej Toh, nato il 17 aprile 1788, fu uno dei più famosi monaci buddisti del periodo Rattanakosin, un lungo periodo di monarchia assoluta che ebbe inizio nel 1782, prendendo il nome della capitale del regno (Rattanakosin, l’antica Bangkok), ed ebbe fine nel 1932, con il passaggio alla monarchia costituzionale tuttora in vigore.
Si ritiene che Somdej Toh fosse il figlio Sua Maestà Buddha Loetla Nabhalai (Re Rama II del Siam) e che fosse stato ordinato monaco novizio nel 1800 all'età di soli 12 anni. Ordinato monaco nel 1807 sotto il patronato reale a Wat Praseeratanasasadaram (Wat Phra Kaeo) a Bangkok, Somdej Toh studiò le scritture del Canone Pāli con diversi maestri buddisti. Ottimo oratore, persona intelligente e compassionevole, diresse il monastero, per un totale di 65 anni, sino al giorno della sua morte, che giunse il 22 giugno 1872.

Somdej Toh
Si dice che Mak, inconsolabile vedovo, sarebbe infine diventato monaco, entrando nel monastero di Wat Mahabut e affidandosi agli insegnamenti del maestro Somdej Toh. La sua maturazione giunse a compimento il quindicesimo giorno dell’undicesimo mese del calendario lunare, in corrispondenza del plenilunio. Tale giorno, secondo la tradizione buddista, è oggi conosciuto come Wak Ok Phansa, durante il quale si festeggia la fine della stagione delle piogge.
In tempi antichi, Buddha e i suoi discepoli erano soliti vagare per il paese, portando ovunque il proprio insegnamento. Tutto ciò avveniva ininterrottamente nell’arco dell’anno tranne che nel periodo di tre mesi corrispondente al Vassa, durante il quale essi si fermavano in meditazione. Tale sosta oggi si è trasformata in un rito conosciuto con il nome di Ritiro Monsonico, vale a dire il ritiro spirituale che ogni anno, esattamente per la durata di tre mesi, è osservato dai monaci buddisti.
Come sostiene wikipedia, i tre mesi lunari del Vassa corrispondono generalmente ai mesi solari da luglio a ottobre e sono caratterizzati (perlomeno in India), dallo scatenarsi dei monsoni. Durante il Vassa, i monaci buddisti sono tenuti a non intraprendere viaggi e a fermarsi presso un monastero. In Tailandia, proprio in tale occasione, molti giovani scelgono di entrare in un monastero per un periodo, appunto, di tre mesi fino al Wak Ok Phansa, giorno che possiamo definire come un giorno di rinascita, di rigenerazione, di ritorno alle normali abitudini dopo il completamento di un percorso spirituale. Esattamente lo stesso percorso che, secondo la leggenda, Mak avrebbe compiuto centocinquant’anni prima.
Non è un caso se le violente piogge stagionali, che vengono simbolicamente a concludersi proprio in quel frangente, sono spesso associate alla furia di Nak che finalmente viene a placarsi. Se avete in programma un viaggio in Tailandia, oltre a un’obbligata visita al Wat Mahabut la mia raccomandazione è pertanto quella di dedicare un piccolo, rispettoso pensiero alla figura di Somdej Toh.
Interrompiamo in questo punto il lungo omaggio a Mae Nak iniziato qualche giorno fa, sebbene ci sia qualche ulteriore dettaglio che proverò a proporvi verso la fine del mese. L’intenzione dello speciale “Bangkok Haunted”, al quale state assistendo già da qualche giorno, non è infatti quella di concentrarsi su un’unica figura come è stato fatto, per esempio, nello speciale dello scorso anno.
La Tailandia offre infatti un’infinità di spunti sui quali lavorare e sarebbe un peccato non provare a esplorare nuove strade, facendo la conoscenza di nuovi personaggi e ascoltando nuove storie. Logica vuole, in un contesto come questo, che si cerchi di evitare di saltare di palo in frasca senza offrire un punto di raccordo, anche se minimo, tra i due argomenti consecutivi. Ecco quindi che tra qualche giorno affronteremo una curiosa variante di Mae Nak, un nuovo Phi Tai Hong Klom che, come senz’altro ricorderete, viene definito come “un fantasma di donna che trovò la morte, in modo violento, insieme al proprio bambino nel grembo”. Faremo quindi la piacevole conoscenza di Buppah Rahtree e lo faremo attraverso i quattro film a lei dedicati. Un’altra saga horror? Direi di no, perché Buppah Rahtree, come vedremo, è qualcosa di leggermente diverso.

Wat Mahabut: altare dedicato a Mae Nak


Buppah Rahtree

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Cosa rispondereste se vi chiedessero di nominare un franchise cinematografico tailandese di successo? Al di là del fatto che una domanda del genere sarebbe un’inutile crudeltà, vi garantisco che non è affatto facile rispondere, specialmente se la questione viene circoscritta al genere horror. Molto più facile sarebbe rispondere a una domanda simile sul cinema giapponese o su quello coreano, entrambi ampiamente più esportabili (ed esportati) di quello del paese a loro limitrofo. Neppure io, che da anni ormai seguo il cinema asiatico in tutte le sue sfaccettature, avrei potuto fornire una risposta convincente fino a nemmeno molto tempo fa.
Oggi però, senza pensarci un attimo, risponderei “Buppah Rathree!”. E lo farei forse sbagliando visto che, come ho accennato in chiusura del post precedente, “Buppah Rathree” non è affatto un horror, perlomeno non è quel genere di asian horror al quale ci siamo ormai tutti abituati grazie a Sadako e a tutti i suoi cloni.
In questo caso stiamo parlando di una serie di quattro commedie horror che pescano a piene mani da classici del cinema di ieri e di oggi, come L’Esorcista (1973) di William Friedkin o Audition (1999) di Takashi Miike, con l’occasione rivisti in chiave demenziale. Scritto così potrebbe sembrare che il sottoscritto stia oggi per parlare di una serie di boiate senza precedenti. Niente di più lontano dalla verità, perché Buppah Rathree dista anni luce dalle parodie horror occidentali alle quali siamo abituati. Siamo lontani anni luce anche da robaccia come Scary Movie (2000), come Riposseduta (1990) o come L’alba dei morti dementi (2004). Siamo lontani anni luce anche (mi sia perdonata l’eresia) da L’esorciccio (1975), un film che da bambino ho amato alla follia.
Il fatto è che i quattro “Buppah Rathree” saranno anche delle commedie, saranno anche un modo per prendere in giro i classici del cinema, ma sono anche degli horror che fanno dannatamente paura! Vi chiedete come sia possibile? Il primo Buppah Rahtree esce nelle sale tailandesi nel 2003 e ad oggi non è nemmeno impossibile recuperarlo in DVD, sottotitolato, con il titolo internazionale di Rahtree: Flower of the Night oppure, secondo diverse versioni, di Buppah Rahtree: Scent of the Night Flower.
Buppah Rahtreeè il nome di una studentessa, una di quelle ragazze solitarie interessate solo allo studio, che viene presa di mira da un gruppo di studenti appartenenti a famiglie benestanti. Nel corso del primo quarto d’ora sembra quasi che il film voglia incanalarsi nei canoni di un classico drammone strappalacrime: la ragazza che, dopo aver vinto mille suoi tormenti interiori, decide di credere alle lusinghe di Ake, un ragazzo che ai suoi occhi sembra quasi il principe azzurro delle favole.

La realtà, come al solito, è però ben diversa dalle favole e il presunto principe, una volta ottenuto l’amore della principessa, rivela la sua terribile natura: quella di un annoiato perdigiorno che ha fatto quel che ha fatto solo per vincere una scommessa con gli amici. Quando lei infine lo informa della sua gravidanza, Ake e la sua famiglia insistono perché la ragazza abortisca, evitando al giovane una svolta che potrebbe compromettere la sua carriera di studente e, nel lungo periodo, di uomo di successo.
Qualcosa ovviamente va storto: Buppah muore, e il suo spirito irato non troverà pace, senza che nessuno, né il monaco buddista, né il prete cattolico, né lo sciamano o l’imbroglione di turno, trovi la maniera di esorcizzarlo. Buppah Rahtree è infatti, né più né meno di Mae Nak, un potente spirito Phi Tai Hong Tong Klom. E non è un caso che, ad un certo punto, uno dei personaggi del film finisca per citare la leggenda di cui abbiamo ampiamente parlato nei giorni scorsi.
Buppah Rahtree prende possesso del suo vecchio appartamento, situato in un condominio fatiscente di Bangkok, e inizia a terrorizzare tutti gli altri condomini, costringendoli uno ad uno a traslocare in preda al terrore. È questa la parte sostanzialmente più riuscita del film: da una parte c’è Buppah Rahtree, che è un fantasma davvero terrificante, in grado di regalarci dei salti sulla sedia degni dei migliori thriller, dall’altra c’è la situazione in cui Buppah si trova via via ad agire, circondata da inquilini-macchietta che fuggono da tutte le parti, starnazzando come galline in un pollaio.

Il regista, Yuthlert Sippapak, autore anche di Krasue Valentine (Ghost Valentine, 2006), di cui parleremo tra qualche giorno, è riuscito in qualcosa che, a memoria, nessun altro prima e dopo di lui è riuscito a fare: un film che è un perfetto di mix di generi, in grado di accontentare allo stesso modo gli amanti dello spavento e gli amanti della risata. Altri riferimenti a Mae Nak sono comunque sparsi qua e là nel film e, per chi conosce la leggenda dello spettro più celebre della Tailandia, è davvero piacevole scoprirli. Tanto per fare un esempio, Ake viene spedito in un college inglese senza nemmeno sapere che Buppah è morta di complicazioni post-operatorie. Quando poi decide di tornare a Bangkok, roso dai sensi di colpa, rende visita alla ragazza e ottiene il suo perdono. Ancora una volta, come fu per il Mak della leggenda, egli finisce per andare a vivere sotto lo stesso tetto di Buppah, senza tuttavia scoprire l’amara verità. Il finale è naturalmente ben diverso e, in questo caso, si spinge parecchio oltre la vicenda originale di Mak e Nak. Purtroppo non posso dirvi di più: non vorrei rovinarvi il piacere della visione.

Due anni più tardi, per mano dello stesso regista, sbarca sul grande schermo il secondo capitolo: Buppah Rahtree phase 2, conosciuto anche con il titolo di Rahtree returns (2005). Buppah, insieme al fantasma del suo vecchio fidanzato Ake, infesta ancora il suo solito appartamento, che per una simpatica sequenza di avvenimenti viene scelto come rifugio temporaneo da una banda di rapinatori in fuga dalla polizia. Ovviamente i malcapitati criminali non sanno di aver fatto la scelta sbagliata; una scelta che li costringerà, nel lungo termine, alla resa. Le forze dell’ordine, dal canto loro, conoscono invece benissimo i loro involontari alleati, avendo avuto a che fare con il famigerato appartamento nel corso del primo episodio. Gli avvenimenti si susseguono anche in questo sequel molto rapidamente, tra improvvisi spaventi e situazioni al limite del grottesco. Buppha e Ake continueranno così ad infestare il vecchio appartamento, ormai indiscutibilmente destinato ad essere il loro nido d’amore per l’eternità.
In questo sequel nulla di nuovo viene sostanzialmente aggiunto, ma il divertimento è assicurato. Unica pecca, se così possiamo definirla, è che l’unica edizione in DVD è in tailandese senza sottotitoli e che qualunque tentativo di recuperare questi ultimi sul web si scontra con l’inesorabilità dei fatti.
Trascorrono altri quattro anni ed ecco che ritroviamo il solito Yuthlert Sippapak dietro la macchina da presa per due nuovi avvincenti capitoli, usciti nelle sale a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro: Buppah Rahtree 3.1, conosciuto internazionalmente con il titolo di Rahtree reborn (2009), e Buppah Rahtree 3.2, altrimenti detto Rahtree revenge (2009). I due film andrebbero visti uno dopo l’altro in rapida sequenza in quanto, più che film separati, sembrano un solo film tagliato in due per esigenze di distribuzione (un po’ come il Nymphomaniac di Lars Von Trier, avete presente?).

Dieci anni sono trascorsi, narrativamente parlando, dai fatti precedenti, e molte cose sono cambiate. Come suggerisce il titolo del primo dei due film, “Reborn” più che un sequel può essere visto come un reboot della saga. Lo spirito del vecchio fidanzato scompare dalle scene (evidentemente dopo aver trovato la pace) e lo spirito di Buppha Rahtree finisce, in un certo senso, per reincarnarsi nel corpo di una ragazzina in età scolare che, abbandonata in tenera età dalla madre, è ora affidata alle cure di un manesco patrigno. Per non farsi mancare nulla Pla (questo il nome della ragazzina) viene anche sistematicamente presa di mira da dei bulli suoi compagni di scuola. Inizialmente Pla subisce tutte le angherie a cui è sottoposta, ma la bomba è destinata a esplodere e un bel giorno, dopo aver seminato il panico a scuola con un affilato rasoio, la ragazza fugge.
Nella sua corsa verso la libertà, Pla trova rifugio tra le mura fatiscenti di un vecchio appartamento abbandonato in periferia. Avrete già intuito di quale appartamento si tratta. Ma la sfortuna si accanisce e Pla trova la morte per mano di un vagabondo sorpreso a masturbarsi proprio nel bagno di quell’appartamento. Il fantasma di Pla diviene quindi il nuovo Buppah Rahtree della saga, e ancora una volta avrà il suo bel daffare per contrastare i soliti buffi criminali che avranno la malaugurata idea di aprire una bisca clandestina nel condominio semideserto.
Nel complesso le vicende si fanno confuse via via che trascorre il minutaggio e, ma potrebbe benissimo essere un mio limite nell'intendere il significato della storia, l’ipotesi che la ragazzina possa essere una reincarnazione di Buppah Rahtree viene abbandonata nel momento in cui quest’ultima riappare e le due, unitamente, scatenano la loro vendetta nei confronti dell’umanità. Si ha la sensazione che la vicenda di Buppah Rahtree abbia raggiunto la sua conclusione molto tempo fa, nel 2003, e che quanto venuto in seguito a quel primo felice episodio sia nient’altro che una dimenticabile, seppur divertente, coda.
Si salva forse solo la presenza di un nuovo personaggio maschile, Rung, un ragazzo di grado “di vedere i morti” che aggiunge un pizzico di malinconia al finale. La malinconia, vero tratto dominante del primo film, dà dunque un senso nuovo alla trama del franchise e permette al quarto capitolo di unirsi al primo in un’ideale (e si spera definitiva) chiusura del cerchio.

Sugli spiriti tailandesi

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Anche se ora come non mai mi sento inadeguato a fare da Cicerone, proverò a guidarvi per quanto possibile nel misterioso mondo del folclore tailandese. Sviscerare la materia è impresa non semplicissima neanche per gli studiosi, perché diversamente da altri paesi asiatici la Tailandia non ha una ‘letteratura di fantasmi’ a cui poter attingere; il suo esteso corpus di leggende viene da sempre tramandato in forma orale, e coloro che si sono cimentati con la tassonomia del folclore tailandese hanno basato il loro lavoro su interviste a un campione di individui che, benché rappresentativi dei vari ceti, gruppi e fasce d’età del paese, non sono appunto che una frazione della popolazione totale. Io, nel mio piccolo, ho dovuto fare i conti con molte difficoltà: talora mi imbattevo in spiriti con caratteristiche simili e nomi diversi, e solo dopo realizzavo che quei nomi descrivevano la stessa entità e non un'altra simile; oppure, trovavo gli stessi nomi traslitterati anche in quattro o cinque modi diversi, per via del sistema di utilizzato o semplicemente perché erano scritti ora col nuovo sistema di scrittura, ora con uno più vecchio, notevolmente diverso. Questo per dirvi, casomai ce ne fosse bisogno, che ciò che riporterò di seguito non affronta che alcuni aspetti della materia e che potrebbe alla fine risultare un mero elenco di alcune delle sue creature soprannaturali. In altre parole, questo è semplicemente ciò che ho avuto modo di mettere insieme nel tempo a mia disposizione e, soprattutto, che è mi possibile riportare nello spazio limitato di uno “speciale” che dovrà concludersi alla fine del mese. 

È necessario sapere, per prima cosa, che in Tailandia esiste un unico termine per definire i fantasmi e gli spiriti, sebbene i due concetti (al contrario di ciò che avviene da noi) nella mentalità tailandese sono opposti: quella parola è Phi. Un Phi, prima di tutto, è una forma-vita. Definire fantasmi e spiriti delle forme di vita potrebbe sembrare fuori luogo, eppure non bisogna dimenticare che i tailandesi concepiscono le creature soprannaturali come umane: quando le rappresentano è sempre al corpo umano che si rifanno, per quanto stilizzato e caricaturale (o, al contrario, dotato di bellezza ultraterrena) esso possa divenire. 
Casa dei Phi
Sebbene abbiano una matrice animistica e siano spesso legati alla vegetazione (in Tailandia ogni tipo di albero sembra avere un suo spirito specifico), nella maggior parte dei casi i Phi hanno forma umana. E se hanno forma umana, devono avere anche un luogo che gli appartenga e a cui essi appartengano e possano tornare. Ecco perché esiste l’usanza di erigere delle costruzioni di legno in miniatura, che sono in tutto e per tutto delle abitazioni tradizionali con un tetto, porte e finestre, talora suppellettili varie, decorate con drappi e festoni multicolore e spesso con tanto di riproduzione degli abitanti, anch’essi in miniatura: sono le “case dei Phi”, e sono poste vicino alle abitazioni private così come ai condomini, agli uffici, agli hotel e agli ospedali, per offrire riparo agli spiriti, onorarli e allo stesso tempo tenerli a bada. Onorare gli spiriti è infatti considerato di buon auspicio, e allo stesso modo ignorarli può avere terribili conseguenze. Gli spiriti saranno ben disposti verso chi gli dimostra rispetto, e avendo una propria dimora non proveranno gelosia e solitudine e saranno meno propensi a invadere le case dei vivi e le loro vite alla ricerca di un po’ d’attenzione. I tailandesi hanno l’abitudine di lasciare continue offerte di cibo, bevande, incenso, fiori e altri oggetti presso le case dei Phi. È usanza, inoltre, abbellire e ingrandire le case dei Phi esattamente come quelle destinate ai vivi. E quando si riceve un ospite, è tradizione chiedere prima il permesso e la protezione dello spirito o spiriti che lì dimorano, onde evitare che questi si indispettiscano e turbino il sonno dell’ospite (o peggio). 
Un’altra cosa da tenere a mente è che i Phi compaiono quasi sempre in forma femminile, pertanto dovremmo piuttosto declinare la parola al femminile. Una caratteristica, quella degli spiriti femminili, che accomuna un po’ tutta l’Asia. Di primo acchito verrebbe da dire che in quei luoghi la condizione della donna sembra particolarmente difficile, la donna è la parte più debole della società e storicamente più soggetta a subire tragedie e ingiustizie e forse la trasformazione in Phi le permette, con i terribili poteri che ne derivano, di essere compensata per questa disparità, e ottenere una tardiva rivincita su chi le ha fatto del male o su un capro espiatorio scelto a caso – una rivincita sulla vita stessa. Non è una spiegazione del tutto soddisfacente, perché (come avremo modo di vedere meglio in seguito) resta da tenere in conto l’eventualità che antiche divinità maggiori o minori siano state ridimensionate per poter sopravvivere nel folclore sotto forma di spiriti. 
La parola Phi, dicevamo, indica le forme di vita definite fantasmi e spiriti. A complicare ulteriormente le cose, la forma-vita che indica il fantasma di un defunto, persona o animale, si chiama anch’essa phi

Esposizione e vendita di case dei Phi
Phi (con la minuscola) si manifesta in forme diverse, ma sempre in maniera tangibile. Win-yaan invece significa spirito. A differenza del phi, il win-yaanè invisibile e non ha alcuna forma riconoscibile. I win-yaan, proprio perché preesistenti e indipendenti dalla vita umana e animale, sono considerati di ordine superiore ai phi: sono win-yaan gli spiriti protettori delle sorgenti, del cielo, dei campi di riso, dei villaggi e delle città e, non ultimi, quelli degli antenati (Mae, quelli femminili, e Chao, maschili). 
Diciamo allora che Phi, nella sua accezione generica, è un’entità sovrannaturale che può manifestarsi in una miriade di forme diverse, ma essere ugualmente visibile o invisibile; può però infestare solo qualcosa di organico, che è vivo o lo è stato, oppure che sia venuto a contatto con un essere vivente: un luogo può essere infestato e una persona, un animale, una pianta o persino una pelliccia possono ospitare un Phi. Una particolarità non da poco, che distingue la Tailandia da altri paesi del sudest asiatico. 

In Tailandia si crede che alcuni esseri umani appartengano a un fantasma prima ancora di venire alla luce, perché vi sono fantasmi così potenti da poter catturare un’anima errante, abbinarla a un corpo creato con la magia nera e inserire quel corpo nel ventre della donna che lo partorirà. Per questo motivo, si dice che nei primi tre giorni di vita ogni nuovo nato appartiene di diritto a un fantasma e la madre dovrà comprarlo perché sopravviva e le appartenga (una cerimonia nota come seuu luuk, letteralmente “comprare un bambino”); oppure, secondo un’altra tradizione occorrerà ingannare il fantasma, convincendolo che non vale la pena che porti il bambino via con sé perché questo è brutto o cagionevole di salute (la gente farà allora a gara per fare commenti sgradevoli sul neonato o affibbiargli nomignoli di cattivo gusto). Si crede inoltre che chi muore si trasformi in un fantasma, e la cerimonia funebre serve a pacificare lo spirito del defunto di modo che non torni a spaventare i vivi e si trasformi in uno dei "benevoli antenati" che proteggono i propri discendenti. Se questo non avviene, son dolori. Allo stesso scopo servono le numerose cerimonie che vengono celebrate di continuo per rifocillare e onorare i fantasmi. Esistono cinque phi/fantasmi principali, cioè esseri umani defunti e rinati come fantasmi: Phi duut leuuat, Phi Krasue, Kra Haang, Luuk graawk e Phi Pop

Phi Krasue
Phi duut leuuatè letteralmente un “fantasma succhiasangue”: può essere un Phi Dip, ovvero lo spirito di qualcuno che non è stato cremato, oppure un Draaek Khiu Laa, un vampiro (parola che, come si nota, è una trascrizione del termine Dracula). Phi Krasueè un demone femminile, che il dizionario definisce come la versione tailandese di Jack O’ Lantern perché si manifesta in una luce verde fluttuante che rassomiglia a un fuoco fatuo. È un fantasma migratore con l’aspetto di una testa mozzata con appese delle interiora sanguinanti: si nutre di escrementi, placenta e altre squisitezze. Il suo corrispettivo maschile si chiama Kra Haang (Krahang), ha piume e coda d’uccello, ali a forma di canestro e ama gli escrementi e le interiora umane. Un feto morto prima o durante la nascita diventerà un Luuk graawk: si crede che porti sfortuna a chi non lo onora a dovere. Phi Pop, infine, è uno sgradevole fantasma cannibale, molto potente e in grado di trasferirsi da un corpo all’altro. 
Uno spirito, win-yaan, non è necessariamente malvagio, così come la natura può esserci amica o nemica a seconda delle circostanze e la grossa incognita è, semmai, la sua imprevedibilità. Il paragone non è casuale, perché i tailandesi hanno mantenuto un legame molto stretto con la natura e molti dei loro spiriti dimorano stabilmente in corsi d’acqua, montagne, foreste. 
Win-yaan sarà dunque malevolo o benevolo ma, oltre a questa suddivisione generica, avrà anche connotazioni specifiche e talora sub-specifiche (cioè uniche, che lo differenziano da altri dello stesso tipo). Uno spirito malevolo è detto Phuut phi phi saat (o Phuut phee bpee saat) o anche Phi haa saataan, dove haa significa “morire di epidemia” e saataan è l’adattamento del termine inglese Satan, mentre uno spirito benevolo è un Phi saan theewadaa (o Phi saan thaeh wa daa), ove theewadaa significa “angelo”. A sua volta, ognuno dei due avrà una connotazione specifica (sarà ad esempio uno spirito malevolo dell’acqua o della foresta, o uno spirito benevolo della montagna o del fiume) e in qualche caso anche sub-specifica (come Phi Tanee, che altrove ho visto citato come Nang Tani, Naang Taanii o Phee dtaa nee, è che uno spirito malevolo dell’albero del banano, solo per fare un esempio). 

Phi ton mai
I win-yaan sono troppi per poterli enumerare tutti, quindi mi limiterò a fornire qualche esempio. Fra gli spiriti malevoli, Phi ton mai sono gli spiriti femminili degli alberi, conosciuti anche come Nang mai: hanno l’aspetto di bellissime giovani, e sono tanto più potenti quanto l’albero in cui dimorano è rigoglioso e sano. 
Phi Tanee, citata poco sopra, è una Phi ton mai: una pericolosa predatrice sessuale che non si limita a reagire quando viene disturbata, ma adesca giovani uomini a cui risucchia la vita nella foga dell’amplesso sessuale. Più schivi e solitari sono invece spiriti come Chao Mae Sai (Phra Sai, lo spirito dell’albero banyan), Chao Mae Makhaam (lo spirito del tamarindo) e Phi Takien (Phi Ta-khian, dal nome dell’omonimo sempreverde), ma possono ugualmente rendere folli i vivi o perseguitarli fino alla morte. 
Pret (o Prèet) è uno spirito maligno originario dell’India (il suo nome deriva infatti dal sanscrito preta e in Giappone è noto come Gaki): è lo spirito di qualcuno che in vita fu dominato da sentimenti come gelosia, avidità, falsità, e che per contrappasso è ora condannato a una fame o sete eterna, tradizionalmente associata a qualcosa di ripugnante (come cadaveri in decomposizione, rifiuti o feci). Il Pret è stato inglobato, con piccole varianti, nelle religioni della maggioranza dei paesi asiatici in seguito alla diffusione del Buddismo (il poema buddista noto come “Petavatthu” descrive 51 modi in cui comportamenti sbagliati possono portare alla rinascita di una persona nel regno dei “fantasmi affamati”). Il suo appetito eccezionale, impossibile da saziare, è simboleggiato dall’enorme ventre e dalla testa piccola sul collo lungo e sottile; gli arti sono molto lunghi e ipertrofici e la pelle è mummificata. Sono spiriti sofferenti che diventano realmente pericolosi solo se il loro appetito si concentra su qualcosa di vitale, come il sangue, ma possono divenire gelosi dei vivi e far loro dei dispetti. 
Phi Pa (o Phi pàa) è invece lo spirito di qualcuno che sia morto nella giungla: per non incorrere nella sua ira, bisogna mantenere un atteggiamento rispettoso verso il suo ambiente d’elezione, la foresta. Lo sanno bene i cacciatori tailandesi, che sono soliti offrire parte della selvaggina cacciata, spesso nelle sue parti più prelibate, per placare questo spirito e in segno di estremo rispetto. 
Phi Haaè uno spirito molto temuto che diffonde malattie o epidemie infettando le acque nelle quali dimora. In passato qualunque malattia, dalla malaria al colera, veniva attribuita all’operato di questo spirito. 

Pret (Prèet)
Phi Thalee (Phi Tha Laeh) è uno spirito acquatico: è lo spirito di una persona annegata nelle acque del mare (così come Phi Phraai è lo spirito di qualcuno annegato in uno stagno o un fiume). 
Phi Am ha parecchio in comune con la Succube della tradizione occidentale: sceglie una vittima, sempre di sesso maschile, si introduce nella sua casa di notte e le grava sul petto fino a soffocarla nel sonno. È uno spirito-vedova che cerca incessantemente un nuovo compagno che poi uccide, notte dopo notte, senza soluzione di continuità, per tornare alla sua condizione di vedova, e viene considerato responsabile delle morti improvvise per paralisi cardiaca (che sembrano colpire in particolare proprio giovani uomini asiatici nel pieno del vigore), tanto che in Tailandia c’è un modo per definire la cosiddetta paralisi ipnagonica, “lai tai”, che letteralmente significa “dormi e muori”. Per ingannare Phi Am e gli spiriti che come lei attaccano nel sonno, alcuni uomini sono soliti indossare biancheria o altri indumenti femminili per andare a dormire. 
Molto pericoloso è però anche Phi Tai Hong, lo spirito di qualcuno che sia deceduto in modo violento. Abbiamo già incontrato un tipo particolare di Phi tai hong, la Phi Tai Hong Tong Klom: è la bella Mae Nak, ricordate? 
Win-yaan benevoli, come detto, sono prevalentemente spiriti guardiani: montagne, foreste, alberi, laghi, fiumi, perfino risaie hanno uno spirito che li protegge. Si distinguono non solo per il loro compito e per il luogo in cui risiedono, ma anche per genere e età (ovvero, ci sono spiriti ‘vecchi’ e spiriti ‘bambini’). Quelli femminili hanno generalmente nomi che cominciano con maae (mæ̀, madre), come in Maae Khohn Khaa (“dea del fiume”, ovvero lo spirito che protegge i fiumi) o Maae Suun (mae sue, uno spirito che protegge un neonato o un bambino piccolo). Nei nomi composti maae si contrappone insomma a nang, che come visto in precedenza indica gli spiriti malevoli. Inoltre, ogni casa ha il suo Phi Baan Phi Raan, lo spirito benevolo di un antenato che protegge la casa stessa e i suoi abitanti. 
Fra gli spiriti bambini, Kuman tongè un maschio morto durante il parto e richiamato alla vita con preghiere e rituali. È l’unico caso noto di spirito che venga creato appositamente dai vivi per i propri scopi affinché protegga chi lo possiede, ma anche una forza letale da scatenare all’occorrenza sui propri nemici. Come vedremo nel dettaglio in seguito, la creazione di un Kuman tongè un vero e proprio atto di magia nera, perché lo spirito viene intrappolato nelle spoglie reali del bambino (o in un simulacro d’argilla o altro materiale) che funge da talismano. 
Rak yomè invece lo spirito di due gemelli (maschio e femmina) raffigurato come due figurine di legno intagliato poste a protezione della casa e dei suoi abitanti. 

Nang Khaaek (Nang kwang)
Vedremo meglio alcuni di questi fantasmi e spiriti nei prossimi giorni, perché sono quelli che hanno trovato più spazio nella sterminata cinematografia tailandese. Nulla però – né le parole che potrò spendere sui film, né men che meno classificazioni razionali come quella illustrata sopra – possono rendere davvero l’idea delle infinite sfaccettature del folclore e della tradizione tailandese né del modo in cui i tailandesi vi si rapportano. 
I tailandesi pregano gli spiriti benevoli affinché li aiutino a ottenere la felicità o a superare una situazione difficile, ma anche qualcosa di materiale che desiderano o il numero vincente della lotteria, e gli offrono in cambio dei doni commisurati all’entità del “favore” richiesto. Non è raro vedere persone intente a spolverare della polvere bianca su un tronco d’albero, e a sfregarla diligentemente nella speranza di veder apparire tra le venature del legno dei numeri fortunati elargiti dallo spirito che risiede in quell’albero. 
Molti commercianti tengono in negozio una statuetta di Nang Khaaek (Nang kwang), uno spirito rappresentato con la mano destra alzata in segno di richiamo che, opportunamente evocato e ricompensato con offerte, li aiuta ad attirare i clienti (un po’ come il Maneki neko giapponese). Allo stesso modo, agli spiriti malvagi si fanno offerte per blandirli e in generale, oltre a questo, si crede che ci sia un giusto tempo per fare ogni cosa e nessun viaggio, matrimonio o transazione d’affari verrà programmato a casaccio, senza tener conto del parere di un monaco o di un brahmino o comunque senza capire se quello prescelto sia davvero il momento propizio o se sia meglio aspettare tempi migliori. 
Nella Terra del Sorriso, fantasmi e spiriti sono lo spauracchio dei figli a cui i genitori raccontano tetre storie della buonanotte: la necessità di compiacere i genitori e di non irritare esseri soprannaturali dalla natura ambivalente impedirà ai giovani comportamenti scorretti, e al contempo garantirà ai genitori un maggior controllo sulla propria prole. I politici, lungi dal fornire ai cittadini un esempio di sobrietà e razionalità, minacciano i propri avversari di scatenare contro di loro spiriti o fantasmi vendicativi. 
Non è un giudizio morale, il mio. Oltre che testimoniare la profonda fede dei tailandesi nella vita dopo la morte e il loro legame quasi simbiotico con la natura, i loro rapporti con i fantasmi e con gli spiriti sono evidentemente il loro modo di affrontare le situazioni che percepiscono essere fuori dal loro controllo, un modo che in fondo non è troppo diverso da quello con cui i razionali abitanti dell’Occidente pregano il loro Dio nelle chiese.

Krasue: Demonic Beauty

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Tamnan Krasue (Demonic Beauty, 2002)
Se avete avuto la pazienza di leggere il lungo excursus di pochi giorni fa attraverso i terrificanti Phi tailandesi, sarete magari curiosi di capire se (e come) il cinema del paese asiatico abbia dedicato loro dello spazio. È la stessa domanda che mi sono posto anch’io quando, ormai molto tempo addietro, mi sono avvicinato per la prima volta a questa cultura, così diversa dalle altre culture orientali a cui siamo abituati, spesso anche grazie al bombardamento mediatico degli ultimi decenni. Se da un lato infatti termini giapponesi come yūrei e yōkai sono entrati a bomba nelle nostre case sin dagli anni Sessanta con i grandi classici di registi come Kaneto Shindō (Onibaba, Kuroneko) e Tetsuro Yoshida (Yōkai Monsters), nulla era mai trapelato a proposito dei loro corrispettivi tailandesi, senza dubbio altrettanto degni di interesse. Il motivo di tutto questo silenzio è presumibilmente legato allo scarso livello di esportabilità del Phi tailandese, radicato molto più in profondità nelle tradizioni di un paese che a sua volta non ha mai cercato un contatto con il mondo esterno. 
Lo speciale “Bangkok Haunted seguirà quindi, da qui alla fine del suo percorso, questa logica, tentando di scavare là dove pochi hanno mai osato scavare. Se poi dai nostri scavi verrà fuori qualcosa di buono, è ancora troppo presto per dirlo. Nell’articolo di oggi ci concentreremo sulla creatura più strana e repellente fra quelle a cui ho accennato finora: Krasue. Questo fantasma femminile è formato praticamente da una testa e, sotto il collo, tutte le interiora penzolanti. Tuttavia il suo viso, a dispetto dell’espressione bramosa, è giovane e bello. Krasue esce di notte alla ricerca di cibo fluttuando in una luce verde. Da dove viene? Perché non trova pace? Come mai appare così anomalo, più strega che spettro, rispetto alle altre figure della tradizione tailandese?
Le ipotesi sulle sue origini sono diverse. Una delle più suggestive narra che esso sia lo spirito di un’aspirante strega che per errore avrebbe praticato un incantesimo su se stessa, separando la sua testa dal resto del corpo. Alcuni, tuttavia, sono convinti che a generare Krasue sia la legge del karma che colpisce colei che si macchia di un peccato odioso (omicidio o aborto), che pratichi la magia nera o che semplicemente appartenga a una famiglia in cui questa viene praticata.

Krasue Valentine (Ghost of Valentine, 2006)
La leggenda più famosa fa però risalire la sua origine all’Impero Khmer, ovvero a un’epoca imprecisata fra l’800 a.C. e il XV secolo d.C.: Krasue sarebbe il fantasma di una principessa condannata al rogo per essere stata sorpresa in intimità con il suo amante, un semplice soldato, mentre era promessa a un principe siamese. Una strega Khmer aveva promesso alla principessa di renderla invulnerabile al fuoco, ma l’incantesimo aveva cominciato a fare effetto troppo tardi, quando ormai quasi tutto il suo corpo era stato bruciato dalle fiamme. L’anima della principessa era però sopravvissuta all’interno delle sole parti rimaste intatte: la testa e parte degli organi interni. In seguito, quel che restava della fanciulla era stato maledetto e costretto a continuare a vivere come un fantasma. Una maledizione peggiore della morte, che spiegherebbe in parte perché sia così malvagia e letale. 
Da allora, Krasue si trasmette da un corpo all’altro, tramite la saliva, come una malattia: assumendo le sembianze di una donna giovane e bella, può nascondersi fra i vivi e condurre una vita apparentemente normale di giorno, e sfruttare la notte per andare a caccia. Non appena fa buio, infatti, la testa si stacca dal collo, trascinando con sé le viscere, e va alla ricerca di feci, sangue, corpi decomposti e sangue puerperale (il suo nutrimento preferito), che lecca con la sua lunga lingua. Krasue è in grado di percepire se nei paraggi c’è una donna in stato di gravidanza: entrata nella sua stanza, si apposterà sul soffitto proprio sopra al letto della partoriente, emettendo grida stridule fino al momento dell’aggressione. È importante quindi proteggere le donne in gravidanza, specialmente in prossimità del parto o subito dopo: per via delle sue abitudini alimentari e della sua tendenza a razzolare nello sporco, anche se l’attacco di Krasue non fosse fatale, causerebbe ferite e infezioni potenzialmente mortali alla donna e al bambino. Per lo stesso motivo, se ci si ferisce è importante fasciarsi molto bene, di modo che Krasue non possa sentire l’odore del sangue, che la attirerà irresistibilmente verso il nostro giaciglio mentre stiamo dormendo.

Krasue Krahailueat (Bloodthirsty Krasue, 1995)
Poiché Krasue teme che oggetti appuntiti possano intrappolarle o strapparle gli intestini, i parenti della partoriente hanno l’abitudine di piantare bambù o rami acuminati attorno alla casa, e arbusti e viticci attorno a tutte le finestre, e dopo il parto seppelliscono la placenta il più possibile lontano dalla casa e molto in profondità perché lei non sia in grado di trovarla. 
Krasue deve ricongiungere la testa con il corpo dormiente prima dell’alba, oppure morirà fra atroci tormenti. Per ucciderla occorre dunque distruggere, bruciare o nasconderne il corpo in modo che non possa più ritrovarlo, oppure - se vi riesce! - strapparle gli intestini con un coltello o un bel colpo di machete. 
L'appetito di Krasue è leggendario e delle persone troppo golose o che mangiano troppo in fretta si dice che “mangiano come Krasue”. Se i fluidi e i residui corporei sono il suo cibo, è sempre tramite un fluido che Krasue può migrare da una vittima a quella successiva, ma queste sono in genere inconsapevoli di essere possedute: le donne che vengono infettate non vengono scelte da Krasue perché sono malvagie, benché forse siano state incaute – per esempio nel maneggiare sostanze “impure”, come l’infermiera protagonista del film “Krasue Valentine” di cui parlerò fra breve. 

La leggenda appena menzionata, con alcune variazioni, costituisce l’ossatura di “Tamnan Krasue” (Demonic Beauty), il film del 2002 con cui il regista Bin Bunluerit ha voluto omaggiare questa figura del folclore. La prima parte del film è molto simile alla leggenda originale: nel film, però, poco prima della sua esecuzione la principessa Tarawatee viene informata che in un vicino villaggio esiste una fanciulla che le somiglia come una goccia d’acqua e manda il suo spirito alla sua ricerca, non sapendo che nel frattempo questa, il cui nome è Daow, è stata uccisa da un sortilegio. Lo spirito della principessa si trova quindi intrappolato nella defunta Daow e immediatamente questa risorge fra lo sconcerto generale, ma se di giorno continuerà a vivere una vita normale, di notte si trasformerà nella tremenda e potente Krasue, una minaccia mortale per il villaggio.

Krasue Sao (Ghosts of guts eater, 1973)
Se, come detto, la leggenda più famosa fa risalire la sua origine all’Impero Khmer, non è affatto certo che le cose stiano davvero così, perché anche se il retaggio khmer nella società tailandese è enorme, ci sono figure simili a Krasue anche nel folclore dei paesi vicini alla Tailandia; qualcuno, anzi, afferma che quel riferimento nella sua versione originale fosse assente e si sia diffuso solo dopo la realizzazione del film di Bunluerit. Poiché le leggende tailandesi sono sempre state tramandate oralmente non abbiamo modo di conoscere la verità, tuttavia il tema del doppio all’interno del film dà sicuramente da pensare: la principessa khmer viene prima “corrotta” da una strega khmer e poi a sua volta corrompe una fanciulla che è il suo doppio speculare, e così facendo sconvolge la vita del villaggio, che in tal senso diviene un’immagine del paradiso perduto, l’idilliaco regno del “buon selvaggio”. 
Anche se alla fine verrà sconfitta, Krasue non perirà, ma si limiterà a trovare un nuovo corpo da possedere. Questa, per alcuni, è una metafora di come la cultura khmer continui a mescolarsi intimamente con quella tailandese, perseguitandola come il fantasma di un passato ingombrante e impossibile da dimenticare. Una metafora forse nata dalla voglia di riaffermare e nobilitare l’unicità della cultura e dell’identità tailandese dopo la crisi economica e sociale di fine anni ‘90, ma forse neppure scevra da elementi di giudizio storico e culturale, perché l’etnia khmer viene tacciata di praticare le forme più estreme della magia nera e dell’occulto. 
Il film di Bunluerit, dunque, ha un’attrattiva che va oltre il suo valore cinematografico: se all’apparenza non è altro che una favola nera di puro orrore soprannaturale, testimone della presenza di forze che nel sentite popolare sono invincibili, oltre il mero intrattenimento può diventare un manifesto patriottico e un po’ discriminatorio.

La carriera di Bunluerit sembra essere legata a doppio filo alla figura di Krasue. Oltre ad aver diretto un altro film a lei dedicato dal titolo “Krasue krung khon” solo l’anno scorso, Bunluerit aveva già partecipato a un progetto su Krasue nei panni di attore: il film in questione è “Krasue Fat Pop” (1990), del quale fu girato un remake nel 2009 (“Krasue Fad Pob”). 
Fatto curioso è che “Krasue Fat Pop” riabilita e in parte nobilita la figura di Krasue (perché, fra Krasue e Pop, è quest’ultima a fare la parte dello spirito più nefasto); non si tratta nemmeno di un caso isolato, perché altri film hanno donato a questo spirito dall’aspetto inquietante e ripugnante un’aura ora romantica e ora esplicitamente sensuale. 

Kra Sue fat Pop (Krasue meets Phi Pop, 1990)
Al primo tipo, l’horror romantico, appartiene ad esempio il già citato “Krasue Valentine” (Ghost of Valentine, 2006) di Yuthlert Sippapak. Protagonista è Sao, un’infermiera che comincia a lavorare in un vecchio ospedale: con il suo bell’aspetto, le sue buone maniere e la sua professionalità, la giovane donna suscita in tutti quelli che la conoscono ammirazione e amore, ma nessuno sa che di notte si aggira per i bui corridoi dell’ospedale nei panni diKrasue. Mentre fra lei e un collega comincia una delicata storia d’amore, purtroppo stroncata troppo presto, sarà Sao per prima a rendersi conto che qualcosa di tremendo la affligge, qualcosa di soprannaturale con cui non è pronta a fare i conti. 
Al secondo tipo appartengono invece di diritto i due film erotici “Krasue rak Krasue sawat” (2014) e “Wan Krasue sao” (2013). Il segreto di “Krasue Valentine” e di altri film dello stesso genere sembra essere proprio questo: più che sulla mostruosa Krasue, sulle cui malsane abitudini spesso e volentieri si sorvola, la narrazione si concentra sulle pene delle sue sfortunate e infelici alter ego umane.
Krasue, non dimentichiamolo, è in parte umana, ed è la sua componente umana a donarle una possibilità di redenzione, se pure solo cinematografica. Un punto di vista, questo, che appare ben diverso da quello dei più vecchi film a lei dedicati, come “Krasue Sao” (Ghosts of guts eater) del 1973 o “Krasue krahai lveat” (“Filth eating spirit”) del 1985 (un film di qualità infima come pochi).
Oltre a quelli già citati ci sarebbero anche “Itthirit Nam Man Phrai” (1984), “Krasue krahailueat” (Bloodthirsty krasue, 1995), “Krasue the gluttonous fear” (2007), “Fullmoon devil” (2011), il cortometraggio “Krasue” del 2016 e numerosi altri in cui essa compare pur non essendo la protagonista, oltre ai lakorn (così sono chiamate le soap opera tailandesi) “Krasue” (1994), “Krasue cham sin” (2011) e “Krasue Mahanakhon”, ma c’è da dire che sono quasi tutti irreperibili in inglese o in una qualunque lingua europea. 

Krasue fad Pob (Krasue vs Phi Pop, 2009)
Se tirare le somme della vita cinematografica di Krasue è arduo, lo è ancora di più se si varcano i confini della Tailandia. Nei paesi contigui infatti esistono creature simili: la malese Penanggalan è in tutto e per tutto affine a Krasue, ma si nutre esclusivamente di sangue (quello puerperale e quello della madre e del neonato); ancora più spaventosa se possibile è la filippina Mananggal, ovvero “colei che separa se stessa”, che ha ali da pipistrello e la cui lunga proboscide può penetrare nel ventre della puerpera e afferrare il cuore del feto ed è conosciuta anche come Tik-Tik, nome onomatopeico che si riferisce al rumore che fa volando. Mananggal aborrisce l’aglio, ma in generale tutte queste creature hanno più di un punto in comune con i vampiri della tradizione occidentale.
Simili sono anche l’indonesiana Palasik, Kuyang o Leyak (il nome varia nei tre principali gruppi etnici del paese), la laotiana Kasu, la cambogiana Ap e la vietnamita Mai Lai. Ognuna di queste ha generato una propria cinematografia, di cui dar conto è onestamente al di fuori delle mie possibilità… almeno per il momento. 
Creature con la testa fluttuante, a dire il vero, esistono anche al di fuori del sudest asiatico e, anche se hanno poco o niente a che fare con Krasue a parte questo particolare, vale la pena citarle: sono la giapponese Nukekubi (uno yokai la cui origine sembra da attribuirsi all’era Muromachi, un periodo in cui in Giappone faceva commercio con i paesi del sudest asiatico e con la Cina), la Chonchon di Cile e Argentina e la Kanontsistóntie, o testa volante, degli irochesi. Davanti a creature e miti così bizzarri viene sempre da chiedersi da cosa abbiano potuto originarsi, ma trovare una risposta è molto difficile.
Nel caso di Krasue, alcuni credono che la luce verde fluttuante nella quale appare sia il prodotto di una reazione chimica, quella delle fiamme che si sprigionano dal metano emesso dalle sostanze organiche in decomposizione che si trovano nei campi o nelle paludi (e un particolare fungo luminoso, tipico della provincia di Khonkaen, viene chiamato “fungo krasue”). Anche se nessuno studioso accetta appieno questa tesi, essa suggerisce che la figura di Krasue possa effettivamente essere nata dall’osservazione di un qualche tipo di fenomeno naturale. Tuttavia, è anche molto probabile che questa figura sia nata per trovare una spiegazione razionale alle morti spesso misteriose che avvenivano nella Tailandia rurale. 
Per esempio, se una donna giovane e sana moriva di parto senza che fosse possibile trovare un motivo per quanto successo, ecco allora che la tragedia veniva attribuita a Krasue. Se nessuna delle persone vicina alla defunta poteva essere incolpata di quella morte, la fase di accettazione e rassegnazione era più semplice. È anche possibile che disturbi come il sonnambulismo abbiano fatto nascere la leggenda di persone che di notte si trasformano in “esseri” capaci di cose che alla luce del giorno non saprebbero nemmeno concepire. Non è nemmeno escluso che spiriti e fantasmi come Krasue, se pure nati spontaneamente dalla fantasia popolare, siano divenuti uno strumento di controllo sociale, tramite il quale si raccomandavano o sconsigliavano certi comportamenti o abitudini utilizzando lo spauracchio del mostro come deterrente. In quest’ottica, un film che racconti tutto questo è un documento e una testimonianza preziosa.

La leggenda di Krasue vista oltre confine. LtoR: Krasue Mom (My Mother is Arb, Cambogia, 1980); Leák (Mystics in Bali, Indonesia, 1981); Fei tou mo nu (The Witch with Flying Head, Taiwan, 1982)

Phi Pop: Body Jumper

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Pop weed sayong (Body Jumper, 2001)
Un giorno qualunque. Una graziosa, giovane donna viene intervistata durante un talk show televisivo. I primi minuti trascorrono normalmente, fra le domande e i sorrisi di rito, finché l’intervistata non confessa di venire posseduta regolarmente da uno spirito di nome Pop. Poco dopo, lo spirito fa la sua comparsa e la donna comincia a tremare e a emettere suoni gutturali e inquietanti, fino a quando il suo ospite non le cinge il collo con una collana-amuleto. L’uomo chiede allo spirito come mai non la lascia andare, ma questo rifiuta di rispondere e dice che qualcuno lo ha mandato nel corpo della donna. Pop grida che le diano del sangue di maiale, o la divorerà. 
Sembra la scena di un film, non è vero? Invece questo fatto è successo realmente a un’attrice e modella di nome Thippawan “Pui” Chaphupuang. E non anni o decenni fa: la notizia è dell’11 luglio 2016. In breve tempo il video con l’intervistaè diventato virale, ma ciò che ha sconvolto l’audience tailandese ha suscitato al più scetticità nel resto del mondo, ove la maggior parte delle persone si è limitata a ironizzare sulle capacità attoriali della “vittima”. Che cosa è successo davvero a questa donna? La sua era davvero solo voglia di pubblicità? Conoscendo la mentalità tailandese, non mi stupirebbe invece che non stesse affatto recitando ma, a torto o a ragione, credesse davvero di essere posseduta.
Cambio di scena. Ci troviamo nel nord-est: c’è un regno dove, per generazioni, la principessa regnante a un certo punto viene improvvisamente posseduta dallo spirito di un’orchessa, e si trasforma in uno spirito maligno alla perenne ricerca di carne cruda e sangue fresco. 
Questa sì era la trama di un film (non era difficile capirlo, lo riconosco), anzi per essere precisi di un lakorn: “Jao Nang” (The Princess's Terror) venne trasmesso alla metà degli anni ’90 su Channel 5 ed è tuttora considerato dal pubblico thailandese uno dei lakorn più terrorizzanti mai realizzati - e d'altra parte, si sa, le serie in costume sono un classico… Non è raro che le soap opera parlino di fantasmi o attingano dal folclore (la serie "Nang Sib Song", ad esempio, propone la sua versione della leggenda delle Dodici Sorelle, che racconta di una delle incarnazioni precedenti del Budda), si può dire anzi che siano uno dei modi attraverso i quali queste leggende e racconti si sono sottratti all'oblio del tempo, arrivando intatti o quasi fino a noi.

Baan Phi Pop (Phi Pop's House, 1989)
Nell’articolo di oggi ci concentreremo su Phi Pop (a cui abbiamo già in parte accennato), che non sarà forse lo spirito più pericoloso della Tailandia, ma è di certo fra quelli che incutono più timore. Perché? Forse perché Phi Pop, pur essendo uno spirito errante dall’aspetto malaticcio e perennemente affamato, spesso e volentieri si unisce in simbiosi a un demone (una strega, secondo alcune versioni) moltiplicando la sua malvagità con quella del suo ospite, e assumendo infine l’aspetto di una bellissima giovane alla quale nessuno pare saper resistere.
Phi Popè insomma lo spauracchio dei ragazzi tailandesi (sue vittime predilette), sensibili al fascino di quest’essere crudele che dopo averli sedotti, in una sorta di manifestazione vampirica portata ai suoi estremi, finirà letteralmente per berne il sangue e divorarne gli intestini.

Phi Popè uno spirito cannibalico la cui origine risale alla notte dei tempi. Un’antica leggenda narra infatti di un imprecisato regno il cui principe si dilettava con la magia nera. Egli aveva scoperto come far migrare lo spirito da un corpo a un altro mantenendo entrambi i corpi in vita.
Un giorno egli pronunciò le parole segrete per entrare nel corpo di un animale, forse un cervo, mentre il suo restava parcheggiato, vuoto e inerte: non aveva però fatto i conti con un suo servo infedele, che spiandolo ripetutamente si era impadronito della formula magica. Il servo entrò dunque nel corpo inanimato del principe e si sostituì a lui.
L’incauto principe, non appena se ne accorse, migrò di nuovo, questa volta nel corpo di un uccello, e in questa forma si recò da sua moglie, le spiegò l’accaduto e le chiese aiuto. Mentre la moglie scovava il corpo del millantatore e lo aggrediva (addirittura uccidendolo, secondo alcune versioni), questi fu costretto a migrare nel corpo di un animale: immediatamente il principe poté riprendere il controllo del suo corpo di nuovo vuoto e inerte… e vissero tutti felici e contenti.
Beh, tutti tranne il servo, naturalmente: il suo spirito, trasfigurato dalla rabbia e dal rancore, si trasformò in una forza distruttrice e perennemente affamata. Avendo sviluppato l’insana abitudine di mangiare gli intestini di coloro che possedeva, uccidendoli, da allora è costretto a vagare di continuo da un corpo all’altro. La leggenda si è diffusa in numerose varianti nelle quali la figura del servo è scomparsa e rimane solo quella dello spirito.

Krasue fad Pob (Krasue vs Phi Pop, 2009)
Uno spirito ripugnante, con un ventre gonfio su gambe scheletriche e una bocca enorme dai denti lunghi e affilati: per poter approcciare le sue vittime, Phi Pop non può presentarsi con il suo vero aspetto, ma deve dimorare nel corpo di una strega che sia bellissima o in grado di diventare tale tramite un incantesimo. Prima che la strega muoia, la nuova ospite deve ingerire un po’ della saliva dell’ospite precedente: solo così Phi Pop può migrare. Una modalità che somiglia a quella di trasmissione di diverse malattie, e che ci fa comprendere quale può essere stata la vera origine della leggenda, qualche tipo di epidemia fulminante che, forse, per qualche ragione contagiava gli uomini molto più delle donne. Forse… ma forse no.
Non so voi, ma io che faccio parte del target delle vittime di Phi Pop ho deciso che, piuttosto che rischiare di scoprirlo, quando finalmente visiterò la Tailandia mi terrò alla larga dalle ragazze tailandesi troppo ammiccanti. Così, just in case.
Phi Popè immune ai normali esorcismi, ma può essere sconfitta da uno sciamano, un guaritore tradizionale detto Moh Phi, attraverso una danza rituale dalle movenze circolari e dal ritmo ipnotico. La danza dello sciamano dà forma a un vento soprannaturale in grado di avviluppare Phi Pop e trascinarla via con sé. Non sempre, ma spesso questa sorta di seduzione al contrario funziona: ironicamente, per sconfiggere Phi Pop bisogna ricorrere alle sue stesse armi.

A Phi Popè associata un’altra creatura il cui nome è Phi Fa (conosciuta anche come Phi Thaen e Nang Faa) che secondo alcuni miti, in cui ha quasi lo status di una divinità, risiederebbe in Cielo e avrebbe creato la Terra.
Phi Faè comune soprattutto nel nordest del paese (e in parte anche nel Laos), dove è considerato uno spirito potentissimo in grado di causare malattie e disastri naturali, ma anche eventualmente di scongiurarli. Esiste infatti un apposito cerimoniale che ne prende il nome durante il quale uno sciamano evoca lo spirito e gli chiede di accettare dei doni (offerte in cibo e bevande, ma anche denaro) in cambio della guarigione di un convalescente, in genere qualcuno che stia combattendo un’insidiosa malattia, oppure, per esempio, della protezione necessaria durante un viaggio o nel momento di prendere una decisione importante. Una volta che lo sciamano avrà deciso la data e il luogo più adatti e fornito le indicazioni per decorare l’altare per le offerte, i partecipanti dovranno pregare, danzare e cantare per una notte intera attorno ad esso, mentre la musica del khaen viene suonata incessantemente. Per inciso, il khaen (altrimenti detto khèn), è un organo a bocca che in Tailandia ha 16 canne (altrove può averne 14), la cui musica è spesso associata a quella del phing, un tipico strumento a corde, a tamburi o campanelle; la tradizione vuole sia in grado di “parlare” agli spiriti e agli dèi e quindi ha una funzione sacra, ma viene utilizzato anche per indurre nei fedeli una sorta di trance, forse facilitata dall’ingestione di sostanze enteogene.

Pop weed sayong (Body Jumper, 2001)
Lo sciamano, che è anche un medium, evocherà lo spirito, spiegando lo scopo di questo invito e pregandolo di accettare le offerte in cambio di quanto richiesto; verrà poi effettuata la cerimonia Baasii, derivante dalla cultura laotiana, in cui i partecipanti si legano a vicenda delle corde attorno ai polsi perché gli spiriti guardiani che risiedono nel corpo e formano l’anima di ogni persona non possano vagare lontano dal corpo, e li proteggano in quel particolare frangente (questi spiriti, proprio come le persone, possono provare paura e frustrazione e lasciarci soli proprio quando abbiamo più bisogno di loro); infine, lo spirito verrà ringraziato e congedato.
Questa breve descrizione che ricalca mille altre, ne sono consapevole, non può assolutamente rendere conto della suggestione provocata da questo rito. Se volete vedere con i vostri occhi di cosa si tratta, potete dare un’occhiata a questo video di quattro minuti scarsi caricato sul tubo.

Passando al cinema, la pagina di Wikipedia inglese dedicata a Phi Pop cita quattordici titoli (quella tailandese, al contrario, è molto essenziale e non ne cita alcuno), di cui dieci sono film veri e propri e quattro pessime soap opera, ma la verità è che, cercando qua e là, non è difficile trovarne molti altri. Ci limiteremo in questa sede ad analizzarne un paio, giusto per non complicarci troppo la vita e anche perché, come è stato nel caso di Mae Nak, la sostanza di questi film è sempre più o meno la stessa. Non posso assicurare che quelli da me scelti siano i migliori ma, l’ho già detto e mi ripeto, l’accesso a gran parte della filmografia tailandese è inaccessibile a chi ha difficoltà con la lingua.
Il primo che ho scelto è una commedia horror dal titolo “Pop weed sayong”, ovvero, nel suo alias internazionale, “Body jumper”, risale al 2001 ed è firmata da Haeman Chatemee, qui al suo esordio dietro la macchina da presa. Si inizia da un antefatto situato cronologicamente nel 1932: in un villaggio rurale del Siam una folla inferocita si scaglia contro una donna evidentemente posseduta da uno spirito demoniaco, la immobilizza e la getta in un pozzo, dove la nostra Phi Pop viene sigillata.
Un salto in avanti di quasi settant’anni e un gruppo di studenti universitari in gita libera accidentalmente la mostruosa creatura e dà il via libera alle danze. Una delle ragazze, inevitabilmente la più bella, viene immediatamente posseduta dall’antico spirito e subito prende a fare quello che meglio sa fare, vale a dire sedurre (con tutto quello che ne consegue).
Il film procede sui canoni degli horror tradizionali, con giovani studenti che cadono uno dopo l’altro e lo spirito che, come un novello xenomorfo, continua incessantemente a saltare da un corpo all’altro per sfuggire all’inevitabile esorcismo finale.
Poco horror e tanta comedy in un film di puro intrattenimento, interessante se non altro per le sorprendenti bellezze delle giovani attrici Chompunuch Piyapanee e Angela Grant.

Pob na pluak (The Ugly Ghost, 2014)
Sulla stessa falsariga del precedente è un film di Ping Lumpraploeng, questa volta del 2014, intitolato “Pob na pluak” (The Ugly Ghost), sulla cui locandina campeggiano delle ragazze intente a leccarsi il sangue sulle labbra in modo esplicitamente lascivo. La storia ruota attorno a un gruppo di quattro belle ragazze: Miki, Ploy, Kaew e Kow Fang che vanno a fare un tirocinio presso una falegnameria. Non tutte le ragazze sono in realtà così belle, ma su questo punto possiamo anche sorvolare (e tutto sommato il titolo del film non promette affatto bellezza). Qui le protagoniste vengono accidentalmente in contatto con la solita Phi Pop che, come da copione, prende possesso dei corpi degli uni per cibarsi dei corpi degli altri. Come è facile immaginare, il minutaggio fila via leggero fino alla fine, alternando scene hot a scene splatter.
Non serve pertanto, almeno questo è il mio parere, fare altri tentativi. La filmografia dedicata a Phi Popè inevitabilmente incentrata su un solo lato di Pop, quello seducente e piccante, tralasciando quanto di interessante potrebbe venire dalle altre sfaccettature di uno spirito con le caratteristiche che abbiamo descritto. Potrebbe essere invece interessante recuperare, più che altro a livello accademico, una delle “pessime soap” a cui accennavo in precedenza dal curioso titolo di “Mae Nak Choe Pop” (ovvero Mae Nak meets Phi Pop). E che dire del “Krasue Fat Pop” (ovvero Krasue versus Phi Pop) che abbiamo già menzionato nell’articolo precedente? C’è un universo là fuori che andrebbe approfondito, ma forse sarebbe un tantino eccessivo.

Kuman Tong: Ghost Delivery

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Kuman Tong (© Reuters)
Novembre 2010. In un tempio buddista di Bangkok vengono ritrovati i resti di oltre 2.000 feti umani conservati in sacchi di plastica. La polizia afferma di aver investigato a seguito di diverse lamentele relative a cattivi odori provenienti dalla camera funeraria del tempio e sospetta che i resti derivino da aborti praticati illegalmente (l’aborto in Tailandia è consentito solo se la gravidanza deriva da una violenza sessuale o se può mettere a rischio la vita della madre): un membro del personale del tempio avrebbe confessato di essere stato pagato da alcune cliniche per disfarsi dei resti. (Fonte: bbc.co.uk.) 
Sappiamo che le derive magico-esoteriche nel Buddismo, con il proliferare delle sette più diverse, non sono cosa rara, pertanto il sospetto più grande è che questi feti venissero conservati per essere trasformati in Kuman tong, gli spiriti-bambini della tradizione tailandese. Quanto avvenuto nel 2010 non sarebbe né il primo, né l’ultimo caso del genere. Parlare di Kuman tong significa immergersi completamente nell’oscuro mondo della magia nera. Un tempo, fra gli atti di magia nera più comuni nel sudest asiatico c’era la creazione di questi spiriti familiari, che venivano tramandati da una generazione all’altra perché servissero gli appartenenti alla stessa famiglia (un po’ come i famigli che, nella tradizione occidentale, sono i compagni delle streghe).
Kuman tongè il nome tailandese, ma in altri paesi esistono spiriti molto simili noti come Toyol, Pelesit e Bajang (Malesia), Tiyanak (Filippine), Cohen kroh (Cambogia). In letteratura il Kuman tong ha un posto d’onore, perché compare addirittura in una delle opere letterarie più importanti della Tailandia, il poema epico “Khun Chang Khun Phaen”, studiato nelle scuole e trasposto e rivisitato più volte in romanzi, lakorn, balletti, drammi, film, serie tv, cartoni animati e persino figurine.
Quest’opera è ispirata a un antico racconto popolare che fu messo per iscritto solo all’inizio del secolo scorso, benché sia certamente anteriore al XVIII secolo: tuttavia, non è chiaro se la “nascita” del Kuman tong si possa ricondurre a questa leggenda o se la leggenda si sia limitata a render conto di una figura del folclore che già esisteva.

Sop dek 2,002 (The Unborn Child, 2011)
Fra l’altro, proprio perché veniva tramandata solo oralmente, nessuno sa più come questa leggenda fosse in origine. Anticamente, infatti, una delle forme d’intrattenimento più apprezzate nel paese era la recitazione di epopee da parte dei cantastorie, una forma di “teatro stilizzato” con l’ausilio di bastoncini di legno noto come Sepha. È possibile che questa storia si sia via via arricchita di nuovi particolari nel lunghissimo periodo durante il quale venne messa in scena, forse assorbendo in sé parti di altre leggende o fatti realmente accaduti. Il “Khun Chang Khun Phaen” ha tre protagonisti che incarnano altrettanti archetipi: la fanciulla giovane e bella (Wanthong), l’eroe bello ma povero (Khun Phaen), il rivale ricco e brutto (Khun Chang). Wanthong sposa Phaen, ma a causa delle macchinazioni del rivale questi è costretto a lasciarla e a partire per la guerra. Wanthong resta fedele al marito, ma quando lui torna a casa con un’altra moglie cede alle lusinghe di Chang e va a vivere nel suo palazzo. In seguito Phaen si pente e fugge con Wanthong, e così via, in un turbinio di eventi che si dipana per oltre cinquant’anni fino alla sua tragica conclusione, e in cui momenti leggeri e romantici si intervallano alle guerre, alle lotte, agli inganni e alle vendette, anche condotti con l’ausilio di incantesimi e altri atti di magia – il che ci regala alcuni passaggi realmente orrorifici, uno dei quali è proprio quello in cui il nostro Kuman tong fa la sua comparsa.
In un famosissimo capitolo del poema, Phaen si prepara alla guerra interrogando degli indovini, in modo da sapere in anticipo se il tempo e la direzione prescelti per la marcia sono propizi, ma soprattutto apprendendo l’arte di formulare mantra e altre formule magiche per acquisire poteri sovrannaturali come cambiare forma, aprire catene e lucchetti (e perfino sedurre le donne, il che fa di lui un amante leggendario, una sorta di Casanova locale).
Con questi nuovi poteri, Phaen crea un suo esercito di spiriti invincibili per combattere il nemico. Il più potente fra questi è lo spirito del suo bambino mai nato, che lui stesso ha estratto dal ventre di una delle sue mogli. Un atto terrificante, più ancora di ciò che quell’atto stesso è in grado di produrre.
Fantasmi e spiriti, per quanto spaventosi possano essere, appartengono alla natura, ma i Kuman tong derivano da un atto intenzionale di creazione: anche il Luuk graawkè lo spirito di un bambino, ma in quel caso la sua morte e la successiva trasformazione in un fantasma è un processo spontaneo, mentre il Kuman tong esiste perché viene posto in essere un rituale volto a catturare l’anima del bambino.

Hian (The Unborn, 2003)
Dunque, come si crea un Kuman tong? La nascita e la morte sono i momenti culminanti dell’esistenza di un individuo, sono in pratica delle “soglie” che attirano irresistibilmente gli spiriti verso il nostro mondo: quando nascita e morte si sovrappongono, come nel caso di un bambino che muore durante o prima della nascita, è il momento più propizio per richiamarne lo spirito smarrito e confuso e intrappolarlo nella nostra dimensione. Di notte, in un cimitero, l’officiante o lo stregone dovrà rimuovere chirurgicamente il feto dal corpo della madre e arrostire il povero corpo su una fiamma finché la pelle e il grasso non siano completamente bruciati. Questo processo ha anche l’effetto di ridurre le dimensioni del bambino, che verrà poi dipinto con una sorta di lacca e ricoperto interamente di foglie o pagliuzze d’oro (Kuman tong, infatti, significa “bambino dorato”) mentre vengono pronunciate le formule magiche necessarie per realizzare l'amuleto. Se il rito viene compiuto correttamente prima dell’alba, il bambino diverrà un potente talismano che rassomiglia a una statuina di legno o argilla, ma che è allo stesso tempo vivo e morto, essere vivente e oggetto, e che porterà fortuna al suo possessore.
Ma... c’è un ma. Quello che ritorna è uno spirito vampirico, che si può controllare solo fintanto che lo si ricompensa ogni giorno con giocattoli, cibo o altri doni. Kuman tong va accudito come se fosse un vero bambino, e se necessario nutrito con ciò che desidera di più: il sangue. All'occorrenza, Kuman tong scatenerà il suo potere maligno sui nemici del suo padrone, bevendone il sangue fino all’ultima goccia. Se non lo si onora o non lo si soddisfa a dovere, sarà invece fonte di sventura.
Al giorno d’oggi la legge vieta di creare i Kuman tong, ma se ne trovano in commercio, nei negozi di articoli religiosi, esemplari fatti di legno, avorio, argilla, gesso, bronzo o altri metalli, oppure plastica o altro materiale sintetico. Il fatto che un Kuman tong non sia fatto di materiale organico non significa che non possa essere efficace: semplicemente, la statuina dovrà essere sottoposta a un breve rito perché si “attivi”, dopodiché dovrà essere accudita e viziata esattamente come se fosse un vero Kuman tong.

Sop dek 2,002 (The Unborn Child, 2011)
Impresa quasi impossibile è quella di identificare, nell’immensa filmografia tailandese, dei titoli incentrati sulla figura del Kuman tong. Altrettanto impossibile (a meno di non avere una fortuna sfacciata) recuperare delle semplici citazioni del Kuman tong all’interno di pellicole insospettabili, sul genere drammatico o commedia, in cui il Kuman tong (inteso come la statuetta) appare di contorno a vicende diverse, come un qualsiasi soprammobile può apparire in uno dei nostri film.
Molto più probabile invece è incappare in film horror dove sono protagonisti spiriti di bambini morti prematuramente, al momento del parto o ancora prima. Basta infatti una breve ricerca sul web ed ecco apparire due titoli piuttosto simili, almeno per come sono stati distribuiti all’estero. Sto parlando di “Hian” (The Unborn, 2003) di Bhandit Tongdee e di “Sop dek 2,002” (The Unborn Child, 2011) di Poj Arnon. Ma se il primo si rivela essere il solito clone di mille horror asiatici alla Ju-On, con tanto di intramontabile spettro femminile, vestito di bianco e dalla lunga chioma corvina, diverso è il caso di “Sop dek 2,002”, dove il 2.002 del titolo fa riferimento all’episodio del ritrovamento di 2.002 feti umani accennato in apertura di questo articolo.
Come abbiamo visto, qualcuno avrebbe suggerito che dietro quell’orrendo fatto di cronaca possa nascondersi una criminale attività di raccolta delle “materie prime” destinate al rito del Kuman tong. Un’ipotesi che, se confermata, darebbe molto da pensare.
Le vicende narrate in “Sop dek 2,002” (letteralmente “2.002 bambini mai nati”) ricalcano abbastanza fedelmente la cronaca di quei giorni aggiungendo una marcata aurea sovrannaturale alla vicenda. Una giovane coppia di sposi si rende conto che la propria piccola figlia ha recentemente iniziato a parlare con un amico invisibile, che lei chiama “little one”. Sin qui nulla di anormale, finché piccoli indizi sparsi qua e là non convincono i due genitori, dapprima scettici, che una presenza è effettivamente entrata in contatto con la piccola.
Sullo sfondo, una coppia di studenti alle prese con una gravidanza non pianificata che non riescono a gestire. Ci si addentra pian piano nel mondo degli aborti illegali, una pratica piuttosto diffusa in Tailandia dove, secondo il codice penale, l’interruzione di gravidanza è proibita, in quanto contraria agli insegnamenti del Buddismo.

Black Magic Woman (2004)
Anche in mancanza di dati certi, in Tailandia vengono stimati oltre 300.000 aborti illegali ogni anno, la maggior parte dei quali eseguiti da persone che si improvvisano medici e in luoghi spesso privi delle più essenziali condizioni igieniche. Nel caso non si fosse capito, stiamo parlando di tre volte e mezzo i casi registrati in Italia, nello stesso periodo, a parità di popolazione. Non stupisce affatto che ogni anno diverse migliaia di aborti si concludano in tragedia. In definitiva “Sop dek 2,002” si rivela essere un film dai forti risvolti sociali, attraverso il quale l’illegalità dell’aborto è condannata senza appello. Per chiudere il discorso senza scendere nel merito della questione abortista (tra l’altro di un’attualità preoccupante anche nel nostro paese, anche se per altri motivi), “Sop dek 2,002” tenta anche di dare una precisa forma al Kuman tong, facendo intuire la possibilità che lo spirito del “little one”, l’amico invisibile citato sopra, possa effettivamente entrare in simbiosi con una statuetta (in questo caso un semplice giocattolo antropomorfo). Un tentativo non riuscitissimo ma che, in mancanza di altro, ci accontenta.
Tutt’altra faccenda è invece un film praticamente sconosciuto dal titolo “Black Magic Woman” (2004) di Surbsak Chalongtham. In questo caso, finalmente, a comparire è proprio un Kuman tong.
E quando dico “finalmente”, intendo sottolineare le difficoltà e il lungo tempo speso per trovare qualcosa di veramente adeguato per corredare l’articolo di oggi: un film dove appare, anche se in pochi fotogrammi, un Kuman tong vero e proprio e non un semplice fantasma vendicativo. Paradossalmente ho recuperato questo film all’interno di una vecchia chiavetta USB che avevo quasi dimenticato di avere (e di cui non conosco la provenienza), ed è stato quindi un puro miracolo poterne usufruire, visto che in giro per la rete ne esiste solo una versione di qualità imbarazzante, priva di sottotitoli.
Helen, creativa di una quotata agenzia pubblicitaria, sta passando un periodo stressante a causa di un collega che le ruba l'idea vincente per un’importante campagna. Appena trasferitasi in un nuovo appartamento, si vede recapitare a casa un pacco postale contenente una statuetta Kuman tong con tanto di istruzioni per l’uso evidentemente destinata al precedente inquilino. Helen intravede nella statuetta una possibilità di rivalsa nei confronti di chi sta mettendo a dura prova la sua carriera lavorativa. In realtà, il Kuman tong ha un peso molto relativo nel proseguo della storia, in cui Helen apprende come manipolare gli eventi e le persone a suo piacimento. Peccato anche (ma forse è davvero così e non dovrei stupirmene) che il tutto venga presentato come qualcosa alla portata di chiunque disponga un computer e di un accesso a internet e, attraverso il web, si prenda la briga di trovare le formule magiche più disparate che sono, come parrebbe, letteralmente alla portata di un clic.
Il finale naturalmente insegna che la magia nera non è per tutti e che le scorciatoie nella vita richiedono un salato pedaggio. Personalmente, se ne avessi la possibilità, ci sarebbero diversi colleghi sui quali mi piacerebbe intervenire con un Kuman tong, e se un prezzo da pagare mai ci fosse, almeno potrei dire di essere riuscito a togliermi qualche sassolino dalla scarpa. Quanto al giudizio globale sulla pellicola, meglio soprassedere.
Se “Sop dek 2,002”, aldilà del suo intento "moraleggiante", è un film fatto con tutti i crismi, “Black Magic Woman” lo si può apprezzare solo come curiosità folcloristica, perché la regia, la recitazione e soprattutto l'onnipresente colonna sonora da soap opera fanno venir voglia di spegnere il televisore dopo i primi quindici minuti.

Kuman Tong

Art of the Devil

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Long khong 2 (Art of the devil 3, 2008)
Come se la tradizione del Kuman tong non fosse già abbastanza angosciante, si crede anche che dalle sostanze che si sprigionano dal corpo del bambino durante la sua trasformazione in Kuman tong si ottenga un olio efficace per i legamenti d’amore (secondo altre fonti, quest'olio si può ottenere anche dal sangue della madre). Provate a digitare le parole “Nam Man Prai Oil” su internet e vi si spalancherà un mondo: a quanto pare sono moltissime le persone che credono ciecamente nella sua efficacia, e i prezzi possono lievitare fino a raggiungere cifre esorbitanti. Potere della suggestione?
Per attirare a sé la persona desiderata, l’olio va abbinato alla recitazione di mantra, ma occorre anche ingraziarsi lo spirito del defunto con delle offerte: in un certo senso, l’olio va “accudito” e blandito esattamente come si farebbe con un Kuman tong
Il Nam Man Prai Oil, se proprio non se ne può fare a meno, andrebbe sempre maneggiato in modo corretto e consapevole, e se si vorrà disfarsene bisognerà accertarsi di vuotarne il residuo in un corso d'acqua dopo aver pronunciato delle apposite formule di commiato. Sono molti i film che mostrano le tragiche conseguenze dell'uso incauto di questo “olio dei morti”: uno su tutti, il film antologico "Bangkok Haunted" (Bangkok Kill City, 2001) di Oxide Chun Pang e Pisut Praesangeam. In quello che per me è forse l’episodio meno riuscito del lotto, il secondo di tre, la giovane Pam apprende dalla sua vicina di casa dell’esistenza di un olio che rende irresistibili, e che scopriamo essere realizzato con il sangue di donne uccise proprio per realizzare la preziosa pozione. Pam, ignara di tutti i retroscena, se ne procura una boccetta, ma quando usa l’olio su Tim finisce per attirare su di lui l’ira dello spirito ivi contenuto...
Kuman tong, come altri tipi di amuleti magici, viene definito yan (yantra). I tailandesi sembrano avere una vera e propria mania per questi amuleti, ma la cosa peculiare è che la magia nera si può utilizzare anche per incanalare il potere degli spiriti in disegni geometrici e altri segni tatuati sulla pelle, una forma di rappresentazione stilizzata che serve soprattutto per attuare un controllo magico su quegli stessi poteri. Credo, in effetti, che sia quello il senso dei tatuaggi che decorano in corpo della strega-villain protagonista di ben due film della saga di “Art of the devil”. 

Khon len khong (Art of the devil, 2004)
A questo punto mi pare sia necessaria una piccola digressione. Già in tempi non sospetti, diciamo più o meno due anni fa, subito dopo aver concluso lo Speciale Whispering Corridors, mi era balenata nella mente l’idea di dedicare un intero speciale alla trilogia tailandese “Art of the devil”. Le cose sono poi andate diversamente, come avrete notato, ma quella bozza di idea ha continuato a ronzarmi nella testa incessantemente. Per un breve periodo avevo anche inserito un banner nella pagina statica “Oltre lo specchio”, per poi toglierlo nel momento in cui avevo capito che non era quella la strada giusta da percorrere. Non era possibile infatti (o almeno io non riuscivo a capire come fare) costruire un intero speciale di un mese attorno a tre soli film e a un argomento, per quanto vasto, come la magia nera tailandese. Quell’idea di base si è poi evoluta e, due anni dopo, si è materializzata nello speciale che state leggendo, nel cui contesto “Art of the Devil” ha una sua presenza, seppure piuttosto ridimensionata. Nonostante ciò, il ciclo Art of the Devilè pur sempre un tassello importante del cinema horror tailandese, e basterebbe una sola occhiata alle locandine o alle foto di scena per capire immediatamente quanto in esso siano presenti quegli elementi del folclore con i quali un blog come Obsidian Mirror va spesso a nozze. Fine digressione. 

Poco fa ho usato il termine “trilogia” per definire “Art of the Devil”: a dire il vero, trilogia è un termine un po’ fuorviante, dal momento che, sebbene sia pacifico che esistano tre film con quello stesso titolo, soltanto il secondo e il terzo capitolo sono in qualche modo legati fra loro sul piano narrativo (per la precisione, il terzo film è un prequel del secondo). Per complicare ancora di più le cose, quello che nelle locandine è indicato come Art of the Devil 2 nei titoli di testa appare semplicemente come Art of the Devil, mentre quello che nelle locandine è indicato come Art of the Devil 3 nei titoli di testa appare come Art of the Devil 2. Ce n’è già abbastanza per farsi venire il mal di testa, rosicando nel dubbio di essere riusciti davvero a identificare tutti i film e la loro esatta sequenza. Qualunque possa essere il motivo che sta alla base di questo ginepraio (sospetto che l’idea di un titolo unico sia nato solo in fase di distribuzione), i tre episodi sono accomunati dal tema della magia nera e dal medesimo messaggio di fondo: ovvero, che gli effetti della magia sono irreversibili e che, proprio per questo, essa va maneggiata con cautela. In altre parole: stai attento a quello che desideri, perché una volta che l’avrai ottenuto non te ne potrai mai liberare. 

Long khong (Art of the devil 2, 2005)
Nel primo “Art of the devil” (Khon len khong, 2004) di Tanit Jitnukul, una giovane donna invoca l’aiuto di uno stregone per vendicarsi dell’ex amante che l’ha maltrattata, umiliata e abbandonata. È la classica storia dove il delitto è meno grave del castigo. Dopo aver sterminato costui e la sua famiglia, la donna si insinua nella vita della sua precedente famiglia (a quanto pare, l’uomo aveva una ex moglie e figli di primo letto) in modo da far fuori anche loro e impadronirsi della casa e dei beni del suo antico amante. Potreste pensare che io stia spoilerando troppo, ma così non è, perché nelle sue linee generali la storia viene già messa sul piatto entro cinque minuti dall’inizio. Quello che segue, o almeno la gran parte, è un lungo racconto che l’assassina fa all’ultimo superstite dell’interminabile strage per giustificare quello che sta facendo (il classico spiegone cinematografico in cui il killer si perde invece di farla finita e uccidere subito). 
Nel film assistiamo a quella che sembra proprio la creazione di un Kuman tong (e dell'olio dei morti) da parte dell’uomo che ha aiutato la protagonista ad attuare la sua vendetta, e a un certo punto fa capolino persino un fantasma albino (!) il cui ruolo verrà svelato solo alla fine. Un film che è decisamente raccomandato, ma solo nell’ottica di voler penetrare da spettatore nelle pieghe delle credenze magiche tailandesi. Da questo punto di vista, Art of the Devilè senza dubbio interessante; sotto tutti gli altri punti di vista, è invece una buona occasione mancata. Non che il film sia così tremendo, in fondo si lascia guardare, ma non si eleva mai al di sopra della mediocrità ed è destinato a perdersi nella massa di pellicole senza particolari pregi se non una buona fattura. Curiosa è però la scelta del regista di girare i flashback a colori e il presente in bianco e nero (mentre normalmente avviene il contrario) nella prima parte del film, per poi adottare un colore quasi uniforme virato nei toni del blu. 

Long khong 2 (Art of the devil 3, 2008)
Di tutt’altra pasta sono i due episodi successivi: “Art of the devil 2” (Long khong, 2005) e “Art of the devil 3” (Long khong 2, 2008), del collettivo Ronin Team, sono ancora storie di vendette incrociate portate a termine ricorrendo alla magia nera, ma nessuno dei personaggi è davvero innocente e, alla fine, si fa fatica a provare empatia per alcuno di essi. “Long khong” alterna momenti in cui sembra un classico horror ad ambientazione scolastica ad altri in cui il mistero della natura tailandese ci fa pensare di trovarci di fronte a qualcos’altro, ma a conti fatti l’atmosfera misteriosa cede il passo a un plot abbastanza convenzionale. Però la villain, ovvero la strega-sciamana al centro di entrambe le storie, è un personaggio un po’ più intrigante della ragazza sedotta e abbandonata del primo episodio, e viene fra l’altro suggerito che la sua ferocia derivi dal fatto che è posseduta dal diavolo dai tre occhi (una figura non so quanto reale del folclore: non ne ho trovato traccia da nessun’altra parte, ma non escludo che possa essere ispirata a un vero demone). 
Centrale in tutti e tre i film è invece la figura del Moh Phi, lo stregone-sciamano, ora un insospettabile barbiere che nasconde gli “attrezzi da lavoro” nel retrobottega (Khon len khong), ora un monaco (Long khong e Long khong 2) e ora un belloccio che somiglia più a un tronista che a un maestro nelle arti magiche (Long khong 2). Un po’ più di cura in fase di sceneggiatura avrebbe giovato alla trilogia (anche se “Long khong” si conclude con un bel twist), ma in compenso gli ultimi sono due film di una violenza inaspettata, a tratti esagerata, con situazioni degne di un torture porn. 

A questo proposito, Long khong sarebbe anche la dimostrazione che il genere torture ha trovato una sua linfa vitale ovunque nel mondo proprio nello stesso periodo, visto che “Hostel” (2005) di Eli Roth, da tutti riconosciuto come il capostipite del genere, è uscito nelle sale il 6 gennaio 2006, solo trentasei giorni dopo “Art of the Devil 2”. Non voglio ovviamente insinuare che quel mese di differenza possa essere in grado di spostare la nascita di un genere da un’altra parte del mondo (c’è in fondo sempre il primo Saw di James Wan che anticipa entrambi di un anno) ma la coincidenza, ammettiamolo, è piuttosto singolare.

Khon len khong (Art of the devil, 2004)


Takien: The Crying Tree

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Nang Takhian (Takien: The Haunted Tree, 2010)
Le leggende legate alla vegetazione appartengono agli albori dell’umanità: non solo miti di un Albero Cosmico, ma anche di figure arboree dalle radici animistiche che, per un probabile collegamento con qualche antico culto della fertilità, sono raffigurate quasi sempre come giovani donne. A volte si tratta di divinità, altre volte di spiriti, fate, perfino fantasmi. 
Gli alberi furono centrali in tutti i culti precristiani, ove rappresentavano un simbolo di rinnovamento e rinascita: con la loro longevità e la loro capacità di rifiorire di stagione in stagione, agli occhi degli antichi sembravano immortali. Per la loro mole, le radici saldamente immerse nella terra e il distendersi dei rami verso il cielo, anche fino a notevole altezza, si pensava che fungessero da collegamento tanto con il mondo dei morti che con la divinità, e non era raro che per i riti iniziatici si scegliessero radure in mezzo a un bosco o a una foresta, come nel caso delle cerimonie dei Druidi, e che gli sciamani, spesso in preda a qualche delirio estatico, si arrampicassero sugli alberi: c’era infatti l’idea che sia gli dèi che i loro messaggeri passassero dalla dimensione celeste a quella terrena scalando gli alberi o discendendone. Di conseguenza, quasi ovunque esistono archetipi legati a un albero della “vita”, che è spesso legato al tema dell’immortalità, e a un albero della “conoscenza”.
Nella mitologia norrena l’Albero Cosmico è l’Yggdrasill, fonte sia di vita che di saggezza, minacciato secondo alcune leggende da un serpente maligno che ne rode le radici fin dalla notte dei tempi. Quest’albero funge da collegamento, come una sorta di asse spazio-temporale, fra le nove dimensioni e fasi dell’esistenza; un mito che ricorre in tutte le zone d’influenza delle popolazioni germaniche, fra le quali si veneravano alberi sacri.
Yggdrasill è un frassino, legno che veniva considerato un potente amuleto contro il male, e la leggenda narra che il primo uomo ad apparire sulla terra fosse un frassino in cui gli dèi avevano infuso la vita (mentre la donna sarebbe similmente nata da un olmo). 

Takian (2006) 
Vanno ricordati anche l’albero di Iðunn (Idunn) e le sue mele d’oro, frutti magici grazie ai quali gli dèi si mantenevano immortali ed eternamente giovani; un mito che si può facilmente ricondurre a quello biblico dell'Albero della Conoscenza, ma anche ad altri. In Irlanda, in occasione del festival di Beltane era tradizione decorare il May Bush o May Tree, in genere un biancospino o un sicomoro, che era associato con gli Aos sí, gli spiriti degli antenati spesso descritti anche come spiriti della natura o come dèi. Presso i sumeri l’Albero della Vita era un importante simbolo religioso e iconograficamente era attraversato da linee e nodi. Concettualmente somiglia all’albero della Cabala, che è formato da dieci nodi interconnessi che rappresentano i dieci Sephiroth, o centri energetici, del corpo umano, e ha un profondo significato ermetico. 
Presso gli Egizi esistevano invece due alberi legati alla vita e alla morte: l’albero di Saosis, un’acacia, che si pensava racchiudesse la vita e la morte, da cui emersero Iside e Osiride, e il Sacro Sicomoro che era posto sulla soglia fra le due dimensioni (Hathor, il principio femminile egizio, era la "Signora del Sicomoro"). 
Fra le culture precolombiane del Mesoamerica esistevano alberi del mondo, le cui tracce sono evidenti nell’iconografia, che facevano riferimento alla terra (ovvero alla natura, espressa tramite i quattro punti cardinali) e al cosmo. Nella Genesi gli alberi sacri sono due, quello della Conoscenza e quello della Vita, ma la Bibbia menziona anche l’Asherah, un albero sacro della tradizione caldea dedicato (secondo alcuni studiosi) al culto dell’omonima dea, consorte di Yahweh; tra i Sufi l’albero del paradiso (Jannah) che simboleggia la perfezione spirituale e la vicinanza a Dio è detto Ṭūbā: citato una sola volta nel Corano, ma anche in altri testi sacri islamici, ha dato il nome a una delle città più grandi del Senegal, la città santa di Touba; gli Indù hanno Asvattha, o Assattha, il Sacro Fico menzionato nel Rig Veda i cui rami simboleggiano l’universo visibile e le radici quello invisibile, o spirituale. Proprio ai piedi di un fico, secondo la tradizione buddista, sedeva il Budda quando ottenne l’illuminazione. La mitologia persiana aveva invece un Albero dei Semi, una pianta primigenia che aveva generato le sementi di tutte le piante selvatiche, e un albero dell’Immortalità (o della Scienza). Nella tradizione iranica si parla più precisamente di Hom o Haoma, termine che indicava sia la pianta sacra, sia la bevanda rituale che se ne estraeva e la divinità che si credeva questa contenesse.

Jao Mae takhian thong (Goddess Taki Thong, 2010)
L’Epopea di Gilgamesh racconta di una pianta miracolosa "che cresce sott'acqua, ha spine come il rovo, come la rosa" ed è in grado di restituire la giovinezza perduta. Gilgamesh ne apprende il segreto da Utnapishtim, colui che  nella tradizione tradizione sumera e accadica sopravvisse al Diluvio, e la raccoglie dal fondo del mare, ma in seguito questa gli viene sottratta da un serpente: "Esso uscì dall'acqua e lo ghermì, e subito si spogliò della pelle e ritornò nel pozzo". Il serpente, che da quel momento acquisisce la capacità di ringiovanire in eterno cambiando pelle, grazie alla misteriosa pianta e al suo fiore acquisisce quell'immortalità che è invece negata a Gilgamesh e, con lui, all'umanità intera.
Per i cinesi sull’albero cosmico, il Fusang (o Kongsang), risiede il sole, che la mattina si alza e da lì si sposta su un altro albero posto a Occidente, ed esiste un albero-divinità detto Pi-fang.
Nel Taoismo inoltre si narra di un pesco che produce un frutto ogni tremila anni: questa pesca garantisce l’immortalità al fortunato che riesce a coglierla e a mangiarla. 

Il folclore tailandese, con il suo profluvio di spiriti contrapposti, malevoli e benevoli, ha le radici – è proprio il caso di dirlo – ben piantate nel suolo. Non che gli spiriti più numerosi siano quelli delle foreste o degli alberi (non sono in grado di dirlo ma, a occhio, direi proprio di no), ma bisogna ammettere che si tratta di figure particolarmente inquietanti, caratterizzate da una sensualità violenta e mortale. Gli spiriti del banano, del banyan, del tamarindo, del ta-khian e di molte altre piante sono Nang mai, spiriti femminili degli alberi. Un albero in cui dimora uno di questi spiriti verrà contrassegnato con dei festoni colorati. 
Anche nell’antica Grecia, la culla della nostra civiltà, esistevano divinità naturali femminili, le ninfe, alcune delle quali erano dette driadi e vivevano nei boschi e altre, che vivevano all’interno delle piante, amadriadi. Queste ultime, in particolare, erano vulnerabili e condannate allo stesso destino delle piante: in primavera, al risveglio della natura, esse gioivano, mentre in autunno pativano la caduta repentina delle foglie e l’arrivo dei primi freddi; se l’albero cui erano legate soffriva, esse soffrivano; e se l’albero moriva, esse stesse morivano. Erano perciò vendicative e crudeli con chi osasse tagliare o minacciare in altro modo gli alberi del bosco. 
Tali comportamenti, di fatto, comportavano la punizione di tutti gli dèi, cosa che sorresse per lunghissimo tempo la tradizione della sacralità dei boschi e delle foreste (non è certo un caso se, quando in Europa gli antichi culti furono abbandonati e le loro divinità dimenticate, il bosco divenne nell’immaginario comune un luogo oscuro ove è meglio non addentrarsi perché dimora di streghe, elfi, folletti, fate e altre creature non umane che popolavano racconti popolari e leggende e turbavano il sonno dei giusti. Ma non voglio divagare). 

ตะเคียนคู่ (Takhian Khu, 1992)
In questo trova il suo senso un parallelismo fra amadriadi e Nang mai, e più in generale potremmo trovare delle analogie anche fra queste ultime e le Yaksi, spiriti femminili dell’Induismo e del Buddismo, i birmani Yokkaso (gli spiriti guardiani degli alberi, che vivono sui tronchi), Bhummaso (i guardiani della terra, che vivono sulle radici) e Akathaso (i guardiani del cielo, che dimorano sulle cime degli alberi), gli spiriti/divinità dei Tamil come Taalavaasini, dea delle palme, e le giapponesi Kodama/Kiinushii
Tuttavia, le Nang mai non si limitano a proteggere gli alberi e la foresta: questi spiriti, a volte miti e innocui, possono scatenare un potenziale seduttivo irresistibile, e poiché non scindono mai erotismo e morte, boschi e foreste sono luoghi che nessun tailandese dovrebbe mai frequentare a cuor leggero. 
Nella foga dell’amplesso, le Nang mai si trasformano in crudeli vampiri psichici che prosciugano letteralmente la vita delle vittime: se nessun uomo si addentra incautamente nel bosco, li cercano e li predano di proposito. Come Phi Tanee, o Nang tani, lo spirito dell’albero del banano selvatico, che ricorre a grida e lamenti strazianti per attirare a sé gli uomini e divorarli. 
Tanee è la Nang mai per eccellenza, forse la più pericolosa: leggende su uno spirito del banano sono comuni in tutto il Sudest asiatico, e addirittura in Cambogia la tradizione impone di non piantare questi alberi vicino alle case, oppure di potarne regolarmente i rami per indebolirli e smorzarne l’aggressività (perché più forte e rigoglioso è l’albero, più pericoloso è lo spirito che lo abita). È Takien però la Nang mai più venerata: per esempio, nel tempio di Wat Nang Kui della provincia di Ayutthaya, che risale a oltre 400 anni fa, c’è una cappella (vihara) dedicata a Mae Takian Thong. Il tempio porta il nome della ricca mecenate (Nang Kui, cioè “la signora Kui”) che ne finanziò la costruzione e che alla sua morte, si dice, per i meriti accumulati in vita si trasformò in uno spirito che prese a risiedere in un albero Takian posto proprio nei pressi del tempio. 
Quel vecchio albero è morto esattamente vent’anni fa, nel 1997, ma i suoi resti sono stati conservati in segno di rispetto e devozione, e dal suo legno è stata ricavata la statua di Takien che tuttora è presente nel tempio e alla quale i fedeli portano doni ed elevano preghiere e richieste. 

พรายตะเคียน (Prai Tah Kien, 1987)
Ricostruire una “cinematografia delle Nang mai” si è rivelata forse l'impresa più complessa fra quelle che mi ero prefisso. Nel tempo ho visto comparire queste creature nei film perlopiù nelle vesti di comparse, e ancora una volta una ricerca a tappeto tramite i soliti canali si è rivelata infruttuosa. Fortunatamente il web è immenso e con un po’ di fortuna, saltando da un sito tailandese all’altro, da un blog tailandese all’altro, sono infine riuscito a mettere assieme qualche tassello che, lungi dal completare il puzzle, mi permette di mettere vagamente a fuoco l’insieme. 
I talebani di YouTube potranno comunque trovare un bel po’ di interessanti titoli vintage da visionare, rigorosamente in lingua originale e altrettanto rigorosamente senza sottotitoli. Il più interessante di tutti è fuor di ogni dubbio “Prai Takian” (1940): si tratta, per inciso, del più antico film tailandese di fantasmi di cui si abbia memoria, e del quale non rimangono che otto minuti scarsi (tutto il resto può dirsi verosimilmente perduto). Trattasi di un girato in 35mm, in bianco e nero e privo di sonoro, registrato dal Ministero della Cultura come parte del patrimonio cinematografico tailandese. 
Parlare di horror in questo caso è un attimo fuori luogo in quanto, almeno a giudicare dalle immagini, si tratta di una pellicola ricca di situazioni comiche, con i protagonisti impegnati in rocambolesche fughe di fronte all’apparizione dello spirito. Se dovessi trovare un’analogia, non esiterei a paragonarlo ai vecchi film con Ridolini o Charlot. Non sono riuscito a recuperare nessuna informazione circa il regista e il cast, ma ormai ho imparato che il cinema tailandese è molto restio a rivelarsi per intero. 

Un quarto di secolo più tardi, nel 1966, fu la volta di un altro film, il cui titolo può essere translitterato in “Goddess Taki Thong”, o qualcosa del genere. La vicenda è ambientata nel 1905 e narra le vicende dello schiavo Yod e della sua promessa sposa Khun, anch’essa schiava. È la classica storia di prevaricazione nei confronti di un amore tanto puro quanto impossibile. 
Il giorno in cui Nang Neuan, la giovane moglie del padrone, cerca di sedurre Yod, la colpa ricade su quest’ultimo. La moglie fedifraga, anch’essa desiderosa di vendetta per essere stata respinta, invita il marito a fare di Khun la propria amante, aprendo uno scenario che farebbe impallidire quelli di Beautiful. Il giovane Yod, sentendosi tradito, respinge Khun, la quale per disperazione si impicca a un albero Takhian, lo stesso dove anni prima i due innamorati si erano promessi eterno amore. Yod, impietosito, seppellisce infine il corpo dell’amata proprio ai piedi di quell’albero. 
Sul fatto che Khun finirà per ritornare nelle sembianze di uno spettro non ci piove, e credo che nessuno mi possa accusare di anticipare troppo la trama. Curiosità interessante: esiste una successiva versione di “Goddess Taki Thong” alla quale è stata aggiunta una colonna sonora firmata dal nostro Ennio Morricone (temo a sua insaputa). 

ตะเคียนคะนอง (Ardente, 1979)
Una vicenda piuttosto simile verrà riproposta una decina di anni più tardi in un nuovo film il cui titolo potremmo tradurre in “Ardente” (1979). In questa versione, una giovane donna torna al villaggio natio per annunciare al proprio genitore la sua intenzione di convolare a nozze con un insegnante di Bangkok, ma il destino mette sulla sua strada un vecchio pretendente respinto che la uccide dopo averla stuprata. Come di consueto, la donna ritorna sotto forma di spirito per cercare giustizia. 
Molto simile al capostipite del 1940, ma solo nel titolo, è “Phrai Takhian” (aka Prai Tah Kien, aka Supernatural Goddess, 1987), che può vantare nel cast uno dei più celebri volti di tutta la Tailandia, l’attore Kowit Wattanakul, che qualcuno può forse aver notato in “Solo Dio perdona” (2013) di Nicolas Winding Refn. Stessa storia di amori e tradimenti, stupri e violenze che si concludono con la protagonista che si impicca a un albero Takhian
Vi chiedete se è tutto? Niente affatto: troviamo ancora una volta Kowit Wattanakul nei panni del protagonista di “Takhian Khu” (1992). La trama? In due parole: la giovane Champee si impicca a un albero Takhian dopo essere stata violentata. 
Entrambi i film, “Phrai Takhian” (1987) e “Takhian Khu” (1992), si trovano sul tubo (almeno, oggi è così) inserendo semplicemente il titolo come chiave di ricerca. Naturalmente potete scordarvi i sottotitoli, ma non è che si può avere proprio tutto dalla vita, no? 

Il lungometraggio “Ta-kien” (aka Takean) di Chalerm Wongpim, datato 2003, costituisce una felice eccezione. Il film è incentrato su Phi Takien che, come già accennato nell’introduzione dedicata agli spiriti e fantasmi tailandesi, è lo spirito di un sempreverde tipico della foresta tropicale, la Hopea Odorata
Nel film, Takien si oppone a un avido costruttore senza scrupoli in un eco-vengeance dai toni malinconici. L’utilizzo della CGI è forse eccessivo, ma ciò non toglie che "Ta-kien" si faccia notare per la sua ampia offerta di paesaggi mozzafiato, che costringono lo spettatore a lasciarsi alle spalle quei piccoli, trascurabili particolari come i tempi ingiustificatamente lunghi sui quali il regista si sofferma in alcuni passaggi. La stessa diga con la quale l’incauto ingegnere sfida Phi Takienè un monumento che ben si amalgama con il paesaggio, nonostante lo scopo per cui essa viene costruita e nonostante le conseguenze (l’allagamento della foresta) che essa è destinata a portare. 

Lhorn (Soul, 2003)
Il 2003 fu un anno decisamente florido per le Nang mai in quanto, oltre al sopra citato lungometraggio di Chalerm Wongpim, sbarcarono nelle sale due ulteriori titoli: ”Lhorn” (aka Soul) di Arphichard Phopairoj e “Jun-Ka-Por” (The crying tree, 2003) di Worachet Nimsuwan. Il primo è in realtà un film a episodi, che sfrutta la gita di un gruppo di ragazzi (Manao, Fah, Dao e Krit) nella vecchia casa di famiglia di uno di essi come scusa perfetta per sciorinare vecchie storie su fantasmi e possessioni. Si tratta di quattro diverse storie basate su credenze e misteri provenienti dai vari angoli del paese, proposte al pubblico nel dialetto locale. 
Il primo episodio (Phee-Phong) proviene dalla Tailandia del nord e narra di un albero magico detto “Bat-pha” in grado di trasformarsi in un fantasma che rimane innocuo finché qualcuno non identifica il suo ospite misterioso. Il secondo episodio (Nang-Ta-Kien) proviene delle regioni centrali e narra dello spettro di una vittima di omicidio (avvenuto proprio sotto un albero Takhian) che cerca vendetta nei confronti del suo assassino. L’episodio “Prai-Ta-Nhi” narra di una donna (palesemente ispirata allo spirito Phi Tanee) che vive tra gli alberi di banano e che lancia incantesimi d’amore su coloro che ritiene di amare. Se respinta, la sua furia diviene ovviamente incontrollabile. L’episodio finale, che proviene dalle regioni del Nordest, narra di alcuni incauti che violano le regole della magia nera attirandosi contro la maledizione di una nostra vecchia conoscenza: Phi Pop, lo spirito femminile che ama banchettare con le viscere dei vivi. A sorpresa, il film si chiude proprio su questo episodio, che spezza le regole e irrompe nella “realtà” del suddetto gruppo di ragazzi in gita, facendone scempio.

Ancora più inquietante è il già citato “Jun-Ka-Por” (The crying tree, 2003) di Worachet Nimsuwan: in una tranquilla, appartata e idilliaca località di campagna, ogni volta che si odono le parole della canzone “The Crying Tree” un brivido di terrore scende sugli ospiti. Quando la musica si ferma, infatti, uno di loro viene trovato orribilmente ucciso. Quello che sembrava essere un giorno di serenità si trasforma lentamente in un incubo. Come fermare questa serie infernale di uccisioni e, soprattutto, chi ne è il responsabile? Uno dei presenti oppure… uno spirito vendicativo?

LtoR: Jun-Ka-Por (The Crying Tree, 2003); Ta Kian 2 (Takian 2, 2010); Ta-kien (Takean, 2003)
Citiamo velocemente anche “Tuk kae phii” (aka Gecko Ghost, aka Lizard Woman, 2004) di Manop Udomdej, con il solito Kowit Wattanakul, “Takian” (2006) di Phongsakon Chubua, “Takian 2” (2010) di La-on, “Jao Mae takhian thong” (aka Goddess Taki Thong, 2010) di Mangkorn Chaophaya e giungiamo a uno dei più interessanti, se non per la trama, che a questo punto conosciamo quasi a memoria, quanto per la fattura piuttosto elevata, per la caratterizzazione dei personaggi, i momenti di puro terrore e le atmosfere estremamente malinconiche di cui è permeato: trattasi di “Nang Takhian” (aka Takien: the haunted tree, 2010) di Saiyon Srisawat, di cui potete trovare facilmente il trailer, se non avete tempo per altro. 
Yaibua è una donna disperata: ha perso nel giro di un attimo il suo lavoro e l’amore della sua vita. Disoccupata e tradita, Yaibua ritorna nella sua città natale, dove vede nella sua famiglia di origine la sua ultima speranza. Al suo arrivo, scopre che i suoi genitori e la sorella se ne sono andati, scomparsi nel nulla senza una parola. Devastata nell’animo, l'unica persona a cui Yaibua riesce a pensare è Pichan, il suo ex boyfriend, ma anche lui sembra essere sparito per sempre dalla sua vita. Incapace di andare avanti da sola, Yaibua finirà per legarsi una corda al collo e appendersi a un grande albero nei pressi del cimitero. Ma le sue colpe faranno sì che il suo spirito rimanga imprigionato nell'albero, in attesa del ritorno di Pichan e della propria redenzione.

Nang Takhian (Takien: The Haunted Tree, 2010)


Mae Snake

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Mae Bia Uncut (Snake lady, 2015)
La genesi di una leggenda è forse la sua parte più interessante, ma è anche quella che di norma è destinata a rimanere incerta, se non proprio oscura, come nella maggior parte dei casi che abbiamo esaminato nel corso di questo mese (Mae Nak, Phi Krasue, Phi Pop, eccetera). Con il passare del tempo è sempre però possibile seguirne a ritroso le tracce all’interno delle forme di culto più primitive, e quando un legame si trova, che non sia campato per aria né labile, le leggende stesse assurgono a tutti gli effetti a letteratura religiosa, e acquisiscono un valore antropologico molto maggiore di quello che avrebbero se fossero solo mere testimonianze di superstizioni popolari (a meno di non considerare il sentimento religioso stesso come una forma di superstizione). 
Nel caso di Mae Nak, abbiamo già visto che Mae corrisponde all’appellativo “madre”, ma è il nome proprio Nak che ci fornisce un indizio chiave per comprendere la possibile origine di questo spettro. Un’origine ben più antica e “nobile” della leggenda kmer che abbiamo menzionato in precedenza. Uno dei significati della parola tailandese nak, infatti, è serpente, e questo legame evidente con i Naga della mitologia vedica e induista, presenti più o meno in tutti i paesi in cui è diffuso l’Induismo, ci dice che molto probabilmente Mae Nak era in origine una divinità.
I Naga sono spiriti della natura legati alla fertilità (e quindi associati alla seduzione e alla sessualità) che possono avere l’aspetto di uomini-serpente e donne-serpente, oppure essere in tutto e per tutto dei rettili: serpenti in Laos, draghi in Malesia, e così via. In base ad alcune leggende, essi avrebbero abitato il perduto continente di Mu prima che questo si inabissasse, e grazie a una tecnologia estremamente avanzata avrebbero in seguito costruito delle città sotterranee e sottomarine i cui accessi sarebbero tuttora celati sul fondo di laghi, fiumi e pozzi.
In India, in effetti, i Naga sono prevalentemente spiriti acquatici, portatori di pioggia e protettori di corsi d’acqua e pozzi ma anche responsabili, se indispettiti, di alluvioni e inondazioni: i Naga hanno dunque la stessa natura ambivalente, materna e distruttiva, che ritroviamo nella figura di Mae Nak, la quale, non dimentichiamolo, viveva in una casa-palafitta sul fiume. 
Mae Nak dunque, etimologicamente e morfologicamente, sarebbe ricollegabile al principio femminile della terra, che è una delle manifestazioni di Mahā Devī, la Grande Dea o Madre divina (conosciuta anche come Durga, Shatki, Kali e in altri modi). 
Questa sacralità di fondo spiega qualcosa che di primo acchito, quando ne sono venuto a conoscenza, mi ha molto stupito di Mae Nak, ossia che abbia un tempio e un culto a lei dedicato, ma resta il fatto che essa sia sopravvissuta nell’immaginario tailandese esclusivamente come spirito. 

งูผี (Phantom Snake, 1966)
Ma come e quando la manifestazione di una divinità maggiore sarebbe stata declassata a semplice spirito? È una domanda difficile a cui rispondere, questa, e a dire il vero bisognerebbe piuttosto domandarsi il perché. Ci fu un tempo in cui anche in Oriente, come da noi, esistettero divinità femminili, si può anzi dire che queste fossero più importanti di quelle maschili, perché come “madri” avevano la facoltà principale di dare e reiterare la vita. Naturalmente, come in tutte le forme di religiosità arcaiche, la divinità era vista come la fonte sia del bene sia del male: Devi era la vita ma anche la morte, l’archetipo del femminino sacro tramite il quale tutte le cose potevano vivere, morire e tornare alla vita in un ciclo eterno. Tuttavia, con l’avvento del Buddismo e religioni più moderne (un po’ come avvenne da noi con l’affermarsi del Cristianesimo), il culto delle divinità femminili venne, se non proibito, quantomeno ridimensionato. La stessa origine di Devi venne ascritta alle divinità maschili del pantheon induista (per citare Wikipedia, Durga/Devi aveva una forma “di una bellezza accecante, con il viso scolpito da Śiva, il busto da Indra, il seno da Chandra (la Luna), i denti da Brahma, le natiche dalla Terra, le cosce e le ginocchia da Varuna (il vento), e i suoi tre occhi da Agni (il fuoco), il corpo dorato e dieci braccia. Ogni dio le diede anche la sua arma più potente: Śiva il tridente, Viṣṇu il disco, Indra la vajra, dalla quale scaturisce la folgore, ecc.”). 
Nell’impossibilità di sradicare queste figure dall’inconscio collettivo, si prese a sottolinearne sempre di più le caratteristiche negative, demoniache, a scapito della connotazione divina: a generare la leggenda dello spirito di Mae Nak sarebbe stato proprio un processo di questo genere. 

Poiché però lo scopo ultimo di questo speciale è di scavare nei meandri del cinema del folclore tailandese, possibilmente a tema horror, è opportuno mettere da parte questo tema per tornare a parlare di cinema, e dar conto anche dei film dedicati alle donne-serpente. Anche in questo caso, e a maggior ragione, proporre un elenco completo di questi titoli sarebbe arduo e mi limiterò quindi a proporvene un’accurata selezione, tralasciando quelli che, se pure parlano di serpenti, hanno poco o nulla a che fare con fantasmi o spiriti di ogni sorta. Con una premessa: il binomio donne e serpenti è comune un po’ in tutta l’Asia, e chissà che prima o poi non se ne riparli in altra sede. 

นางพญางูผี (Ghost Snake Queen, 1984)
Partiamo quindi da “Ghost snake queen”, un film del 1984 conosciuto anche come “Queen of ghost snakes”, remake di un precedente film del 1966 (“Phantom snake”). Il sipario si alza su alcuni uomini alle prese con una colonia di serpenti che ha infestato le strade del villaggio. Uno di questi, il più grosso, sfugge alla cattura, e nottetempo uccide un uomo, Chat, e sua moglie, prendendo possesso con il suo spirito della loro figlioletta appena partorita. Quella bambina, Boonmee, è ormai una giovane donna quando, anni dopo, diverse morti misteriose prendono ad affliggere il villaggio. Poiché i cadaveri delle vittime si trasformano in serpenti, la gente comincia a mormorare strane storie di spiriti che starebbero infestando il villaggio. La rivalità tra Boonmee e la sorellastra Kamfa, entrambe innamorate dello sbirro incaricato di condurre le indagini, scatenerà una serie di avvenimenti sempre più tragici e luttuosi. Il sequel, “Queen of ghost snakes 2”, diretto da Lek Suriyon nel 1990 e con la partecipazione in veste di attore di Bin Banleurit (che abbiamo già incontrato parlando di “Krasue Fat Pop”), ripropone la stessa vicenda con pochissime variazioni. 
Facendo un balzo in avanti fino al 2001, quasi vent’anni dopo, incontriamo due lungometraggi usciti a poca distanza l’uno dall’altro e ugualmente interessanti, anche se per ragioni molto diverse.

Snaker (The Snake King's Child, 2001) di Fai Sam Angè ormai, a sedici anni dalla release, un film di culto. Si tratta di una rivisitazione della storia di “Cat People" (Il bacio della pantera), il film del 1982 di Paul Schrader che a sua volta era il remake dell'omonimo film del 1942 di Jacques Tourneur. In un piccolo villaggio khmer, Nhi viene sedotta e ingravidata da un serpente immortale. Uccisa da suo marito, Nhi fa in tempo comunque a dar vita alla prole del serpente: la piccola Soraya, una sorta di moderna Gorgone con dei serpenti per capelli ma che, grazie a un anello magico, può assumere un aspetto umano normalissimo. Il vecchio saggio che aveva cresciuto Soraya, accompagnandola fino alla sua adolescenza, cercherà di tenere quest’ultima il più possibile lontana dalle tentazioni della carne, poiché, come predetto nei suoi incubi, quando la ragazza perderà la verginità si trasformerà definitivamente in un serpente. Com’è ovvio, un giorno il timore del vecchio non potrà che tramutarsi in realtà. I punti di forza della pellicola sono l’accurata ricostruzione storica e gli effetti speciali totalmente artigianali (per realizzare gli incredibili capelli di Soraya, nello specifico, sono stati semplicemente applicati sul capo dell’attrice dei veri serpenti). 

Ngu Keng Kong (Snaker, 2001)
Mae Bia (Snake lady, 2001) di Somching Srisupapè invece un dramma thriller/horror incentrato sull’amore impossibile fra Chanachol e Mekala. Impossibile perché, se da un lato lui è sposato, dall’altro la ragazza sembra avere una relazione simbiotica con un cobra che pare abbia portato sfortuna (per usare un eufemismo) a tutti i suoi precedenti amanti. Il cobra che protegge Mekala, e sua madre prima di lei, non è infatti un normale serpente, ma una creatura sovrannaturale dagli sterminati poteri: la storia d’amore e morte finirà quindi per ripetersi anche con Chanachol e, per inciso, non è per niente certo che Mekala in tutto questo sia proprio così innocente… 
Il film è un remake dell’omonimo film del 1989, rivisitato in chiave un po’ più moderna, ed è un must soprattutto per la presenza nel ruolo di Mekala della bellissima Napakpapha Nakprasitte, che in seguito sarà protagonista anche di Art of the devil 2 e 3 e comparirà, seppure in un ruolo minore, anche nel film “The coffin” (La bara). 
Nel 2015 il regista Pantewanop Thewakul girò un nuovo remake di questa storia (“Mae Bia uncut”): un film più curato ed esteticamente più gradevole delle due versioni precedenti, ma soprattutto un film che abbonda di erotismo. Direi che possiamo chiudere qui questa breve rassegna. Vi sono in realtà decine di altri film che hanno come protagonisti i serpenti, ma si tratta per lo più di ennesimi, superflui eco-vengeance dove ci si focalizza solo sul pericolo e sull’azione, venendo a mancare non solo alcun legame con la tradizione o con il folclore ma spesso anche quello con la figura femminile e con il tema della seduzione. Sono insomma “altro”, roba vista e stravista che non serve riesumare ora.

Memorie fantasma

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Spiriti d’autore.È così che avrei dovuto chiamare questo articolo, giacché gli spiriti presenti nei film del regista di culto Apichatpong Weerasethakul sono l’unico motivo che giustifica la comparsa dell’autore trentasettenne in uno speciale, come questo, dedicato al cinema horror tailandese. Weerasethakul non è un regista mainstream, ma non ha nemmeno nulla a che fare con l’horror. Tuttavia, per quanto i suoi siano film in gran parte realistici e anche sottilmente politici, arriva sempre il momento in cui vi fanno capolino fantasmi e presenze.
È qui che la dimensione spirituale (o onirica, se vogliamo metterla in altri termini) diventa il vero motivo dominante della narrazione. Abbiamo visto come i tailandesi siano abituati a fare i conti con gli spiriti e i fantasmi in ogni momento della propria esistenza, pertanto non deve stupire che essi compaiano anche in contesti inusuali ai nostri occhi. Fra i suoi lungometraggi più famosi vanno citati “Loong Boonmee raleuk chat” (Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, palma d’Oro a Cannes nel 2010), “Sang sattawat” (Syndromes and a Century, 2006, miglior film del decennio secondo la classifica The Best of the Decade: An Alternative View della Cinemathèque del Toronto International Film Festival nel 2010) e “Sud pralad” (Tropical Malady, premio della Giuria a Cannes nel 2004). Tralasciando quello di mezzo, che non ho ancora visto, è sugli altri due che mi concentrerò oggi.

Molti forse rammentano “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti” principalmente per il titolo, così lungo e particolare, più che per la trama. Non che il film non ne abbia una, ma è facile perderla di vista quando il regista si sofferma su particolari a prima vista poco significativi, o quando la lentezza diventa notevole per lo spettatore-tipo occidentale. C’è da dire che il titolo stesso difficilmente poteva far pensare a un film d’azione e, come sempre in questi casi, aiuta anche avere una minima conoscenza della cultura del paese d’origine del film: senza una totale immersione nella mentalità tailandese, la visione di questo film può diventare un’impresa ardua.
La storia è incentrata sugli ultimi giorni di vita del vecchio Boonmee, attorniato dalla sua famiglia nella campagna tailandese. Boonmee, sul confine fra la vita e la morte, attira a sé degli spiriti, incuriositi da lui oppure (come nel caso della moglie defunta e del figlio scomparso da lungo tempo, che gli appare sotto forma di un gorilla fantasma) legati a lui e animati dal desiderio di rivederlo, e forse anche di confortarlo, in quelle che sono scene familiari altrimenti ordinarie.
Alla fine, Boonmee si reca nella foresta per morire nella stessa caverna dove era venuto al mondo per la prima volta - poiché, come si evince anche dal titolo, egli è in grado di ricordare tutte le sue vite precedenti, anche se talora in modo molto vago.

“Lo zio Boonmee...” è ispirato all’omonimo libro del 1983 del monaco Phra Sripariyattiweti, che il regista conobbe da bambino in un monastero frequentato da suo padre, ma più che una trasposizione ne è un adattamento molto libero, essendo il film (a detta del regista) in parte autobiografico.
La narrazione affronta con ritmo lento e ipnotico argomenti come la morte, la reincarnazione e il karma, ma è anche una riflessione sulla memoria resa ricorrendo al tema degli spiriti degli antenati, benevoli e desiderosi di ritrovare un contatto con i vivi ma spesso in grado di farlo solo quando questi si trovano alla fine della vita. “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti” tuttavia ha anche un suo ‘lato oscuro’ rintracciabile nel sottotesto politico che si rifà al progetto multimediale "Primitive", del quale questo film rappresenta solo uno dei tasselli. Un progetto ha come fulcro ideologico la memoria storica e il rimosso.
"Primitive" fu ideato nel 2009 per il FACT (Foundation for Art and Creative Technology) di Liverpool e poi mostrato in altri spazi espositivi e gallerie (incluso, tra marzo e aprile 2013, HangarBicocca di Milano): con dei video a metà fra documentario, vita vera e costruzione onirica, popolati da persone in carne e ossa e anche da fantasmi, Weerasethakul allestì la sua personale ricostruzione di una delle pagine più oscure e tragiche del suo paese. I video, di durata variabile (dai 29’ 34’’ di Primitive al minuto di A dedicated machine), sono infatti incentrati sugli eventi occorsi a Nabua, villaggio nel nord del paese nella provincia di Nakhon Pahom, vicino al confine con il Laos, negli anni Sessanta.
Nabua divenne tristemente famoso per la feroce repressione anticomunista instaurata dal governo su istigazione degli Stati Uniti (che sostenevano le gerarchie militari al potere in Tailandia in cambio di supporto e basi militari per le proprie missioni in Vietnam e Laos). Con i comunisti di Mao nascosti nella giungla e in un clima di oppressione, povertà e ingiustizia sociale, l’ideologia comunista divenne un’attrazione irresistibile per gli abitanti della zona; molti furono coloro che si iscrissero al CPT (il Communist Party of Thailand), altri forse non sapevano neppure cosa fosse il comunismo, ma ne fecero tutti le spese. Gli abusi fisici e psicologici scatenarono guerriglie armate fra il governo e gli agricoltori, che vennero accusati di ribellione, perseguitati e all’occorrenza uccisi. Per sopravvivere, molti di loro furono costretti a darsi alla macchia, e quando in un secondo momento il villaggio venne posto sotto regime militare e occupato non poterono più tornare indietro. Le donne e i pochi uomini rimasti nel villaggio li aiutavano come potevano, per esempio fornendogli del cibo di nascosto, ma molti finirono per essere letteralmente inghiottiti dalla giungla.

Apichatpong Weerasethakul: Primitive
Lo stesso destino (forse) del figlio di Boonmee nel film, addentratosi nel bosco e ritornato a casa solo molti anni dopo sotto forma di spirito-gorilla. I ricordi di Boonmee assumono quindi una doppia valenza, personale e universale/politica, nel tentativo di mantenere viva la memoria di un passato che, con il trascorrere del tempo e la trasformazione del paese, molti tendono a rimuovere. La stessa parola primitive, primitivo, richiama da un lato il passato, il desiderio di ritornare alle proprie origini, e dall’altra lo stato di ignoranza in cui spesso il governo riduce i propri cittadini. Il regista infatti ha dichiarato: Primitive ha per me diverse connotazioni. Una riguarda il modo in cui il luogo rimane fermo nel tempo e non progredisce. Questo ricordo, un ricordo brutale, permane e il modo in cui venivano trattate le persone durante quel periodo – dagli anni Sessanta fino ai primi anni Ottanta – era così primitivo… il modo in cui le persone giudicavano delle vite umane, e se si pensa a ciò che accade oggi in Tailandia, ci si rende conto che non c’è stato un vero progresso. Un’altra interpretazione della parola Primitive è quella di qualcosa da preservare, preservare il luogo come una comunità agricola. Se si osserva l’opera sui due schermi, questa tratta di come si sogna il futuro, ma se si ascolta di cosa trattano questi sogni, l’immagine è quella di un futuro con una società primitiva. Infatti, lo spazio utopistico non è necessariamente splendente e tecnologicamente avanzato, forse il futuro consiste nel ritorno ad una società basata sull’agricoltura (l’intervista completa è qui).

Il cinema come macchina del tempo o la reincarnazione per mezzo del cinema, insomma. Oppure, per usare un concetto più semplice, il cinema come terapia per risvegliare le coscienze insieme ai ricordi, e, si spera, dare a Nabua l’occasione di convivere con il suo ingombrante passato. Weerasethakul ha dato voce ai sopravvissuti, i figli di coloro che scomparvero oltre cinquant’anni fa, invitandoli a ripensare la storia di Nabua; realizzando un suo vecchio sogno, e perché l’analogia fra racconto e viaggio fosse ancora più evidente, ha costruito assieme a loro una navicella spaziale, a sua volta una metafora di come si possa costruire un nuovo mondo. La cosa più curiosa è però che, come chiarito dall’allestimento “Phantoms of Nabua”, Nabua viene chiamata dai locali la “città vedova”, ovvero senza uomini, a causa di un’antica leggenda relativa a un Phi Am, uno spirito-vedova che rapirebbe gli uomini che entrano nel suo regno per trasportarli altrove. Un altro modo per dire “ucciderebbe”, e una bella metafora di quel che accadde negli anni Sessanta per colpa del governo.
È la leggenda che ha precorso la realtà oppure essa stessa esiste per dar conto di quello che è il karma del villaggio di Nabua? Ma forse, come auspica il regista, il karma infine si potrà spezzare, liberando la città dalla vedova spettrale che la infesta.

Che la Tailandia si una terra piena di contrasti lo si capisce molto bene anche guardando “Tropical Malady” (2004), che è un film forse anche più misterioso, e fin dal titolo: l’originale “Sud Pralad” significa “mostro” oppure “strana creatura”, quindi non si capisce bene da dove derivi la traduzione utilizzata come titolo internazionale. Ma il film è noto anche come “Winyan”, altra traslitterazione di win-yaan– termine che, come abbiamo già visto in precedenza, significa “spirito”.
Entrambi, il titolo originale e quello in inglese, hanno comunque in sé qualcosa di morboso, insinuano un malessere che non potrà che acuirsi durante la visione, perlomeno in concomitanza con la seconda parte. “Tropical Malady” a mio avviso è ben più oscuro di “Lo zio Boonmee...”, sebbene in entrambi si veda la mano lieve, soave del regista, a detta di molti il suo vero marchio di fabbrica.
Nei suoi film si parla di fantasmi, sì, ma questo non significa che essi vogliano generare paura o soggezione, e se questo avviene è forse perché siamo noi a non essere avvezzi a considerare gli spiriti come qualcosa di naturale, facente parte di un mondo parallelo e contiguo al nostro e in grado talora di venirne in contatto. Quando in una scena uno dei due personaggi principali menziona quasi casualmente la visita, avvenuta tempo prima, di un suo zio in grado di ricordare le sue vite precedenti, scopriamo anche che “Tropical Malady” e “Lo zio Boonmee...” sono collegati: il primo contiene, in un certo senso, già il germe del secondo che sarà girato solo sei anni più tardi sebbene sia cronologicamente precedente (l’attore Sakda Kaewbuadee ricopre infatti lo stesso ruolo, quello di Tong, in entrambi i film).

Tropical Malady” è diviso in due parti ben distinte, delle quali solo la prima è ambientata in un contesto (in parte urbano e in parte no) riconoscibile, “normale”. La seconda è un’immersione totale nella natura, ma non quella muta e in qualche modo addomesticata a cui siamo abituati: è una natura metafisica nella quale il confine fra ciò che è materiale e ciò che immateriale, realtà e sogno, vita e morte non è affatto chiaro né scontato. La prima parte racconta alcuni momenti della storia d’amore fra Keng, un soldato, e il più giovane Tong, un ragazzo di campagna che lavora in una fabbrica di ghiaccio. Sono scene di una quotidianità rassicurante, istantanee di un amore vissuto alla luce del sole riprese in un momento qualsiasi del suo incedere. L'ordinario cessa, si frantuma quando il regista si concentra su Tong, e benché il significato di quelle scene sia sfuggente, esse sembrano suggerire che il ragazzo abbia una sorta di vita parallela, o forse un lato oscuro.

In una di queste scene, all’inizio del film, Tong è nudo in mezzo alla campagna (benché il fatto che sia proprio Tong quell’uomo appare chiaro solo in seguito). Un’altra, la più enigmatica, è quella che chiude la prima parte del film: Keng e Tong hanno trascorso la giornata assieme, arriva il momento di separarsi e i due ragazzi si accarezzano e baciano le mani a vicenda. Quello è il momento in cui Tong, fino ad allora il più riservato dei due, si lascia andare. Keng è palesemente scosso da quell’atto così erotico, quasi famelico, osserva Tong allontanarsi nel buio e solo dopo un po’ si riscuote e se ne va in sella al motorino. Da lì in poi l’atmosfera muta completamente.
Voci ricorrenti parlano di una bestia feroce che proprio in quei giorni starebbe uccidendo il bestiame e terrorizzando il villaggio. Cosa significa? C’è un legame fra Tong e la bestia misteriosa? La risposta è celata nella seconda parte del film, ispirata alla leggenda di uno stregone mutaforma khmer, dove nel folto della foresta gli stessi attori interpretano un cacciatore e un essere che ora ci appare come una tigre e ora come un uomo nudo ricoperto di simboli magici. La tigre è davvero uno spirito-animale, oppure è uno sciamano che passa dallo stadio umano a quello bestiale e viceversa? Conosce il cacciatore, o comunque sa qualcosa che questi non sa? La sicurezza dell’uomo-tigre contrapposta alla confusione del cacciatore sembra indicare che i due si trovano in due stadi di evoluzione spirituale diversi (eppure, anche l’uomo-tigre mostra talvolta smarrimento e dolore, la sua solitudine altrettanto concreta del folto della foresta).
Sorge spontanea anche un’altra domanda: chi sta cacciando chi? Man mano che il cacciatore procede nella giungla, reso folle dai misteriosi fenomeni che lo attorniano, e che la bestia si insinua nei sogni di Keng (o dell’uomo che fu, o sarà, Keng) anche questo aspetto si fa meno chiaro; sembra, anzi, che il concetto stesso di caccia perda d’importanza, o meglio che le parti fra inseguitore e inseguito tendano continuamente a invertirsi, come del resto capita anche in molte storie d’amore. Non è forse vero che l’essenza della schermaglia amorosa è il rincorrersi, fino a che gli amanti non si fermino e decidano quale direzione prendere assieme?
Questa è dunque una storia d’amore ripresa in due momenti diversi (non necessariamente nell’ordine mostrato nel film, ma la questione è irrilevante) che si ripete nella ruota karmica, oppure si tratta di due versioni alternative della stessa storia? Tante domande, forse troppe, e nessuna risposta.
Purtroppo (o per fortuna) quella risposta resta al di fuori nella nostra portata. Restano, per certo, le suggestioni di un film che va a fondo nella tradizione spirituale di un paese lontano da noi, ove l’oscurità della giungla è lo spazio limite delle nostre certezze, ove il vero e il falso perdono di consistenza e tendono a sovrapporsi, dove si può vivere fianco a fianco con i fantasmi nell’attesa di diventare noi stessi dei fantasmi, o che a farlo siano i nostri ricordi.

Apichatpong Weerasethakul: Primitive

Bangkok is not the end

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Bangkok Haunted (Bangkok Kill City, 2001)
Ed eccoci arrivati al capolinea. Quello che state per leggere è l’ultimo articolo dello speciale di aprile, quello in cui si suppone che io tiri le somme di quanto scritto e pubblicato nel corso del mese e dia appuntamento, a chi lo vorrà, al prossimo anno. Voglio innanzitutto ringraziare tutti coloro che hanno speso del tempo per seguirmi in questo ultimo mese e in particolare chi ha voluto lasciare un segno del suo passaggio. Voglio anche scusarmi con i blogger a me più prossimi, dai quali ultimamente ho latitato anche più del solito: vi voglio bene come sempre, è che proprio non mi riesce di fare due cose insieme. Se qualcuno mi chiedesse com’è andata, così sui due piedi non saprei cosa rispondere: possono il numero di visualizzazioni e commenti, da soli, decretare il successo (o l’insuccesso) di un progetto come questo? Credo di no, anche perché il lavoro fatto non si esaurisce con il post di oggi, ma sarà usufruibile da tutti coloro che, nei mesi e negli anni a venire, arriveranno qui attraverso i motori di ricerca. Comunque stiano le cose, è ormai tempo di voltare pagina.
A prescindere da come “Bangkok Haunted” sia stato recepito, posso però dire di essere abbastanza soddisfatto. Credo di aver fatto quanto di meglio potevo nel tempo a mia disposizione, e anche se sono consapevole che con un po’ più di calma il risultato finale sarebbe stato sensibilmente migliore, non voglio essere troppo severo con me stesso.
Addentrarmi nei meandri della lingua e soprattutto della filmografia tailandese, alla ricerca di titoli che nemmeno l’IMdB ha mai censito, è stato divertente, anche se molto faticoso (vi chiedo di credermi sulla parola anche se, di tutto questo lavoro di ricerca, voi avete visto ben poco). La mia idea iniziale era di sfruttare questo articolo conclusivo per parlare di Tailandia a trecentosessanta gradi, raggruppando tanti piccoli dettagli sul cinema o sul folclore che non mi è stato possibile approfondire nel breve spazio di un mese: il festival di Phi Ta Khon, o Festival degli Spiriti, il Phuket Vegetarian Festival, il Water Festival; la leggenda della dea del riso (il cereale!) Nang Phra Pho Sop; la mania per le Luuk Thep, le bambole-angelo che vengono “adottate” da famiglie o single dopo una cerimonia di attivazione, ehm, spirituale (una pratica tanto diffusa quando lucrosa, temo, con risvolti pratici che farebbero sorridere se non fossero agghiaccianti); qualche film di fantasmi “minore” meritevole almeno di una menzione. Addirittura, avevo pensato di inserire qui in chiusura un elenco di tutti i film in cui sono incappato durante la mia ricerca per lo speciale di aprile, lavoro che inevitabilmente sarebbe divenuto un perenne "work in progress", considerando quanti nuovi film di questo genere vengono prodotti in Tailandia ogni anno (proprio per questo alla fine ho abbandonato l’idea, a parte il fatto che c'è chi l'ha già fatto e probabilmente meglio di quanto potrei mai fare io). Eccetera, eccetera… 

LtoR; Bangkok Haunted 2 (2003); Bangkok Haunted 3 (2009); Bangkok Haunted 4 (2010)
Arrivato al dunque ho deciso di soprassedere non tanto perché sia stanco (anche), ma perché la mia avventura tailandese potrebbe avere un suo seguito. Prima o poi, ne sono sicuro, troverò il modo di riprendere in mano gli argomenti che qui ho solo accennato e ampliarli, e allo stesso tempo di continuare il mio viaggio in Oriente partendo magari per nuovi lidi. Non mi resta che concludere citando le innumerevoli fonti sulle quali ho basato le mie ricerche o che ho utilizzato anche solo per verificare nomi, date, luoghi e fatti. 
Ma prima di farlo vorrei spendere due parole sul franchise cinematografico che ha ispirato il titolo di questo speciale. Sarebbe infatti quanto meno irrispettoso se, dopo aver citato per un mese almeno un centinaio di film tailandesi di ogni epoca e genere, facessi finta di ignorare l’esistenza del ben più celebre “Bangkok Haunted”. Perché non l’ho fatto prima? Semplicemente perché non ho trovato il modo di farlo con criterio. 
La quadrilogia “Bangkok Haunted” è infatti uno di quegli innumerevoli tentativi di sfruttare il titolo di un film di successo (generalmente il capostipite) per rilanciare nuovi episodi che nella realtà sono completamente scollegati tra loro. Ne abbiamo visto qualche esempio anche nel corso di questo speciale, ma se dovessi fermarmi a rifletterci sopra sono certo che troverei numerosi altri casi, non necessariamente tailandesi e nemmeno necessariamente asiatici. 

Bangkok Haunted (Bangkok Kill City, 2001)
Ma concentriamoci sul capostipite "Bangkok Haunted" (“Bangkok Kill City”, 2001), un curioso film composto da tre episodi che, come nella migliore tradizione, sono uniti fra loro da un filo conduttore piuttosto sottile. Nella fattispecie si tratta di tre giovani donne che, sedute al tavolino di un bar di Bangkok, iniziano a raccontarsi storie di fantasmi.
Nulla di originale, se non l’ambientazione (di solito il meccanismo prevede che questi racconti funzionino meglio all’interno di vecchie ville isolate o attorno al fuoco di un campeggio).
Premetto che avevo già avuto modo di inciampare in "Bangkok Haunted" diversi anni fa, addirittura molto prima di aprire il blog, e che al termine della visione lo chiusi rapidamente nel mio cassetto dei film di merda. Non è certo perché il film nel tempo sia trasmutato come l’acqua a Cana che oggi sono qui a rivalutarlo: probabilmente sono solo io a guardarlo con occhi diversi, e non necessariamente migliori.
Nel primo episodio, Legend of the Drum, diretto da Pisut Praesangeam, un antico tamburo finisce nelle mani di una giovane donna che dovrà scoprire il suo segreto prima che le cose prendano una brutta piega. Si tratta, per venire subito al sodo, di una rivisitazione del classico “La bella e la bestia” in salsa tailandese: la piccola orfanella Paga e il suo deforme fratello Gnod si giurano eterno amore (non solo fraterno, a quanto traspare). Le cose vanno a rotoli quando sula scena irrompe un terzo incomodo, il giovane e piacente Fond che inevitabilmente ruba il cuore a Paga, scatenando la gelosia del fratello. Un episodio eccellente, con uno stile di regia unico, una fotografia di prim’ordine e una colonna sonora in grado di evocare le giuste atmosfere.
Ancora Pisut Praesangeamè al timone del secondo episodio (Black Magic Woman) che, come ho già accennato qualche giorno fa, giudico il meno riuscito del lotto. La giovane Pam apprende dalla sua vicina di casa dell’esistenza di un olio che rende irresistibili, e che scopriamo essere realizzato con il sangue di donne uccise appositamente per realizzare la preziosa pozione. La lezione che se ne trae è, molto banalmente, che ogni cosa ha il suo prezzo da pagare.
In ultimo c’è la storia di un detective della polizia (Revenge) alle prese con un caso di suicidio piuttosto sospetto, quello di una donna trovata impiccata in uno scenario che trasuda di contraddizioni. Nonostante i suoi superiori cerchino di archiviare alla svelta il caso, il protagonista giungerà alla soluzione più incredibile. Nulla è quello che sembra, è il messaggio che Oxide Pang, alla regia di quest’ultimo episodio, cerca di trasmettere. Un episodio dalle atmosfere noir che avrebbe avuto sicuramente più fortuna se estrapolato dal contesto “Bangkok Haunted” (con cui c’entra poco o nulla) e che, Dio mi perdoni, se fosse stato strappato dalle mani di un Oxide Pang visibilmente annoiato e confuso.
La sorprendente chiusura della cornice narrativa del film, che la prima volta mi ero perso a causa di una sopraggiunta, invincibile sonnolenza, vale comunque da sola il prezzo del biglietto.

LtoR; The Unborn (2003); Haunted Universities (2009); The Child’s Eye (2010)
Dicevamo poco fa di quella curiosa abitudine di voler sfruttare un titolo di successo per replicare gli stessi risultati al botteghino. In questo caso i tre sequel accreditati di Bangkok Haunted sono davvero fuori da ogni logica, non tanto perché qualitativamente insignificanti rispetto al primo o perché fuori contesto, quanto perché avrebbero potuto benissimo vivere di vita propria senza questo inspiegabile sotterfugio. Da parte mia non sono nemmeno riuscito a spiegarmi il motivo per cui tre film usciti nelle sale con un proprio titolo, a un certo punto e per misteriosi motivi legati alla distribuzione, si siano trasformati in “Bankgok Haunted 2, 3 e 4”.
Il primo dei sequel lo abbiamo già incontrato solo qualche giorno fa parlando del Kuman Tong: si tratta di “The Unborn” (2003) di Bhandit Thongdee, ve lo ricordate? Un film che aveva la sua ragion d’essere nel contesto che abbiamo già descritto e che non avrebbe avuto bisogno di venire spacciato inspiegabilmente per un “Bankgok Haunted 2”.
Stessa sorte per Mahalai sayongkwan (Haunted Universities, 2009), improvvisamente mutato in “Bankgok Haunted 3”. Un film, quest’ultimo, abbastanza superfluo, se non fosse per i corposi riferimenti al massacro avvenuto il 6 ottobre 1976 presso l'Università Thammasat, una delle pagine più nere della storia del paese asiatico.
Piccola digressione. In quell’occasione, giusto per la cronaca, alcuni gruppi paramilitari di estrema destra uccisero barbaramente un centinaio di studenti che manifestavano contro il rientro dall’esilio dell’ex dittatore Thanom Kittikachorn. Fu una carneficina: anche gli studenti che infine si arresero furono violentati, impiccati, mutilati o bruciati vivi. Un massacro di cui non si è mai parlato molto, anche perché il giorno stesso del massacro una giunta controllata dai militari si impadronì del potere con un colpo di stato e mise in moto una durissima macchina di repressione che sarebbe durata per mesi. Fine della digressione.
Ancora più inspiegabile è la scelta di riciclare come “Bankgok Haunted 4” un film girato (in 3D!) nel 2010 dai fratelli Oxide e Danny Pang: Tung ngaan (The Child’s Eye, 2010). Inspiegabile perché i Pang Bros all’epoca erano già un marchio di fabbrica perfettamente riconoscibile e, benché pare che non facciano altro che rifare lo stesso film all’infinito, ogni loro nuova release è una calamita irresistibile per gli appassionati del genere. La trama di “The Child’s eye”? Potete ignorarla e sopravvivere lo stesso.

A questo punto credo sia tutto. A partire dalla prossima settimana si tornerà alla solita programmazione random del blog, molto più rilassata e, in linea di massima, vincolata prevalentemente al mio umore quotidiano. Anche il mio piccolo debito verso chi prima di me aveva pensato al titolo “Bangkok Haunted” è stato saldato, spero. Non rimane altro da fare se non mettere la parola fine a questo speciale. Fine. Ecco qua.
Anzi, no. Fermi tutti. Prima di voltare definitivamente pagina lasciatemi citare solo alcune delle innumerevoli fonti alle quali ho attinto per realizzare questo speciale. Non sono certo di ricordarmele tutte, ma ci provo.
Oltre naturalmente ai classici Wikipedia e IMdB, ci tenevo a citare il fondamentale Thai World View, per l'enorme database cinematografico, il sito Thai Movie Blog, per i numerosi collegamenti, e i preziosissimi canali Thai MovieThai Classic Movie. Diversi sono i blog che ho visitato e che, al momento, mi è difficile ricordare. Cito così sui due piedi Thai Film Journal e Joy in Thailand. Se me ne varranno in mente altri aggiornerò questa sezione. Per il lungo lavoro di traslitterazione mi sono rifatto all'articoloA folk taxonomy of terms for ghosts and spirits in Thai” di Manasikarn Hengsuwan e Amara Prasithrathsint, rispettivamente Docente della facoltà di Scienze dell’Educazione e Professore Emerito del Dipartimento di Linguistica presso l’Università Chulalongkorn di Bangkok (Manusya, Journal of Humanities).
Ma la vera chiave, senza la quale orientarmi nei meandri del Paese del Sorriso sarebbe stato molto più complesso, è un libro nel quale sono incappato per caso diversi anni fa: si tratta di “Mae Nak Donne vampiro e spiriti famelici dal lontano Oriente” di Alessandra Campoli (edito da Exorma). È stato grazie a questo piccolo libro (piccolo per le sue dimensioni, non certo per il contenuto) se ho compreso quanto la Tailandia abbia da offrire in termini di folclore. Lo speciale che si conclude oggi deve inevitabilmente molto alla lettura di quel saggio e, se ancora non siete stanchi, o se vi viene la voglia di proseguire da soli questo "Viaggio nella Tailandia spettrale", il mio consiglio è di affidarvi a quelle incredibili pagine. Qui.

Traditi dalla fretta #2

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Lasciato rapidamente alle spalle il mese di aprile, con tutto ciò che esso ha portato e comportato, è giunto finalmente il momento di ripristinare il blog alla sua forma più consona, quella abituale che voi tutti conoscete e alla quale, consentitemi di ammetterlo, io sono più affezionato.
D'ora in avanti la frequenza di pubblicazione dei post tornerà a un livello più gestibile, sia per chi scrive sia (soprattutto) per chi legge, e troverò di conseguenza anche il tempo di dedicarmi ad attività diverse, non necessariamente legate al blog.
Non è un caso se poco fa ho scritto "finalmente": mettere in pratica un progetto del genere porta via una quantità impressionante di tempo e di risorse, specialmente quando si hanno da mettere in conto anche le insidie della vita che, neanche a farlo apposta, sembrano concentrarsi ogni anno nel mese di aprile. Il risultato di tutto ciò è che ancora una volta ho dovuto sacrificare quell'aspetto del blogging che ritengo essere tra i più importanti, vale a dire la comunicazione bidirezionale con i miei vicini di blog, la presenza nei social e tutte quelle cose che rendono questa avventura più divertente.
Quale miglior momento quindi per uscire con una nuova puntata di "Traditi dalla fretta"? A beneficio di coloro che non sanno ancora di cosa si tratta, posso semplificare il tutto dicendo che questa rubrica è una sorta di nodo al fazzoletto digitale, nella pratica la macchina del tempo che spero mi aiuti a recuperare il tempo perduto. L'idea di base l'ho ampiamente descritta nel "numero zero" introduttivo, mente la sua intelaiatura l'ho illustrata nel "numero uno". Non ci resta che procedere.

Articoli che vorrei/potrei/dovrei scrivere sul blog ma che ancora non ho scritto
CONFESSIONI DI UNA MASCHERA

Tu non sei umano. Sei un essere incapace di rapportarti col prossimo. Non sei nient'altro che un animale, inumano e in certo qual modo stranamente patetico. (Mishima)
Sono anni ormai che ho preso a prestito il volto di Yukio Mishima per realizzare quello che alcuni chiamano "Avatàr" (si dice ancora così?), ma nonostante ciò mi sono reso conto di non aver mai scritto molto sul celebre autore giapponese. Solo una volta, addirittura agli albori del blog, trovai la maniera di omaggiare colui da cui credo sia partita la mia passione per la letteratura giapponese, e lo feci con una grezza recensione di uno dei suoi racconti "minori" (Una stanza chiusa a chiave, ndr). Oggi, sei anni più tardi, mi chiedo se non sia il caso di dedicare un po' di spazio allo scrittore che, perlomeno in Occidente, è oggi più famoso per il suo seppuku che per le sue opere.
La domanda sembra banale, ma in questo caso è necessaria: come fare? Mettermi a scrivere recensioni dei suoi libri mi pare quasi una inutile forzatura. A chi può davvero interessare? Molto più interessante è forse partire dal personaggio Mishima, un uomo difficile e complesso, ossessionato dall'idea della morte, sia a livello personale che artistico, fino a giungere al sottoscritto blogger, anch'egli travolto da ossessioni di ogni tipo. Confessioni di una maschera potrebbe quindi diventare il titolo di una rubrica, nella quale la penna di Obsidian Mirror potrebbe tentare di scavare dentro di sé, alla ricerca del non detto, del non confessato. L'occasione dell'imminente cinquantesimo compleanno potrebbe essere la chiave.

Articoli sui blog degli altri che meritano attenzione
LA FEBBRE DEL NERO D'ANNATA

Tra le iniziative più interessanti sorte sui blog nelle ultime settimane spicca  nettamente quella dedicata al nero francese di inizio Novecento, ennesima proposta dell'instancabile Lucius Etruscus. Come scrive lo stesso Etruscus nel post introduttivo, "riviste economiche con narrativa d’intrattenimento sono sempre esistite, cambiano solo i nomi: dal penny dreadful e dime novel ottocenteschi si è passati al pulp di inizio Novecento, che ha un nome decisamente più d’effetto dello storico feuilleton francese, ma tutti questi sono semplici nomi di un’unica realtà: la voglia di milioni di lettori di essere intrattenuti con storie di ampio respiro e possibilmente a tinte forti. [...] Tutti i grandi scrittori che noi oggi chiamiamo “maestri” in realtà hanno scritto le loro opere pensando all’uscita a puntate e ad un pubblico di lettori che volevano essere intrattenuti, ma al fianco di opere ambiziose, che guardavano “in alto”, c’erano anche storie che guardavano “in basso”. Molto in basso."
Dopo una prima parentesi dedicata a L’étrange voyage!, ovvero a un viaggio avvincente attraverso gli avvenimenti che portarono Maurice Leblanc a far scontrare il suo alter ego criminale Arsenio Lupin con il re degli investigatori Sherlock Holmes (con buona pace di Conan Doyle e di tutti i sudditi della corona inglese), il buon Etrusco è partito con un'operazione di recupero di vecchi titoli che, seppur sporadicamente apparsi sulle colonne di vecchi quotidiani di inizio secolo, sono finiti seppelliti dietro la porta del dimenticatoio, evidentemente incapaci di destare interesse negli addetti ai lavori. "Scopo di questa rubrica - continua Lucius -è di presentare principalmente le storie dei neri signori del crimine che sono arrivati anche in Italia, agli inizi del Novecento, ma non mancheranno appuntamenti con una narrativa a puntate più “leggera”: sarà un’occasione per ricordare autori e personaggi ormai condannati all’oblio, autori che hanno tenuto con il fiato sospeso gli italiani del secolo scorso e che oggi rimangono giusto nelle citazioni di pochi appassionati." Il percorso, iniziato a fine marzo con un rarissimo Gaston Leroux, continua ogni venerdì su Non quel Marlowe sotto l'etichetta Pulp.

Film che ho visto e i cui contenuti vorrei/potrei/dovrei condividere sul blog
L'ONDA (DIE WELLE)

Una generazione dopo l'altra si daranno il cambio nello svolgimento dei compiti, e ci sarà sempre una nuova gioventù ad affacciarsi alla ribalta di questa città e di questo paese. E sarà una gioventù sempre più forte, più robusta e più sana, capace di dare a quelle che l'hanno preceduta e che sono ancora in vita speranze sempre maggiori. (Adolf Hitler, 1936)
Stupiti della citazione che avete letto? State pensando forse che io sia impazzito? Nulla di tutto ciò, non vi preoccupate. E allora perché?
Sarà forse per via della ricorrenza del 25 aprile appena trascorsa che si è portata ancora una volta appresso le solite polemiche e le classiche manifestazioni e contromanifestazioni, provocazioni e controprovocazioni. Qui a Milano sono stati un migliaio i militanti di destra che si sono dati appuntamento al cimitero di Musocco, rievocando gesti e gesta sulle tombe dei morti della RSI. Non voglio entrare nel merito, essendo questo blog dichiaratamente apartitico e apolitico, ma bisognerebbe forse tenerne conto.
Non è nemmeno un caso che in questi ultimi giorni lo schermo del mio televisore abbia lasciato scorrere le immagini di questo piccolo ma geniale film di Dennis Gansel. La domanda che si pone questo film tedesco di una decina di anni fa è molto semplice: dopo aver sperimentato gli orrori del nazismo, è possibile ipotizzare che una nuova dittatura possa instaurarsi, ancora oggi, nella moderna Germania? Questa umanità riesce a far tesoro del proprio passato oppure gli eventi storici sono destinati ciclicamente a ripetersi? Tratto dal romanzo omonimo di Todd Strasser, a sua volta basato su un esperimento sociale avvenuto nel 1967 in California, L'onda (Die Welle, 2008) consente molto più di una riflessione e credo che tra non molto finiremo per parlarne. Voi intanto pensateci sopra e provate a darvi una risposta.

Musica, mostre, spettacoli, eventi, concorsi e tutto ciò che è condivisibile sul blog
LA COSA MARRONE CHIARO

Ero indeciso sotto quale categoria inserire questo paragrafo, ma alla fine la mia scelta è ricaduta su "Eventi". Da una parte perché esattamente una settimana fa è andata in scena la presentazione di questo libro (presso la ormai nota sede reggiana della Miskatonic University, ndr), dall'altra perché non può che definirsi evento la pubblicazione in cartaceo di uno dei testi che davvero hanno fatto la storia della letteratura horror. Pubblicato originariamente nel febbraio 1971 tra le pagine della rivista The Magazine of Fantasy and Science Fiction, "The Pale Brown Thing"è nella pratica la prima stesura di uno dei romanzi più celebri dello scrittore statunitense, "Nostra signora delle tenebre" (Our Lady of Darkness, 1977).
Per merito della casa editrice Cliquot, di cui abbiamo parlato ampiamente tempo fa con uno dei suoi ideatori, tornano quindi a terrorizzarci su carta i "paramentali", esseri mostruosi e infidi il cui habitat naturale sono le moderne megalopoli come San Francisco, tra i cui grattacieli è ambientato il romanzo. Stabilire a priori se sia meglio "La cosa marrone chiaro" o la sua versione estesa è un argomento di discussione affascinante, ma direi che, considerando che "Nostra signora delle tenebre" non viene ristampato in Italia ormai da quasi quarant'anni, forse la risposta è già servita. L'antologia include però anche sette racconti di Fritz Leiber assolutamente inediti in Italia: “La villa del ragno” (“Spider Mansion”, Weird Tales 1942); “Il signor Bauer e gli atomi” (“Mr Bauer and the Atoms”, Weird Tales, 1946); “Qualcuno urlò: strega!” (“Cry Witch!”, 10 Story Fantasy, 1951); “Il demone del cofanetto” (“The Casket-Demon”, Fantastic Stories of Imagination, 1963); “Richmond, fine settembre, 1849” (“Richmond, late September, 1849″, Fantastic, 1969); “Fantasie paurose” (“Horrible Imaginings”, Death, 1982) e “Il nero ha il suo fascino” (“Black has its Charms”, Whispers, 1984).

Segnalazioni, divagazioni, varie ed eventuali
IL RACCONTO COLLETTIVO DI RiLL

Dopo quasi 25 anni passati a cercare nuovi (e bravi) autori che scrivono letteratura fantastica, i tipi di RiLL (Riflessi di Luce Lunare) hanno pensato di farli lavorare assieme per scrivere una storia collettiva, che verrà diffusa gratuitamente a puntate, con cadenza settimanale, da oggi 5 maggio sino a metà giugno. Il progetto parte dai primi tre capitoli del racconto di fantascienza "Corrispondenze", di Massimiliano Malerba, pubblicato nella sua personale antologia "L'ostinato silenzio delle stelle", un racconto che è stato proposto di continuare ad alcuni autori (scelti fra quelli che più spesso sono stati premiati in passato nei concorsi RiLL). Hanno risposto all'invito in sei: Francesca Garello, Luigina Sgarro, Emiliano Angelini, Davide Camparsi, Enrico Di Addario e Andrea Viscusi.
Gli autori partecipanti sono stati disposti in sequenza, e chiamati a scrivere uno dopo l'altro i capitoli dal 4 al 9 del racconto collettivo. La cura generale dell'esperimento è stata affidata ai RiLLini Alberto Panicucci e Francesco Ruffino e a Massimiliano Malerba, che ha poi tirato le fila e concluso la storia, scrivendo il capitolo 10. Il risultato è un racconto del tutto diverso dall'originale, che RiLL propone in questi giorni, poco dopo il “lancio” del nuovo sito di RiLL, inviandolo a puntate agli interessati. Tutti i dettagli sull'iniziativa sono qui, mentre i primi tre capitoli si possono leggere qui. Chi fosse curioso potrà iscriversi gratuitamente alla mailing list Racconto Collettivo (si fa dal sito, con form in home page; e/o scrivendo a info@rill.it e richiedendolo). Gli iscritti riceveranno gratuitamente un capitolo della storia (in formato PDF ed epub) su base settimanale.

Da zero a infinito

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Tutto iniziò [...] nella biblioteca del professor Kohen, il cuore pulsante della sua casa. La biblioteca era una stanza austera, poco luminosa, foderata da alte scaffalature in noce. [...] Edizioni rare, curiosità del mondo letterario, riviste esaurite in pochi numeri e ignote anche ai lettori più attenti. [...] Tra essi, il pezzo forte erano i libri della collana «Uroboros», la serie di pubblicazioni più interessanti che il professore possedesse nella loro completezza. Si trattava di una sessantina scarsa di titoli, mai più ristampati, usciti a Parigi per i tipi delle scomparse edizioni «Keter» a cavallo tra il 1946 e il 1965. [...] Le pagine di «Uroboros», rappresentavano un laboratorio di idee nel quale la saggistica e la narrativa più eccentrica trovavano un’adeguata cornice. Molto tempo e molto denaro erano occorsi per ricostruire pezzo dopo pezzo, questo arabesco della cultura del Novecento. Lui c’era riuscito e ne andava fiero. Fu una sorpresa tutt’altro che gradita quindi ricevere la notizia portata da Myriam insieme alla dannazione che implicitamente questa accompagnava. Esisteva un numero «0» che aveva preceduto verso la fine del 1945 la serie regolare conosciuta.
Da zero a infinito. Zero come il tempo che mi è bastato per capire che questo testo, recensito in ogni dove sul finire dello scorso anno, faceva al caso mio. Infinito come il tempo che ho impiegato, tra un impegno e l'altro, a intraprendere questa avventura in quindici tappe che Fabio Lastrucci ha pianificato per me e per tutti i suoi lettori.

Un volume che si legge abbastanza in fretta, nonostante le 170 pagine virtuali nelle quali la versione ebook, almeno secondo il misterioso metodo di calcolo di Amazon, viene proposta. Tutto ciò si deve ovviamente allo stile di Fabio, che è riuscito a rendere meravigliosamente scorrevole un testo anche là dove le mie difficoltà con i termini dialettali sono solite incagliarsi.
Quindici racconti precedentemente apparsi su Fata Morgana e Alia tra il 2002 e il 2014 e per la prima volta qui riuniti in un'antologia; racconti nei quali la fanno da padrone le più improbabili creature, che, come sottolinea il buon Massimo Citi nell'introduzione, sono "incerte, perplesse, obbligate a misurarsi con la propria natura – ferina o metodica, rabbiosa o malinconica – e sforzarsi di immaginare un mondo privo di un'umanità chiassosa e impudica.".

Tre mondi (Escher, 1955)
È il caso del cane protagonista di "Specchi e confini", uno dei racconti a mio parere più riusciti di questa raccolta. "Si drizzò a sedere sulla strada prendendo corpo da un grosso imballo di computer. Quel cartone ondulato di colore marroncino si torse come un origami per formare rozzamente un torace. Quattro tronconi arrotolati costruirono le gambe, e la testa ripiegata sotto il busto si girò di scatto. Due pezzi di scotch saltarono scoprendo i buchi degli occhi. Sbucarono punte di graffe metalliche a mo’ di denti. [...] Una coda scese giù dalla schiena. Niente più di una cordicella sporca di terra che muoveva spontanea la sua voglia di scodinzolare.".
Un cartone animato, quindi, ma non nel senso tradizionale del termine. Il cane di cartone è il simbolo di un'umanità ormai allo sbando, che si trascina inevitabilmente verso la fine dei suoi giorni attraverso ciò che resta di un pianeta ogni giorno sempre più distratto. Un cane nato dagli scarti della civiltà, che ben rappresenta la solitudine dei derelitti e degli emarginati. Un cane che non è poi molto diverso dai tanti cani che nei mesi estivi vengono abbandonati lungo le autostrade, inevitabilmente destinati a fare i conti con un mondo che non è fatto per loro. L'immagine di un cane che non è nemmeno così diversa da quella di chi, più o meno coscientemente, più o meno volontariamente, si è trovato escluso dalle regole di questa società, abbandonandosi a uno stato di precarietà in cui solo l'istinto di sopravvivenza rimane, ultimo alleato, al suo fianco. L'ultimo alleato, un istinto primordiale, che un giorno potrà anch'esso venire sopraffatto. Non c'è nulla che lo possa impedire.
Le pagine di "Specchi e confini" abbondano di una tristezza infinita, ma anche di un'attualità disarmante. Difficile non immedesimarsi nel cane di cartone: il suo stesso essere "di cartone" lo rende fragile, vulnerabile a qualsiasi avversità della vita. Avvenimenti per noi apparentemente banali, come la pioggia, sono fatali per chi è fatto di cartone. Non ce ne accorgiamo, o forse non vogliamo accorgercene, ma là fuori il mondo è pieno di cartone bagnato del quale non sappiamo più che farcene. Non ce ne accorgiamo, o forse non ce ne vogliamo accorgere, ma noi stessi siamo fatti di cartone e le previsioni del tempo, là oltre il vetro della finestra, non promettono niente di buono.

Numerosi risvolti sociali sono offerti anche dal racconto "DB", ovvero "DeadBook", altro episodio esemplare di questa raccolta. "Come da copione, mi registrai in una sera piovigginosa di ottobre sbattendomene dei rischi penali. I rischi psicologici non li considerai, e invece avrei dovuto. DB spalancò le braccia aprendomi il proprio immenso registro. Ci cascai. Solo allora mi resi conto dell’ampiezza di quei corridoi infiniti, della loro mostruosità [...] Avanzavo a tentoni, senza un indizio, una guida. Mi ero perduto come gli altri folli dentro al database dell’aldilà.".
Il concetto non è nuovo e anch'io, nel mio piccolo, ne sono un diretto, involontario, testimone. Da qualche parte ho letto che sulla sola piattaforma Facebook esistono oltre trenta milioni di morti il cui profilo è tuttora attivo. È la nostra assicurazione sulla vita, nel senso che il network assicura la sopravvivenza di una parte piuttosto importante di noi, quella impalpabile fatta di bit e di byte. È in buona sostanza il nuovo metodo per affrontare il lutto nel ventunesimo secolo: poter continuare ad interagire con i defunti, superando i limiti della fisicità, anche lasciando un semplice commento su un profilo in disuso. È la cultura del cordoglio che è cambiata senza quasi che ce ne accorgessimo. Abbiamo svuotato i cimiteri e abbiamo riempito il web. In fondo a cosa servono i cimiteri, visto e considerato che la nostra presenza nella vita degli altri è prevalentemente digital? I cimiteri, lasciatemelo dire, non sono abbastanza social: non sono altro che distese di terra sotto le quali vengono sistemate delle ossa. Molto meglio interagire (sì, ho detto interagire) altrove. Naturalmente stando bene attenti a non finire in un racconto di Fabio Lastrucci, dove l'improvviso successo di Deadbook provoca controindicazioni piuttosto spiacevoli, sebbene tutt'altro che inattese.

Drago (Escher, 1952)
Sebbene piuttosto diversi, i due racconti appena citati hanno diversi punti in comune, primo fra tutti quello di attirare l'attenzione sulla nostra... disattenzione. Ma tutti e quindici sono racconti attraverso i quali i concetti di realtà e di fantastico si mescolano sapientemente, offrendo al lettore numerosi spunti su cui riflettere, come nel caso de "Il paradosso G", nel quale, attraverso l’oggettività di un processo matematico, è possibile dimostrare la realtà fisica del Maligno.
Potrei stare qui delle ore a raccontare di questa antologia, ma lo spazio a mia disposizione non è infinito e, soprattutto, temo di finire per annoiare chi si è preso la briga di leggere sin qui. In rete si trovano decine di altre blog-recensioni, per cui il mio invito è quello di provare a cercarle, anche perché (e questo a mio parere è un fatto piuttosto singolare), la maggior parte dei miei colleghi blogger si è focalizzata su tutt'altri aspetti e tutt'altri racconti. Prova, questa, della ricchezza di "Da zero a infinito".
Solo due ultime parole sul racconto che dà il titolo all'antologia, e di cui un breve stralcio ho riportato in apertura: non è certo un mistero che temi come la "biblio-archelogia" (o la "pseudo-biblio-archeologia") sono fra quelli che ritengo essere più affascinanti, così come non è un mistero che lo siano anche per molti lettori del mio blog.
Il racconto in questione è ovviamente molto di più della cronaca della ricerca di un dimenticato "Uroboros numero zero". Il titolo della pseudo-rivista è ovviamente la chiave: il “serpens qui caudam devorat”, simbolo esoterico che rappresenta la natura ciclica di tutte le cose, è lo specchio della nostra evoluzione che si chiude su sé stessa, dopo un periodo involutivo di cui magari non ci rendiamo nemmeno conto. L'eterno ritorno di tutte le cose, l'eterna rinascita di miti quali il Minotauro o il Licantropo (protagonisti involontari di altri due racconti di Lastrucci), i percorsi compiuti dalle civiltà del passato, delle quali oggi ci rimangono solo piccoli frammenti, le espressioni sociali ricorrenti, sono tutti indizi dell'ineluttabilità del nostro destino. E non serve essere credenti per sostenerlo. 

Orizzonti del reale (Pt.14)

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LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Non è possibile leggere senza pregiudizi il saggio di Allegro senza accettare la sua più importante premessa, ovvero che Geova/Yahweh fosse a tutti gli effetti un dio della fertilità: eppure questo mi sembra l’unico dato davvero incontestabile, benché difficile da accettare per il credente. Nella Bibbia non c'è traccia di evoluzione da un pantheon di dèi a un unico dio, anzi tecnicamente non si parla affatto di Dio, nel senso che il significato del termine ebraico tradotto con la parola Dio, Elohim, è ancora dibattuto (e fra l'altro, quella forma è plurale: al singolare è Eloah).
La concezione darwiniana in base alla quale con lo sviluppo di intelligenza e progresso l'uomo avrebbe sperimentato una sorta di “rivelazione” che lo avrebbe convertito al monoteismo non è un fatto assodato, ma una teoria. Lo stesso buon senso ci dice che non sempre ciò che viene dopo è migliore di ciò che lo ha preceduto. Siamo sempre stati portati a credere che la Bibbia mostri la contrapposizione fra un culto monoteistico e uno politeistico: quei racconti potrebbero invece, molto più semplicemente, riflettere la lotta religiosa dei conservatori contro una deriva o un possibile sviluppo esoterico della loro stessa religione, cosa che, del resto, in quell'area geografica sembra accadere ininterrottamente dalla notte dei tempi.

Nel periodo storico che secondo i Vangeli vide la nascita di Gesù gli ebrei erano assoggettati all'Impero Romano e al loro interno c'erano profonde differenze nel modo di rapportarsi all'autorità politica (e fiscale) romana e alla cultura di stampo ellenistico che questa rappresentava. Le sette ebraiche esistenti erano di certo numerose, ma molte di queste erano probabilmente sparuti gruppi di individui senza una vera organizzazione, il cui ricordo proprio per questo motivo svanì presto dalla memoria: ne conosciamo però bene almeno quattro: i più moderati, e i più benestanti, erano i Sadducei; i Farisei erano bene o male integrati nel tessuto sociale, ma erano meno accomodanti verso l'autorità e cercavano di riaffermare l'identità ebraica osservando alla lettera la legge mosaica, nella speranza che porre un freno alla decadenza morale del popolo ebraico ne avrebbe rovesciato anche le sorti; gli Esseni scelsero invece di ritirarsi dal mondo perché convinti che la sua corruzione li avrebbe trascinati con sé, e vivevano in totale ascetismo in vere e proprie “comuni” nel deserto; gli Zeloti (che Allegro identifica nella setta degli Assassini) erano i più estremisti, credevano che solo la forza li avrebbe liberati dal giogo romano e condussero disperate ribellioni represse nel sangue: dopo la seconda distruzione del Tempio di Gerusalemme, la loro storia si concluse con un suicidio collettivo durante l'assedio di Masada del 73 d.C..

Per il motivo già accennato in precedenza sono gli Esseni a interessarci in modo particolare. Oggi si tende perlopiù a considerare Gesù come appartenente alla setta dei Nazirei, come Giovanni Battista. Tuttavia, quel Messia menzionato nei Rotoli del Mar Morto, riconducibile alla figura di Gesù ma vissuto un'ottantina di anni prima di lui, apparteneva proprio alla comunità essena.
Secondo quanto riportato da Giuseppe Flavio, gli Esseni credevano che il corpo fosse corruttibile, ma che l'anima invece fosse immortale e che fosse legata alla prigione del corpo da una sorta di “incantesimo naturale” dal quale un altro tipo di incantesimo poteva separarla. Questo avveniva tramite l'ascetismo, il digiuno e anche, presumibilmente, l'uso di droghe. Le sostanze psicoattive del fungo potevano dare l'illusione di uscire dalla propria pelle, sperimentando una sorta di morte con successiva rinascita. Una vittoria, anche se solo spirituale, sulla morte stessa, che getta nuova luce sull'atto di attraversare la “valle delle ombre della morte” menzionata nei Salmi (Salmi 23:4). Quel passo che recita più o meno “Io non temerei male alcuno, perché tu sei con me”, e che dovrebbe esprimere il desiderio che lo Spirito divino ci aiuti a superare l'angoscia della morte per mezzo della promessa di resurrezione, secondo Allegro, che ne contesta la traduzione dal semitico, esprime invece il desiderio del mistico di essere accompagnato dal dio nella sua esperienza di rinascita. Gli Esseni cioè non mangiavano il proprio dio per onorarne la memoria, ma per essere “crocifissi” e “unti” con lui, per morire e risorgere con lui e partecipare così virtualmente al processo creativo divino.
L'esperienza estatica allo stesso tempo consentiva loro di parlare con i defunti, ovvero esercitare quella che ritenevano la vera via per l'illuminazione: la necromanzia. La “prova” o “tentazione” dell'iniziato (esemplificata nei Vangeli dal periodo trascorso da Gesù nel deserto) era la preparazione al mistero, quei giorni in cui il suo spirito e il suo corpo dovevano essere fortificati prima di poterlo ricevere.

Con tutte le stranezze e i termini ambigui che li circondavano non stupisce che alcuni cronisti dell'epoca, come Svetonio, definissero gli Esseni come in preda a una “superstizione perversa”, né che coloro che erano estranei al loro culto li chiamassero “cannibali”. L'identificazione della Babilonia dell'Apocalisse con Roma e le immagini di fuoco e fiamme della visione di Giovanni possono aver portato alla convinzione, mai provata, che fossero stati i Cristiani a incendiare Roma, contribuendo alla loro persecuzione in seno all'impero.
L'antico culto della fertilità degli Israeliti con al centro il “pene celeste”, divenuto sommerso dopo le fallimentari ribellioni contro gli Assiri e i Babilonesi dell'Ottavo e Sesto secolo a.C., era riapparso solo fra il primo e il secondo secolo. Esso era destinato a cadere di nuovo nell'oblio, ma prima che ciò avvenisse coloro che ne conoscevano il mistero avevano già disseminato in lungo e in largo nei propri testi sacri riferimenti all'immaginario fungino e vari nomi segreti del fungo.
Al tempo degli Esseni, l'antico culto era ormai divenuto una religione misterica molto sofisticata, che (come appena visto) per sua natura poteva generare un certo estremismo, e il cui scopo era la salvezza individuale. In questa visione religiosa non c'era posto per discorsi universali sull'amore e sulla misericordia: ogni persona era tenuta a intraprendere la propria strada verso la comunione con il dio, ma questo cammino non era destinato a tutti e la sua purezza doveva essere preservata con la segretezza. È esattamente la stessa mentalità che ha generato l'esortazione evangelica a non gettare “le perle [dinanzi] ai porci” (Matteo, 7, 6).
Gli Gnostici furono, fra gli eredi naturali degli Esseni, quelli forse più vicini al loro spirito. Come gli Esseni, gli Gnostici erano asceti che mortificavano la carne e tenevano viva una tradizione accordatagli tramite rivelazione dal loro dio, che comprendeva i nomi e i simboli dei sette Demoni o Angeli che avrebbero potuto facilitare, oppure sbarrar loro, la strada per il Regno di Luce. Come gli Esseni, si ritenevano gli eredi legittimi dei primi Cristiani. Entro il secondo secolo scomparvero e lasciarono il posto ai Manichei, ma molte delle loro idee gli sopravvissero perlomeno fino al quarto-quinto secolo. 
In seno a una realtà così complessa, venne il momento in cui gli estremisti ultra-ortodossi, tacciati come “eretici” ed emarginati, si ritirarono nel deserto, dove, a poco a poco, dimenticarono. Dimenticarono chi erano, dimenticarono le loro origini, dimenticarono soprattutto chi era il loro vero dio. Cominciarono a credere in quelle storie che, inizialmente, erano state concepite soltanto per tramandare i propri misteri al riparo dagli occhi profani dei loro persecutori Giudei e Romani. Il nucleo del Cristianesimo odierno era nato e il dio-fungo, irrimediabilmente sconfitto, cadeva nell'oblio.
CONTINUA


Oggetti, umane finzioni

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René Magritte, I valori personali, 1952, olio su tela
Quello di oggi è il terzo post che scrivo per aderire al progetto dei "vasi comunicanti" della collega blogger Cristina de "Il Manoscritto del Cavaliere". Per chi ancora non lo sapesse, si tratta di scegliere un elemento che, a insindacabile giudizio dell’ideatrice dell’iniziativa, possa fungere da filo conduttore tra opere d’arte diverse fra loro, in questo caso un libro (prosa o poesia) e una rappresentazione grafica (un dipinto, ma non necessariamente). In precedenza quell’elemento è stato un paesaggio artificiale e prima ancora un paesaggio naturale, nel qual caso la sfida è consistita nel trovare un libro in cui un paesaggio del tipo indicato fosse centrale o in qualche modo importante per delinearne la trama, e poi un dipinto che lo rappresentasse al meglio, ma vi invito a scoprire quelli precedenti direttamente sul blog di Cristina.
Oggi invece quell’elemento è… semplicemente un oggetto, e questo rende l’esperimento particolarmente intrigante, perché le case e gli ambienti in cui tutti noi viviamo quotidianamente sono ricolmi di oggetti, e di conseguenza anche la letteratura è piena di descrizioni degli oggetti più disparati: oggetti di uso comune, oggetti insoliti, oggetti magici… La scelta è ampia e pertanto dovrebbe anche essere semplice, ma sappiamo bene che teoria e pratica sono due cose molto diverse. Per rendere le cose ancora più complesse, Cristina ha scelto quattro oggetti uniti tra loro dal fatto di essere in qualche modo legati al corpo umano, e in particolar modo al viso. Un suo secondo post, uscito proprio sabato scorso, è stato invece dedicato ai giochi, intesi sia come oggetti che come intrattenimenti. Anche i miei tre oggetti hanno un legame, che vi lascio scoprire da soli e che svelerò solo alla fine del post. Per quando riguarda l’aspetto letterario, la mia scelta è ricaduta su un racconto e due romanzi vintage (uno dei quali è in realtà un romanzo breve), che vi presento in rigoroso ordine cronologico. Come sempre, invece, i dipinti prescelti sono quelli che mi trasmettono sensazioni il più possibile affini a quelle sperimentate durante la lettura delle opere, e non necessariamente quelli in cui gli oggetti appaiono più aderenti a come sono descritti. 

1. La statua 

Il racconto “La venere d’Ille” (La Vénus d’Ille) fu pubblicato da Prosper Mérimée nel 1837 e una sua traduzione è inclusa nella raccolta “Carmen e altri racconti” edita da Einaudi (la stessa che possiedo io, che però è piuttosto datata e tradotta in un italiano un po’ più arcaico delle varie versioni reperibili in rete, come vedrete). 
La venere del titolo è una statua di rame, un prezioso reperto ritrovato da Monsieur de Peyrehorade nei pressi della città d’Ille. La vicenda è narrata in prima persona da un artista, cui un amico ha raccomandato de Peyrehorade per farsi mostrare le rovine e i monumenti nei dintorni d’Ille, e che piomba in casa del suo ospite proprio quando il matrimonio di suo figlio Alphonse è imminente. De Peyrehorade però è un ospite perfetto e non solo non si mostra infastidito da quell’estraneo che fa la sua comparsa in un momento così importante, ma addirittura lo invita a partecipare alla festa di nozze e si appresta subito a mostrargli la sua straordinaria scoperta che è, appunto, una statua di Venere. Il primo incontro ravvicinato del narratore con la statua è già foriero di oscuri presagi: 
Era proprio una Venere, e d’una bellezza meravigliosa. Aveva la parte superiore del corpo nuda, come gli antichi rappresentavano abitualmente le grandi divinità; la mano destra, levata all’altezza del seno, era rivolta con la palma in dentro, il pollice e le due dita vicine distese, le altre due dita leggermente piegate. L’altra mano, accosto al fianco, reggeva il drappeggio che copriva la parte inferiore del corpo. L’atteggiamento della statua ricordava quello del Giocatore di morra, che, non so bene perché, si suol designare col nome di Germanico. Forse avevano voluto raffigurare la dea mentre giocava alla morra. […] La capigliatura, rialzata sulla fronte, pareva essere stata un tempo dorata. La testa, piccola come in quasi tutte le statue greche, era leggermente inclinata in avanti. Quanto al volto, non potrei mai riuscire ad esprimere lo strano carattere, che non si accostava ad alcun tipo di statua antica ch’io possa ricordare. Non si trattava affatto di quella calma e severa bellezza degli scultori greci che, sistematicamente, davano ad ogni tratto una maestosa immobilità. Al contrario qui osservavo con sorpresa l’intenzione palese dell’artista di rendere la malizia, giungendo quasi alla cattiveria. Tutti i lineamenti erano leggermente contratti: gli occhi un po’ obliqui, le labbra rialzate agli angoli, le narici un po’ dilatate. Disprezzo, ironia, crudeltà, si leggevano su quel volto che pure era di una bellezza incredibile. In verità, più si guardava quell’ammirevole statua, e più si aveva il sentimento penoso che una tale meravigliosa bellezza avesse potuto unirsi all’assenza di ogni sensibilità. [...] Quell’espressione d’ironia infernale era forse accresciuta dal contrasto degli occhi incrostati d’argento e assai splendenti, con la patina di un verde nerastro che il tempo aveva dato all’intera statua. Quegli occhi splendenti davano una certa illusione che ricordava la realtà, la vita. Ripensai a quel che m’aveva detto la mia guida, che essa faceva abbassar gli occhi a chi la guardava. Era quasi vero, e io non potei difendermi da un moto di collera verso me stesso sentendomi un poco a disagio dinanzi a quel volto di bronzo. 

René Magritte, La memoria, 1948, olio su tela
Quella “malizia” che sfiora la “cattiveria” viene sintetizzata da Monsieur de Peyrehorade con il motto Veneris nec praemia noris: chi non è stato ferito da Venere? Ne farà le spese il giovane Alphonse, che durante una partita di tamburello ha la malaugurata idea di infilare l’anello di diamanti destinato alla sua promessa sposa all’anulare della statua. In seguito, la Venere sembra restia a restituire quanto le è stato dato… «È una fiaba!» gli dissi. «Avete spinto con troppa forza l’anello nel dito. Domani lo riavrete usando le tenaglie. Ma state attento a non rovinare la statua.» «No, vi dico. Il dito della Venere s’è ritirato, sé ripiegato; chiude la mano, capite?… È mia moglie, a quanto sembra, poiché le ho regalato il mio anello... Non lo vuole più restituire.» 
“La venere d’Ille” fu adattato per la tivù nel 1981 nell’ambito di una miniserie in 6 episodi dal titolo "I giochi del diavolo. Storie fantastiche dell'Ottocento”. Tutti gli episodi erano tratti da altrettanti racconti di genere fantastico dell'Ottocento, ma, almeno in questo caso, il legame fra il racconto di Mérimée e la sua trasposizione sembra piuttosto labile. L’unico dato degno di nota è la regia di Mario Bava (e la partecipazione di Daria Nicolodi nella parte di Clara, moglie di Alphonse… pardon, di Alfonso). 
Dovrei, a questo punto, proporvi un dipinto che raffiguri Venere, il che sarebbe tecnicamente piuttosto facile, e anche decisamente banale. Molto più difficile è invece il cercare di proporvi una statua di Venere, possibilmente inerente a quella idata da Mérimée. Stringi stringi la scelta non poteva che ricadere sulla più celebre versione di un dipinto di René Magritte, rappresentante la testa di una statua, con un accenno di sorriso, posta su un davanzale di fronte ad un paesaggio che varia nelle diverse versioni di questo quadro. L’elemento chiave della mia scelta, oltre ovviamente alla statua stessa, è quella chiazza di sangue che si nota sulla tempia destra: sangue che, a giudicare dalla disposizione degli schizzi, non sta sgorgando dalla statua ma proviene da qualcuno che si trovava nelle sue vicinanze. Un omicidio al quale la statua ha assistito, immobile e silenziosa? 

2. Il ritratto 

La seconda opera che vi propongo è “Il cuore rubato” di Gaston Leroux: pubblicata su una rivista con il titolo “La Hache d'or” nel 1912, ricomparve dieci anni più tardi come “Le Cœur cambriolé”.
La storia è quella di Hector e Cordélia, promessi sposi fin dall’infanzia. Si tratta di tutto fuorché di un fidanzamento imposto, il loro, perché i due, che sono cugini, si amano da sempre. A tempo debito il matrimonio viene celebrato, ma la tranquillità dei due sposini è destinata a durare ben poco, perché un pittore inglese, invaghitosi della giovane donna mentre Hector era in viaggio, si mette fra loro. Da quel momento in avanti, nulla sarà più come prima.
Questo misterioso personaggio è un conoscitore dell’occulto che non esita a usare i suoi poteri per attirare a sé Cordélia. Il primo viatico della sua influenza sulla giovane è un ritratto, dipinto da lui stesso, che rappresenta Cordélia, e che le viene recapitato come dono di nozze accompagnato da un biglietto anonimo. Un ritratto che sembra cogliere, oltre alle sue caratteristiche fisiche, la sua stessa aura.

Era un ritratto, quello di Cordélia… ma che ritratto! Era un’immagine meravigliosamente radiosa, sembrava dipinta con le luci più dolci, era assolutamente impossibile capire per quale sortilegio di colori, un essere umano, che non disponga che dei suoi pennelli e di ciò che spreme da tubetti di stagnola, fosse giunto a fissare sulla tela una simile ideale figura. Non avevo mai visto niente che mi potesse far sospettare un’arte simile. Eppure ho avuto occasione di visitare, con il bel mondo parigino che vi si divertiva, una o due esposizioni di pitture che venivano considerate innovative e pretendevano di rivoluzionare l’arte. Vi erano delle figure simboliche o magari disegni di fantasmi: insomma, una gran buffonata! Espressi il mio parere senza peli sulla lingua, tanto peggio per coloro che se ne potevano risentire. Generalmente quelle figure erano avvolte da una nube di saggezza dietro la quale brillava una luce bizzarra e incerta. Ma qui, cercate di capire il miracolo: era la figura stessa a irradiare luce senza alcun trucco intermedio. Il pittore era riuscito a far vedere all’occhio umano ciò che esso di solito non scorge affatto, ovvero la luce invisibile che il corpo irradia intorno a sé. […] In breve, in quel folgorante ritratto, sembrava che l’anima di Cordélia venisse a salutarvi con un sorriso celeste che precedeva le sue labbra carnali. Ormai capivo cosa intendeva dire quando mi scriveva: «c’è altro da mettere in un ritratto oltre le linee del volto, per esempio, il disegno dell’anima!» 

René Magritte, Le passeggiate di Euclide, 1955, olio su tela
Tuttavia questo piccolo espediente, quella che sembra una semplice magia di contatto operata tramite il quadro, è solo il primo tassello di una spietata strategia dell’uomo, Patrick – una strategia svelata ad Hector dal dottor Thurel, che snocciolando termini come aura, poligono, esteriorizzazione dell’aura, consente all’Autore di sfiorare vertici di (voluta) comicità.
Per poter suggestionare Cordélia, Patrick dev’essere non troppo lontano da lei: comincia così il suo estenuante inseguimento dei due sposini in luna di miele. Quando il corpo di Cordélia è avvinto dall’immobilità del sonno, il suo spirito se ne distacca e lei si ritrova a vivere, benché inconsapevolmente, una vita parallela a quella coniugale, ma la cosa strana è che, col passare del tempo, sembra sempre meno impaurita da questa situazione...
Leroux scrisse questo romanzo decisamente surreale, che viene definito un “noir fantastico” perché mischia la letteratura poliziesca con elementi fantastico-onirici e qualche tocco gotico, proprio nel momento storico in cui le teorie psicanalitiche di Freud si stavano imponendo, perciò il dubbio che essa contenga elementi psicologici oltre che chiari riferimenti all'occulto è più che legittimo, soprattutto alla luce del comportamento della moglie, di quella che potremmo definire l'arrendevolezza di Cordélia nei confronti dell'intrusione così violenta da parte di un estraneo nella sua vita matrimoniale. La trama del romanzo è forse meno semplice di come appare in realtà, perché questo terzo incomodo del quale non sappiamo quasi nulla, e che conosciamo solo grazie alle parole di Hector, che della storia è il narratore, potrebbe benissimo essere il suo alter ego, o forse un'identità secondaria tramite la quale il borghese, razionale Hector fa trapelare caratteristiche inespresse e magari anche censurate (e censurabili) della sua personalità. Questo farebbe di Cordélia non una banale adultera, ma un personaggio moderno e complesso incapace di scegliere fra due “modelli” di personalità entrambi, a turno, seducenti e respingenti.
Teoricamente dovrei a questo punto proporvi un dipinto che raffiguri un altro dipinto, no? La scelta, a mio parere quasi ovvia, ricade nuovamente su Magritte e su una delle sue numerose opere incentrate sul tema del quadro nel quadro. In questo senso, se pensiamo ai protagonisti del romanzo, mi pare anche centrato l'accostamento col sottile gioco che Magritte instaura tra l’essere e l’apparire, tra la verità oggettiva e quella assoluta. Se la prima impressione è che il panorama oltre la finestra sia reale, l’osservatore non può fare a meno di chiedersi se anche questo sia finzione, in quanto facente parte del quadro d’insieme che sta osservando; una finzione ulteriormente sottolineata dalla forma conica della torre merlata a richiamare la strada rappresentata in prospettiva sulla destra.

3. Il manichino 

Del 1921 è invece “Le mani di Orlac” (Les Mains d’Orlac) di Maurice Renard, in cui un famoso pianista e la sua consorte sono i personaggi principali di una storia che viene talora definita horror, ma che ha più che altro le caratteristiche di un giallo, o meglio di un poliziesco, nel quale però non mancano elementi tipici del fantastico.
Questo romanzo dall’atmosfera inevitabilmente retro è pur sempre un classico che sa avvincere ed emozionare a dovere, peccato solo che l’edizione più recente, a cura di Profondo Rosso, contenga fin troppi refusi per il prezzo a cui viene proposta (ben 19 euro) – un esempio, e nemmeno dei più fastidiosi, è il cognome Crepin, che talora diventa Crèpin, Crépin, Crèvin e chissà cos’altro. Ma tant’è.
Stéphen Orlac è fra le vittime di uno spaventoso incidente ferroviario: si salva a stento grazie alla sua giovane moglie, che lo affida alle cure di un famoso luminare, il Dottor Cerral, ma le sue mani sono gravemente compromesse e nonostante la lunga e faticosa riabilitazione è chiaro che non potranno mai più suonare il piano come prima. Mentre sua moglie Rosine si trova da un lato a dover gestire un patrimonio familiare che si assottiglia inesorabilmente, e dall’altro a fronteggiare bizzarri e agghiaccianti avvenimenti, Stéphen alimenta l’ossessione per le sue mani creando una “camera delle mani” nella quale trascorre la maggior parte del suo tempo.
Quando un amico di famiglia viene assassinato, appare chiaro che ci sono forze all’opera contro di loro, perché l’uomo era in procinto di svelare a Rosine una verità che la riguarda molto da vicino. Ma le circostanze del crimine sono così strane che la vicenda resta a lungo sospesa fra reale e soprannaturale: l’arma del delitto è un manichino dei più grossolani che l’uomo, pittore e convinto spiritista, teneva nel suo appartamento-atelier al secondo piano di un palazzo di proprietà del padre di Stéphen, e a cui aveva ritoccato il viso (quegli occhi verde chiaro, quel pelo rosso, le sopracciglia biforcute che risalivano sulla fronte, il piccolo baffo conquistatore e la barbetta biforcuta...) per farlo rassomigliare al Mefisto del “Faust”.

Privato del suo bel completo bianco, Oscar era solo un grande manichino rudimentale. La sua testa di cartone, sfondata a colpi di bastone, presentava al suo interno il vuoto più completo. Il suo corpo, che sembrava tenuto insieme da una maglia di tela strettamente cucita, era composto da un leggero scheletro imbottito di canapa. Le giunture, incavicchiate, non possedevano alcun meccanismo. Le mani, una volta smontate, si riducevano a frammenti di legno. Non c’era spazio per un’armatura in cui un nano malfattore avesse potuto nascondersi, perché le membra erano piene e la cavità toracica era inabitabile, fosse anche da un nano. Nulla nemmeno di un automa, perché nessuna macchina era alloggiata nel cavo del torso o nello spessore dell’imbottitura. Niente fili conduttori di corrente, nessun gancio, nessuna traccia di un trucco qualsiasi. Un manichino e basta. Neanche una marionetta.

René Magritte, Il pellegrino, 1966, olio su tela
Oscar è davvero un comune manichino o è qualcosa di più? È davvero possibile che uno spirito abbia trovato il modo di impossessarsene e di uccidere per suo tramite? E se così fosse, a quale scopo l’avrebbe fatto? L’ispettore Cointre sembra scettico e così anche Rosine, che mantiene il segreto sui recenti avvenimenti che l’hanno turbata non sapendo che suo marito, a sua volta, ha parecchio da nascondere. Per esempio, perché la camera delle mani è sempre chiusa a chiave? E perché quei continui incubi, o visioni, che perseguitano entrambi i coniugi? Ma soprattutto, chi è la Banda degli Infrarossi?
In questa vicenda dove niente è quello che sembra, l’abilità di Renard sta nel creare una soluzione in aspettata e convincente e perfino commovente, che salva insomma capra e cavoli. Ma non dico altro, così che, se lo vorrete, e naturalmente se già non conoscete il romanzo, possiate godervi la suspense fino all’ultima pagina.
In questo caso, gli adattamenti cinematografici che nel corso del tempo sono stati ricavati dall’opera sono addirittura quattro: “Le mani dell'altro” (Orlacs Hände, 1924) di Robert Wiene, “Amore folle” (Mad Love, 1935) di Karl Freund, “Le mani dell'altro” (The Hands of Orlac, 1961) di Edmond Gréville e “Le mani dell'assassino” (Hands of a Stranger, 1962) di Newton Arnold.
Sarò banale, o forse è solo che mi piace vincere facile, ma per rappresentare il manichino ho scelto il celebre uomo con la bombetta, protagonista di innumerevoli tele di Magritte e suo indubbio alter ego.

A questo punto credo abbiate intuito tutti qual è il famoso filo conduttore a cui accennavo in apertura. No, non è l'origine francese dei tre diversi autori. E non è nemmeno la scelta delle opere di uno stesso artista, René Magritte, con cui ho voluto illustrare quanto scritto.
In queste tre storie, tre oggetti di natura diversa che rappresentano a loro modo l'essere umano, cercano di imitarlo, riuscendoci solo parzialmente. Tutto qui? No, non è nemmeno tutto qui. Tre oggetti di origine diversa - la statua che è il ricettacolo di un antico potere, il quadro che contiene la volontà dell’occultista e il manichino che esprime una volontà omicida - vengono tutti utilizzati per perpetrare un qualche tipo di crimine: sono, in un certo senso, delle armi del delitto.
Ma il bello è che scegliendo oggetti di tipo diverso, legati da affinità diverse, le scelte che si potrebbero operare sono virtualmente infinite! Proprio per questo Cristina ha dato un seguito al suo progetto, ed è per lo stesso motivo che un giorno tenterò di nuovo io stesso questo esperimento.

Gombrowicz, arrendersi al caos

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Un giorno vi parlerò meglio del mio bisogno fisiologico di leggere libri complessi, stratificati, che spesso finiscono all’improvviso, brutalmente, così come sono cominciati, senza tirare i fili rimasti pendenti fino a una conclusione logica, senza offrire il conforto di una spiegazione univoca, quasi come se l’autore stesso, a un certo punto, si fosse arreso al Caos (giudicherete voi stessi, se proseguirete nella lettura, l’ironia intrinseca nella questione in questo caso specifico). 
E spiegherò anche, se mai io stesso arriverò a scoprirlo, come mai sono proprio questi i libri che più degli altri continuano a girarmi e rigirarmi nella mente finché non decido di parlarne, gettando fuori i miei pensieri come se fossero un veleno che alla lunga rischierebbe di intossicarmi. 
Eccomi oggi alle prese con “Cosmo” (1965) di Witold Gombrowicz, un romanzo denso quanto inafferrabile nella sua essenza che lo scrittore Michele Mari ha definito “uno dei quattro o cinque libri più belli del Novecento”. Non posso confermare quanto affermato da Mari, non so onestamente giudicare se questo sia vero o meno, posso dire però che ho letto il romanzo tutto d’un fiato e che neanche per un attimo, a dispetto della sua stranezza, mi sono annoiato o domandato se ne valesse la pena. C’è molta filosofia in questo libro, me ne sono accorto perfino io che di certo non sono un filosofo, e me ne sono accorto ben prima di leggere le note critiche nella postfazione. Il punto è che, per molti versi, ho riconosciuto me stesso nei due protagonisti Witold e Fuks, e non tanto perché io mi riconosca una personalità altrettanto ossessiva, ma perché credo che un certo grado di ossessione sia insito in tutta l’umanità; in un certo senso, è l’ossessione umana ad aver creato il progresso.

L’ossessione, e la noia. E difatti, Witold e Fuks sono annoiati, ma oltre a questo sono anche percorsi da una continua tensione erotica che, non trovando altro sfogo, si trasforma in feticismo per alcuni particolari anatomici, perfino per degli oggetti, o degli odori, o dei rumori. Raccogliendo elementi, anomalie, indizi che forse solo per loro sono tali, s’inventano un crimine e indagano sul possibile colpevole, e così facendo finiscono per creare reazioni di causa/effetto che plasmano la realtà proprio in quella direzione; questo anelito alla creazione, così comune ed umano, dà ordine al Caos, (ri)crea il Mondo, ma questo Cosmo o Realtà parallela che ne emerge non è affatto idilliaco, gioioso o pregno di chissà quale significato o evoluzione, rischia anzi di spalancare le porte al nonsense e alla follia, e se questo non avviene è perché, a un certo punto, come vedremo più avanti, il romanzo sfugge di mano al suo Autore.
La stessa cosa, ovvero una continua rilettura della realtà, anche se quasi sempre in buona fede, succede a tutti noi, banalmente, nei rapporti con gli altri. Delle persone che ci circondano noi vediamo solo alcuni aspetti, talvolta i più superficiali. In base a quegli aspetti, quei pochi “indizi” che abbiamo colto, ci facciamo un’idea di quelle persone che spesso coincide pochissimo con la loro vera essenza. Nessuno, ne sono certo, si potrebbe mai riconoscere pienamente nella descrizione di sé data da qualcun altro (la maggior parte delle persone ritiene di essere più profonda, buona o gentile di quanto lascia trasparire all’esterno). E più ci penso, più mi convinco che le cose si osservano meglio da una certa distanza, ovvero che le persone a noi più vicine sono spesso quelle che, a conti fatti, arriviamo a conoscere meno a fondo. 

Witold (protagonista di altri tre suoi romanzi e probabile alter ego dell’Autore) e l’amico Fuks si ritrovano insieme nell’assolata campagna polacca, l’uno per staccare dalla famiglia, e l’altro da un lavoro alienante accanto a un capoufficio che lo odia. La voglia di sottrarsi al caldo e una sorta di “segno” li convincono a fermarsi presso una modesta pensione, dove affittano una camera; anzi due segni, o se preferite chiamateli presagi: il primo è la presenza, lungo la strada, di un passero appeso a un albero, impiccato a un pezzetto di fil di ferro; il secondo, l’incontro con Katasia, una donna di mezza età, dimessa, con una vistosa deformazione alla bocca, che li riceve all’ingresso della pensione e che si rivela essere la nipote dei locatari. 
Comincia così la convivenza dei due giovani con la stramba famiglia che gestisce la pensione e che, oltre a Katasia, include il capofamiglia Leon Wojtys e sua moglie, e la figlia Lena con il neomarito Ludwik. Per Witold la bocca offesa di Katasia e quella perfetta della bella Lena si associano fra loro diventando un pensiero ossessivo, così come altri fatti, forse coincidenze, divengono per lui indizi di qualcos’altro, foss’anche la fine del mondo… o un suo nuovo inizio: macchie sul soffitto che sembrano frecce, pietre che forse sono disposte a caso e forse no, un pezzetto di legno appeso a un filo bianco, la mano di Lena che talora sembra percorsa da un fremito incontrollabile. Sopra a tutto questo, l’annosa domanda: chi ha impiccato il passero? È la stessa persona che in precedenza aveva impiccato un pollo e in un momento imprecisato, prima o dopo, aveva “impiccato” anche il pezzetto di legno? Questi piccoli ma sinistri avvenimenti hanno uno scopo, sono scherzi, o cos’altro? 
Quando nell’ultima parte del romanzo Witold e Leon si scoprono spiriti affini, l’erotismo e il feticismo nella narrazione si fanno ancor più maniacali e l’eccitazione diventa costante e parossistica; quest’ultimo però acquisisce sempre più spazio, e proprio quando sembra che nulla possa tornare come prima e che, per una questione di infinite associazioni, la morte debba chiamare altra morte, la realtà si involve e sembra ristabilirsi com’era prima che tutto cominciasse - o quasi. 

Quasi tutti gli scrittori affermano che i loro personaggi a un certo punto cominciano a vivere di vita propria: ebbene, mai come in questo caso ho avuto la sensazione che una tale affermazione sia vera, perché è evidente che a un certo punto lo stralunato e bizzarro Leon abbia perfino ecceduto il ruolo che gli spettava, che l’Autore non sapesse più come collocarlo all’interno della storia e che, quindi, sia stata la storia stessa a doversi in un certo senso rimodellare, riadattare per contenerlo. 
Del resto, è noto che Gombrowicz non fosse bravo a scrivere i finali delle sue storie. Ed è per questo che Andrzej Zulawski, che nel 2015 trasse un film da questo libro, fu costretto a inventarsi un finale. Anzi più finali alternativi, che probabilmente altro non sono che costruzioni oniriche di Witold, oppure altrettante realtà parallele. Del film potrei dire che è gridato tanto quanto il romanzo è sussurrato, che è decisamente comico nel portarne all’estremo gli aspetti grotteschi (la padrona di casa soggetta a episodi di catatonia, la povera Katasia-Catherette che sembra una minorata mentale), che a volte inventa di sana pianta (vedi Fuks, che torna dai suoi misteriosi appuntamenti ricoperto di lividi e graffi: perché?) e che oggettiva fatti che nel libro restano avvolti dall’ombra del dubbio (la possibile e mai esplicitata attrazione reciproca di Witold e Lena). In generale, il film dona alla storia una modernità che non le giova, mentre il romanzo è come sospeso nel tempo, ma alla fin fine – devo ammetterlo - ha forse l’unico difetto di non essere come io me lo aspettavo. Esteticamente il risultato ottenuto da Zulawski è però impeccabile e, pur non reggendo il confronto con certi altri capolavori presenti nella sua filmografia, direi che tra essi non sfigura affatto.

Cronache dagli anni Ottanta (Pt.1)

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Un weekend post-moderno
Elencare tutto ciò che per noi sono stati gli anni '80, in base ai vari macroargomenti forniti (nota: parlare del vissuto dell'epoca, non di ciò che il decennio rappresenta per noi oggi!). Questo è l'invito che il blogger più pop del web ha lanciato in rete qualche settimana fa, sottovalutando probabilmente l'enorme seguito che un'iniziativa come questa avrebbe presto raccolto. Ho detto "probabilmente" perché mi suona strano che il suo diabolico invito a un tag indiscriminato si sia evoluto in pandemia così casualmente.
Nella rete del Moz ci siamo cascati più o meno tutti, qualcuno prima, qualcuno un bel po' più tardi. Nel mio caso è stato per merito (o per colpa) del vecchio Ivano, untore tra i più scaltri, che mi ha inculcato l'irresistibile desiderio di scavare nella memoria di anni che stavo ormai quasi per dimenticare. Considerato quel che è saltato fuori a seguito della spremitura di meningi al quale mi sono prestato, direi che non posso fare altro che ringraziarlo: ci sono cose che è sempre bello ricordare, perché fanno parte di un'epoca che, segnando nel bene e nel male tutta la mia vita, ha contribuito a plasmare la persona che sono adesso.
Il Moz indica alcune "macrocategorie" alla quali rivolgere i nostri sforzi: musica, cinema, fumetti, videogame, televisione, cibo, libri, moda, lifestyle, immagini. Altri blogger, mi pare, hanno ripreso l'iniziativa aggiungendo o sottraendo argomenti. È quello che farò anch'io, inevitabilmente andando per sottrazione, considerata la mia atavica incapacità di sintesi che mi costringe a spezzare questo post in due parti per non risultare eccessivo.
Gli anni Ottanta. Da che parte cominciare? È passato così tanto tempo che ormai comincio a confondere un decennio con l'altro. Quello che so per certo è che mi iscrissi al primo anno di superiori nell'autunno del 1981. Una buona parte dei miei ricordi relativi a quell'epoca sono, di conseguenza, legati a filo doppio ai ricordi di quei banchi di scuola. Diplomatomi nel 1986, dopo un paio di anni buttati passivamente nel cesso trovai il mio primo lavoro all'inizio del 1988. Da allora non ho mai smesso di lavorare; nemmeno un solo giorno. Questa piccola biografia, riassunta in tre scarne righe, dovrebbe già essere un indizio di quanto siano stati per me cruciali gli anni Ottanta. Ma andiamo per ordine.

LIBRI

Qualcuno potrebbe sorprendersi, ma la letteratura non era la mia priorità in quegli anni. Ero molto più impegnato ad inseguire quella specie di "fantasma-amore-felicità" di cui accennava il vecchio Buck in un suo libro (una citazione che poi è diventata un punto fermo della mia esistenza, e che è presente nella colonna di destra di questo blog sin dal primo giorno). Sono tuttavia certo che, almeno fino al 1985, trascorressi i miei lunghi mesi estivi in compagnia dei gialli di Agatha Christie o di Ellery Queen, di qualche vecchio numero di Urania che per qualche ragione mi ero ritrovato per casa e dei primi Stephen King. Probabilmente furono quelli i primi titoli a entrare nella mia, oggi monumentale, collezione di letture (narrativa scolastica a parte). Non ne sono sicurissimo, ma le milletrecento pagine di "It" potrebbero essere ancora un record personale, così come potrebbe essere un record la rapidità con cui iniziai e portai a termine "Dieci piccoli indiani" (un solo pomeriggio di vacanza).

Una vecchia edizione di "Dieci Piccoli Indiani"
Descrivere dieci anni di letture, a distanza di tanto tempo, è complesso e oltremodo riduttivo: in dieci anni molte cose possono cambiare (e cambiano), specialmente quando si cerca di inquadrare il fiume in piena degli anni dell'adolescenza. Sono anni in cui tutto si muove molto in fretta e ciò che può interessare in un determinato momento può perdere completamente di significato nel momento successivo. Ricordo che uno di questi momenti fu segnato dal mio interesse per la politica. Non che mi interessasse veramente, intendiamoci, ma mi attirava il fatto che, al contrario di adesso, era possibile discernere le idee di uno schieramento da quelle di un altro. Era un po' come occuparsi di una partita di calcio, in buona sostanza, con le due squadre abbigliate in colori diversi. Comprai libri e li lessi, per cercare di comprendere le ragioni dell'uno e dell'altro, senza rendermi conto che non sarei mai riuscito ad arrivare al nocciolo della questione. Probabilmente quel mio interesse era semplicemente la voglia di scoprire cosa fosse quel fenomeno che aveva scaldato gli animi dei ragazzi nel decennio precedente, e la cui ultime scintille, quella che si può definire "onda lunga", era arrivata fino a me. Me ne stufai infatti rapidamente.
Appena uscito da scuola, con un diploma di perito elettronico in tasca, arrivò la solitudine, quella dura. Chi sparì tra i corridoi dell'università (pochi), chi tra corridoi differenti (i più). Decisi così di dedicare tutti i miei sforzi e il mio tempo libro (che era tantissimo) al riempimento di quelle lacune che ormai iniziavano a divenire preoccupanti. Faccio fatica a identificare dei titoli precisi, ma sicuramente arrivarono i primi scrittori russi, i primi sudamericani e, anche se non ne sono cronologicamente certo, prima del termine del decennio sopraggiunsero anche Bukowski e John Fante. Venne la fase dei poeti maledetti francesi (ma quella credo che sia arrivata un po' per tutti) e dei novelist di casa nostra, come Pier Vittorio Tondelli, il cui libro che usato per illustrare questa parte dell'articolo (e che negli anni ho letteralmente consumato come una bibbia) potrebbe davvero essere preso ad esempio da chi voglia cimentarsi in un post come questo.
La ragione di quella sopraggiunta "fame letteraria" fu principalmente la necessità di uniformarmi alle nuove compagnie che frequentavo: da una parte coetanei che avevano una formazione classica, e che io un pochino invidiavo, dall'altra la ragazza attraverso la quale, all'epoca, ritenni di aver trovato quel "fantasma-amore-felicità" di cui accennavo prima. Con lei, che aveva quattro anni più di me ed era, come avevo intuito, un fantasma che sparì dalla mia vita tanto improvvisamente quanto ne era entrata, iniziai a capire quanto fosse importante la lettura per la mia crescita individuale. Ma a questo punto stiamo già entrando negli anni Novanta...

FUMETTI

Non serve spendere molte righe per esternare la mia monomaniacale passione per Zagor, iniziata sul finire degli anni Settanta e interrotta, per cause di forza maggiore, solo verso la metà dei Novanta. Quei quattrocento e passa albi, puntualmente acquistati ogni inizio del mese dal giornalaio sotto casa, fanno ancora la loro sporca figura a casa di mia mamma (solo la carenza di spazio mi impedisce di traslocarli in un luogo più sicuro, vale a dire qui con me sotto questo tetto). Potrei stare qui ore a raccontarne, magari approfondendo certi cambiamenti che la lettura di quegli albi ha portato alla mia vita, ma uno spazio come questo, necessariamente ridotto, non me lo consente. Un giorno magari ne parlerò più diffusamente, se il blog dovesse decidersi a svoltare, anche temporaneamente, in quella direzione.
In quegli anni c'era ovviamente spazio anche per altro, questo non si discute: non posso proprio ricordare certi vecchi albi del Comandante Mark o del Piccolo Ranger senza una lacrimuccia di nostalgia. Una ventina di albi del primo ancora li possiedo, danneggiati e impolverati dal tempo, ma del secondo non mi rimangono che piccoli frammenti di avventure che la mia memoria ha ormai in buona parte cancellato. Qualche volta, lo ammetto, mi sono soffermato sulle bancarelle per capire se riuscivo a rintracciare quella particolare storia che ancora mi frulla nella mente, ma senza successo.

Un "Horror Pocket" anni Settanta
Al di fuori del mondo Bonelli? Il primo nome da citare è sicuramente Diabolik, che quel mio amico d'infanzia collezionava sin dal primo numero e i cui albi non mi lasciava toccare neanche a morire! Ne avevo messi insieme anch'io un discreto numero, mi ricordo, anche se poi sono andati tutti perduti. Solo in tempi piuttosto recenti, incappando in una bancarella fortunata, ho potuto recuperare una decina di albi che appartenevano a quell'epoca e ai quali ero particolarmente legato. Chissà che un giorno non esca un post anche su questo argomento? Conseguenza diretta dei Diabolik furono ovviamente Kriminal e Satanik, ma è incontestabile fossero un ampio gradino sotto le mie preferenze.
Il passaggio ai fumetti erotici fu automatico per me come per un milione di miei coetanei. O mi sbaglio, ragazzi? La loro lettura era oggettivamente più complicata da portare avanti fra le mura casalinghe, a causa del contenuto non del tutto "per famiglie", ma riuscii lo stesso a mantenere una piccola collezione lontana da occhi indiscreti. I titoli che più amavo erano paradossalmente anche quelli dai contenuti meno espliciti. Il caro Oltretomba, tanto per citare uno dei miei preferiti, raramente conteneva scene di nudo, ma nonostante ciò era praticamente impossibile leggerlo apertamente (lo stesso Diabolik, forse per via del formato, era guardato dai miei genitori con estremo sospetto). Credo sia chiaro a questo punto come la mia predilezione per l'horror abbia radici antichissime: il Dylan Dog, che sarebbe arrivato ben più tardi, non sarebbe mai riuscito a eguagliare quelle vecchie, affascinanti pubblicazioni come Horror Pocket ed Eureka Pocket che ancora oggi conservo gelosamente, e che mi fecero intuire come il racconto horror a fumetti avesse delle potenzialità enormi nel formato breve o brevissimo (d'altra parte ce lo aveva già mostrato Stan Lee con quei piccoli gioielli che chiudevano gli albi supereroici della Corno). Non saprei dire se l'avvento dei Lanciostory e degli Skorpio (ma anche de L'Intrepido e de Il Monello) furono una conseguenza di quella mia nascente predilezione per il formato breve e autoconclusivo. Sicuramente non potrebbero mai arrivare oggi, ché di ciò che erano non conservano più nulla.

RIVISTE

Giornali e riviste non sono mai mancate in casa mia e, a parte la stampa spazzatura che mia madre si scambiava con le sue amiche senza spendere una lira (abitudine che ancora non ha perso), dalle mie parti giungevano a vagonate pubblicazioni settimanali o mensili di tutt'altra natura. In primo luogo le riviste musicali, che all'epoca, come certamente ricorderete (se avete più o meno i miei anni), erano davvero fantastiche! Non voglio anticipare la sezione musicale, che ho previsto di inserire nella seconda parte di questo articolo, ma quelle riviste erano tutto ciò che noi piccoli fans (involontaria citazione) potevamo disporre per ammirare le foto dei nostri beniamini, leggere le loro interviste e studiare i testi delle loro canzoni.
Non ricordo da che parte arrivassero quei giornali (di certo io non ne ho mai comprati), ma ricordo benissimo almeno un paio di titoli fondamentali: Boy Music e Ciao 2001, sulle cui coloratissime copertine si alternavano i volti più noti della musica di quel periodo. Sul primo andavano per la maggiore gli artisti italiani: Tozzi, Zero, Baglioni, la Berté e la Rettore; sul secondo c'era ampio spazio alla musica internazionale: Van Halen, Police, Queen o Elton John.
A livello di scarsità di contenuti le due riviste erano tutto sommato equivalenti, anche se il Boy Music, se non ricordo male, aveva anche una sezione a fumetti, mentre il Ciao 2001 vantava una rubrica della posta imperdibile, nella quale i lettori confessavano i loro piccoli problemi sessuali (situazioni ovviamente inventate, ma alle quali all'epoca noi credevamo fermamente). Quelle due riviste, che non credo siano andate avanti molto con l'avanzare del decennio (almeno per quanto mi riguarda), restano nonostante tutto due pietre miliari della mia prima adolescenza. Più avanti, verso la fine del decennio, passai decisamente a un tutt'altro tipo di musica, grazie a pubblicazioni come Il mucchio selvaggio e Buscadero. Fu grazie a quelle riviste che conobbi musicisti che sarebbero davvero diventati la colonna sonora della mia vita. Ma è una storia lunga.
Tra le tante riviste di vario intrattenimento che giravano in quegli anni vale la pena citare Blitz (altrimenti detto Albo Blitz), sulle cui pagine noi ragazzi di allora lasciammo diverse diottrie. Anche il questo caso resta il mistero di chi comprasse quelle riviste. Nessuno le comprava ma tutti ne avevano almeno un paio di copie imboscate in fondo a un cassetto.
Gli anni Ottanta furono memorabili dal punto di vista sportivo: come non citare infatti il trionfo azzurro al mondiale spagnolo che coincise, anno più anno meno, con il mio avvicinamento al calcio tifato? Due erano le riviste che leggevo, rigorosamente gratis dopo che mi venivano passate da un amico: trattasi dell'intramontabile Guerin Sportivo e del mitologico Superbasket, con tutte le notizie, le curiosità e le classifiche dei due campionati per me più attraenti (quello di calcio e quello di basket, rispettivamente).

Il numero del GdM del gennaio 1981
Ma passiamo alle cose serie. Ho già detto che avevo studiato da perito elettronico? Al di là della noia che mi provocava lo studio forzato, l'elettronica era davvero la mia passione e fu attraverso le riviste dell'epoca (Nuova Elettronica in primis) che imparai a smanettare con diodi e transistor. Mi ero costruito diverse cosettine simpatiche, come l'impianto per le luci di emergenza che poi installai sulla mia Fiat 127 nuova fiammante (notizia per i più giovani: una volta le "quattro frecce" non le trovavi di serie sulle automobili) o come la centralina per le luci psichedeliche che collegai al mio impianto stereo (e di cui vado ancora orgoglioso). Le riviste di elettronica le compravo ovviamente coi miei risparmi: d'altra parte, a chi altri sarebbero potute mai interessare quelle cose da nerd?
Ultima, ma non per questo meno importante, è la rivista dalla quale per certi versi nacque la mia passione per quegli argomenti che, in seguito, sarebbero divenuti la spina dorsale di questo blog. Il Giornale dei Misteri negli anni Ottanta era edito dalla Corrado Tedeschi, la stessa casa editrice che ancora oggi invade le edicole con tonnellate di pubblicazioni di cruciverba. Iniziai a comprarla, se non ricordo male, nel gennaio 1981 e andai avanti tutti i mesi, ininterrottamente, per almeno dieci o undici anni. Oggi una buona metà di quelle riviste giacciono indisturbate a casa di mia mamma. L'altra metà è ancora alla ricerca di un posto stabile nella casa in cui vivo e, tra queste, alcune copie hanno trovato la pace fra le unghie della mia gatta.
Furono risparmi ben spesi, quelli che tiravo fuori ogni mese per il GdM: ne ero certo allora e lo posso confermare adesso. Mondi inimmaginabili emergevano da quelle pagine e il mio entusiasmo cresceva di numero in numero. Non so per quale motivo smisi di acquistarla. Credo fosse perché la rivista stessa negli anni era cambiata, imbruttendosi, probabilmente a causa della crisi di vendite in cui era piombata. Qualche anno fa, con mia grande meraviglia, scoprì che il GdM era ancora vivo: oggi ha un nuovo editore, una nuova redazione (qualcuno dei nomi storici è però rimasto), una nuova distribuzione (non si trova in edicola, se è questo che vi state chiedendo), ma non è nemmeno la pallida copia di ciò che era allora; e l'unica copia che comprai, più per nostalgia che per altro, finì rapidamente nel bidone della carta giù in strada. Davvero un peccato.
CONTINUA

Cronache dagli anni Ottanta (Pt.2)

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LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Ritenevo fosse molto più semplice scribacchiare qualcosa sugli Anni Ottanta e su cosa essi hanno rappresentato per il sottoscritto, ma mano a mano che le parole, come un'onda in piena, hanno iniziato a trasferirsi dal mio cervello a questo foglio di carta digitale, mi sono dovuto ricredere.
Non ho mai avuto il dono della sintesi, e in proposito credo non vi siano dubbi, ma con questo post credo di aver superato anche i limiti della decenza. Questa seconda parte dovrebbe essere l'ultima: almeno questa è la mia intenzione nel momento in cui scrivo questa introduzione. Restano tuttavia ancora diverse cose di cui parlare (la musica, il cinema), e non sono certo tra quelle che uno può vagamente sperare di condensare in poche righe. Specialmente se "quell'uno" ha già scritto una decina di righe senza ancora aver detto niente. Mi bacchetto le mani da solo, e senz'altro indugio comincio dall'argomento che mi sta più a cuore: la musica. D'altra parte nulla come la musica è in grado di segnare nel profondo un'epoca. Molti la chiamano "la colonna sonora della vita" e tale affermazione mi vede decisamente concorde.
Ho scoperto, scrivendo questo post, che è molto facile associare avvenimenti, anche lontani nel tempo, alla musica che li accompagnava. Il problema, se vogliamo, è quello di dover lasciare fuori dall'elenco certi artisti che hanno avuto, almeno al pari di altri, la loro indiscutibile parte nella crescita di un individuo che, come nel mio caso, vola verso il suo cinquantesimo compleanno. Non aiuta il fatto che in quel decennio io ascoltassi veramente di tutto, al punto che qualcuno potrebbe pensare, dopo aver letto questo post, che in me fosse già presente quella personalità multipla che ancora oggi lascio trasparire. Dividerò quindi la sezione musicale in tre distinte sottocategorie.

MUSICA ITALIANA

Gli anni Ottanta mi sorpresero piuttosto imberbe dal punto di vista musicale. D'altra parte avevo appena tredici anni e, sebbene avessi abbandonato da tempo le filastrocche per bambini, ciò che girava sul piatto del mio stereo (che aveva soppiantato da poco il caro e vecchio mangiadischi rosso) erano sostanzialmente le stesse canzoni che martellavano per radio. Se gli anni Settanta si erano già portati via le mie prime passioni per Tozzi, Venditti e Bennato, che oggi in tarda età ascolto ancora piuttosto volentieri, gli Ottanta arrivarono accompagnati dalle note dell'album Tregua del renatone nazionale. Arrivavo già dall'ascolto maniacale dei tre mitici album precedenti e per tale motivo, nel mio piccolo, quando scoppiò un po' ovunque la "zeromania" (con l'uscita del doppo live Icaro, 1981) potevo vantarmi d'essere già un "sorcino" piuttosto navigato. Conservo ancora, fra i miei cimeli più cari, un vecchio biglietto dello spettacolo "Natale a Zerolandia" al quale assistetti da giovanissimo sotto il vecchio tendone di Lampugnano (era il gennaio 1983). Se ci penso adesso, quasi mi vengono i brividi. Una volta che Renato divenne poi un artista "di massa", come è sempre stata mia abitudine mi tirai da parte e presi a guardarmi attorno.
Trovai subito conforto in Vasco Rossi e, come mi era già capitato in precedenza, quando andavo in giro sostenendo che quell'artista semisconosciuto a me piaceva, i miei coetanei rabbrividivano d'orrore (era l'anno del suo passaggio a Sanremo con Voglio andare al mare). Come sarebbe andata a finire da lì a qualche anno, oggi lo sanno anche i sassi, e il sottoscritto, fedele al suo intuito, quando scoppiò la "vascomania" aveva già ancora una volta tagliato la corda.

Gli anni Ottanta furono tuttavia piuttosto poveri di musica italiana (ne recuperai parecchia nel decennio successivo). Buona parte di quegli anni furono però accompagnati dalle canzoni di Francesco Guccini, che conobbi attraverso il doppio live "Fra la via Emilia e il west" (1984). Una passione che avrebbe attraversato i decenni irrompendo con immutata intensità fino al nuovo millennio, attraverso dischi e una serie infinita di spettacoli dal vivo ai quali invariabilmente mi precipitavo. De Andrè ancora si intravedeva solo all'orizzonte, inconsapevole di come avrebbe poi devastato la mia vita all'inizio del decennio successivo. La puntina del mio stereo, già allora, non mancava però di frequentare i vinilici solchi del leggendario concerto con la Premiata
Sul finire del decennio sbarcarono i Litfiba e, come se il mio destino fosse destinato a ripetersi, ci ruzzolai addosso in occasione di un concerto gratuito al quale assistetti. In quell'occasione Pelù e compagni presentarono a una platea di venti persone alcuni brani inediti, quegli stessi brani che da lì a poco avrebbero costituito l'ossatura del mitico album Litfiba 3 (1988). Inutile dire che pochi anni dopo, con El Diablo (1990), avevo già voltato pagina.
Non mi rimane che citare le colonne sonore forse più importanti, quelle legate ai miei primi batticuori di adolescente: Baglioni e Cocciante. Ma non credo ci sia molto da dire su questi ultimi: chi c'era lo sa, chi non c'era lo può soltanto immaginare.

MUSICA INTERNAZIONALE

Quando si pensa agli anni Ottanta vengono in mente solitamente quei martellanti motivetti dance che accompagnavano le nostre prime uscite serali. Mentre vivevamo gli Eighties, e questo lo ricordo bene, si era soliti lamentarsi di quanto "fiacchi" fossero gli artisti di quegli anni se confrontati con quelli del decennio precedente. In parte questo è vero, perché è indiscutibile che il rock (quella era la nostra musica di riferimento) aveva già raggiunto i suoi vertici espressivi con il concerto di Woodstock e sembrava ormai avviarsi verso l'oblio.
Oggi, guardando a quel passato, non posso che ammettere che eravamo tutti in errore. Il rock era vivo e vegeto: solamente aveva dovuto cedere metà del palco a nuove correnti musicali che, se pensiamo a come siamo ridotti adesso, erano oro colato. Ma andiamo con ordine.
L'eredità del decennio precedente per me aveva un solo nome: Pink Floyd. Naturalmente non mi ero ancora lasciato turbare dalle prime sonorità del gruppo, quelle di album come Ummagumma (1969) per intenderci. Molto più semplicemente mi ero fatto trascinare dell'entusiasmo collettivo che ebbe seguito al successo planetario di The Wall (1979). Il fatto che nel 1980 fossi ancora piuttosto ingenuo lo proverebbe quella mia fissa per una band francese che si faceva chiamare Rockets, ve li ricordate? Talmente fissato che quasi non mi accorsi dell'arrivo di due pesi massimi come Zenyatta Mondatta (1980) dei Police e di Making Movies (1980) dei Dire Straits. Ho detto "quasi", non so se lo si è notato.
Ho parlato di "correnti musicali" diverse dal rock: mi riferisco ovviamente a quel pop che ci ha travolti un po' tutti, quello dei Duran, degli Spandau, degli Wham, di Madonna, di Prince e di Michael Jackson. Nonostante la mia attenzione fosse solita ricadere altrove, me ne feci travolgere anch'io. Tra i nomi citati ero particolarmente attirato da Madonna, quella di Papa don't preach (1986) e in parte dalla sua versione precedente, tutta pizzi e tulle.

Il 1983 fu tuttavia l'anno in cui David Bowie pubblicò il suo disco forse più conosciuto e il sottoscritto non se lo fece ovviamente mancare. Ricordo che iniziai a studiare Bowie (e quando dico "studiare", lo intendo letteralmente) una domenica sera sul tardi: ero lì che giravo annoiato il pomello del sintonizzatore quando incappai in una trasmissione radiofonica dedicata al Duca Bianco. Credo fosse uno dei canali nazionali, ma non posso giurarlo. Praticamente era una puntata facente parte di una serie totalmente dedicata a Bowie: si ascoltavano i brani di un album e lo si analizzava, nei testi e nelle sonorità, raccontando aneddoti e curiosità legati alla registrazione del disco e al tour che ne sarebbe seguito. Quella storica domenica sera stavano parlando di Low (1977), il primo album della trilogia berlinese. Ne fui incantato. Quando a mezzanotte passata spensi la radio, ero già completamente prigioniero del Maggiore Tom. Gli anni successivi li trascorsi così, ad ascoltare catatonico quella musica. Poi, nel 1987, dopo averlo visto dal vivo a Milano (al Glass Spider Tour), decisi che avevo raggiunto il mio scopo e passai ad altro. I nomi di Iggy Pop e di Lou Reed fanno parte inevitabilmente di quella stessa epoca e, sebbene non abbiano mai raggiunto certe pieghe del mio cuore, durarono molto più a lungo di quei miei tutto sommato brevi anni bowiani.

Il 1985 fu l'anno in cui sbarcò a San Siro il Boss. Chi ha detto "sticazzi"? Non riuscii ad andare a quel concerto, nonostante l'invito di alcuni conoscenti, ma l'adrenalina di quel ragazzotto americano con il berretto infilato nella saccoccia posteriore dei jeans mi colpì in pieno. Recuperai alla svelta tutto quello che c'era da recuperare, e se in quegli anni qualcuno mi avesse chiesto chi fosse il mio musicista preferito non avrei avuto esitazioni. Credo possa essere la stessa risposta che darei adesso, almeno di primo acchito. L'album di Springsteen che ascoltai di più, quasi fino alla nausea, fu però Darkness (1978), forse per via di quel mio amico, con il quale uscivo spesso, che in macchina aveva solo quella dannata cassettina che ascoltava senza interruzione.


Cosa avevo detto all'inizio? Che gli anni Ottanta ci parevano "fiacchi"? E pensare che dovevano ancora arrivare gli U2! La bomba esplose nel 1987 con il granitico Joshua Tree. Apparirò forse un po' volubile, ma anche gli U2 divennero ben presto la mia band preferita. Fu uno sbandamento intensissimo ma ancora una volta brevissimo: durò lo spazio di un solo disco, e dopo il live Rattle and Hum (e l'omonimo film, uscito nelle sale nel 1988) decisi che ciò che gli U2 avevano registrato di valido apparteneva a un passato che mi ero perso. Devo però agli U2 quel tentativo (ovviamente fallito) di mettere in piedi una band e di cui rimane patetica testimonianza in quella foto che campeggia sul mio profilo facebook ufficiale (quello con il mio vero nome, non quello con lo pseudonimo Obsidian). Oggi ascolto ancora soprattutto il loro primo album, Boy (1980), che ritengo essere il migliore.
Ma c'è qualcosa a livello internazionale che ho anticipato rispetto al suo tempo? Direì di sì, visto che acquistai l'album Document (1987) dei R.E.M. nel momento esatto in cui uscì nei negozi, precedendo di tre anni la notorietà che Michael Stipe e compagni raggiunsero con Losing my religion (1991). Il 1987 fu anche l'anno di The World Won't Listen degli Smiths, la raccolta di singoli con cui conobbi il sound della band britannica, che, anche se vi sembrerà strano, mi ricordava tanto quello dei Clash. L'album in questione, superfluo come tutte le operazioni commerciali, ebbe però il potere di avvicinarmi alla voce pazzesca di Morrissey e alla chitarra scombinata di Johnny Marr. Ancora oggi The Queen is dead (1986) e Strangeways, Here We Come (1987) sono tra i miei più ascoltati.
Vi sembrano ancora "fiacchi" gli anni Ottanta? E ancora non ho parlato di Robert Smith e di Ian Astbury... ma direi che per loro troverò uno spazio più consono quando vi narrerò le cronache degli anni Novanta, se mai ciò accadrà.

L'ANGOLINO METALLICO

La leggenda vuole che una buona parte dei metallari della mia generazione sia diventata tale andando per gradi. La catena evolutiva del metallaro sarebbe nata sulle note della canzone più melensa dei Kiss (I was made for lovin' you, 1979), transitata dal pezzo più agghiacciante degli Europe (The final countdown, 1986) e da uno dei brani più sopravvalutati di Bon Jovi (You Give Love a Bad Name, 1986), per approdare finalmente al fatidico traguardo degli Iron Maiden, spesso attraverso uno dei loro dischi a mio parere minori, quelli usciti sul finire degli anni Ottanta.
Non so se questa ipotesi di percorso metallico sia una verità universale o, come detto, semplicemente una legenda metropolitana. Sono quasi certo che non si tratta di una ipotesi assoluta (e lo scrivo per evitare che orde di metallari incazzati vengano a pigliarmi a scarpate), anche se ho il forte sospetto che molti miei coetanei, specialmente le ragazze, abbiano seguito esattamente la sequenza che ho appena citato.

Il percorso metallico del sottoscritto affonda comunque le sue radici molto più indietro, precisamente nei due dischi che acquistai su suggerimento di un amico di tre anni più grande: quei dischi erano Ace of Spades dei Motorhead e il mitologico Back in Black degli AC/DC.
Premetto che non so come reagirei oggi se un mio ipotetico figlio mi mettesse sul piatto i Motorhead a tredici anni, posso dirvi come reagirono i miei: piuttosto male.
Ad ogni modo, come dissi la volta scorsa, nel 1981 approdai alle scuole superiori e ricordo che c'era questo gruppetto di ragazzi metallari più grandi (di terza, mi pare) che mi tirarono in mezzo quando si accorsero che ascoltavo i Van Halen (quelli dei primi dischi, ovviamente). All'inizio ne fui compiaciuto, ma durò lo spazio di un quadrimestre e poi io mi stancai di loro e loro di me.
Il mio cammino metallico si interruppe quindi per un lungo periodo, lasciando solo qualche vago spazio a un paio di dischi degli Iron e credo poco altro. Quando poi iniziai a lavorare, nell'aprile 1988, ritornai a "indossare il chiodo" (e non solo in senso figurato) per via di nuovi colleghi che avevano stimolato nuovamente quella perduta passione. Il mio fu un percorso tutto sommato abbastanza soft: prima i grandi classici Deep Purple, Whitesnake, Dio e Black Sabbath, quindi Scorpions, Poison e Judas Priest. Una partenza piuttosto diesel, come si può notare. Tutto il resto? Il resto sarebbe arrivato più tardi, non prima però dello scoccare del nuovo millennio.
Interrompo quindi in questo punto questo lungo viaggio nell'archeologia musicale dei miei anni Ottanta. Ancora una volta non sono riuscito ad essere sintetico come avrei voluto. Pazienza. Vorrà dire che per chiudere il cerchio mi toccherà scrivere una terza parte....
CONTINUA


We are Motörhead and we play Rock N Roll!

Cronache dagli anni Ottanta (Pt.3)

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LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Siamo infine giunti alla terza e ultima parte di questo glorioso tuffo nella magia degli anni Ottanta. Non avrei mai pensato di poter riuscire a raccogliere in questo tutto sommato piccolo spazio tutti i ricordi di un decennio che, almeno per il sottoscritto, è stato indiscutibilmente tra i più ricchi di avvenimenti che poi, con il passare degli anni, si sarebbero rivelati decisivi. 
Sarebbe stato forse necessario dedicare all'argomento un intero mese, anziché confinare tutto nell'angusto spazio di pochi giorni, ma certe cose alla fine restano interessanti solo finché rimangono episodi. Ascoltare i ricordi degli altri mantenendo un'attenzione costante non è affatto facile, e se devo dirla tutta, anch'io comincio a sentire il peso di tutto questo. Non sempre scavare nei ricordi è piacevole: si inizia a pensare a cosa, e a chi, ci si è lasciati alle spalle, a ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato, e soprattutto si inizia a pensare al tempo che è trascorso, alle persone che erano giovani, o nel pieno degli anni, e che ora sono invecchiate o se ne sono andate. Un sacco di tempo. Un sacco di fottutissimo tempo.

Sono stati in buona sostanza questi i pensieri con i quali mi sono coricato mercoledì scorso, dopo aver pubblicato il post precedente e spento il computer; pensieri dedicati a tutto questo tempo che è letteralmente volato via, mentre io continuo ad andare avanti un passettino alla volta.
Ma basta con questi discorsi! Cerchiamo di arrivare, possibilmente alla svelta, alla conclusione di questa storia. La volta scorsa avevamo ascoltato un po' di musica, ricordate? Oggi invece andiamo al cinema.

CINEMA

Chi segue questo blog da molto tempo sa bene che recensioni cinematografiche qui ne ho scritte parecchie, e che queste ultime di solito non riguardano film esattamente commerciali. Verrebbe quindi forse da pensare che il sottoscritto abbia trascorso i suoi anni Ottanta a guardarsi roba di nicchia, lontana anni luce dai grandi riflettori. Niente di più sbagliato. I miei anni Ottanta sono stati normalissimi, sempre che si possa definire normale un ragazzino che, a quattordici anni, si era già visto tutti gli horror che passavano nel piccolo cinema dalla parte opposta della strada. 
Abbiamo già avuto modo di parlare di quel cinema in occasione delle recensioni di Phantasm e di Patrick, per cui non mi sembra il caso di tornare sull'argomento. Era però lo stesso cinema dove, sul finire degli anni Settanta, vidi Guerre Stellari Grease e, ma qui eravamo già nei primi anni Ottanta, Il tempo delle mele. Che c'è di strano? Lo avevano, o lo avrebbero visto, tutti. Ignorarne l'esistenza era dopotutto impossibile: a scuola non si parlava d'altro, e io in fatto di gusti cinematografici non ero poi molto diverso dai miei coetanei. Se vogliamo, una piccola differenza c'era: quella mia innata (e mai sopita) passione per i film di Totò, che appena possibile guardavo e riguardavo, imparandone a memoria le battute. Un'attività, quella di imparare a memoria i film, che in seguito avrei ripetuto solo in due occasioni: la prima nel 1984 con Non ci resta che piangere, la seconda dieci anni più tardi con Pulp Fiction di Tarantino.
All'inizio degli anni Ottanta, complice l'inizio delle scuole superiori, non ebbi più modo di andare al cinema spesso come in precedenza. Avevo abbandonato anche la sala della parrocchia dove in precedenza mi ero gustato tutti i vecchi film di Godzilla e di Bruce Lee e avevo deciso di dedicarmi seriamente allo studio (si fa per dire), ma il cinema sembrava non poter fare a meno di me e, se io non andavo da lui, era lui che veniva da me.

Durante tutto il quinquennio delle superiori, almeno tre o quattro volte l'anno era diventata tradizione riunirci tutti nell'auditorium per guardare film a scopo didattico. Inutile dire che i film che venivano proposti non erano esattamente quelli a cui può aspirare un ragazzino, ma a posteriori devo ammettere che le scelte fatte dal corpo insegnante furono decisamente centrate. I titoli proposti ovviamente non li ricordo tutti, ma di sicuro nel giro di pochi anni mi guardai Koyaanisqatsi (1983) e La guerra del fuoco (1982), due film privi di dialoghi (belli, per carità) che all'epoca non contribuirono granché al mantenimento del mio stato di veglia. Guardai però anche capolavori entusiasmanti come Apocalypse Now (1979) di Coppola o prodotti immediatamente dimenticati come Gente Comune (1980) di Robert Redford, Il verdetto (1982) di Sydney Lumet, Sul lago dorato (1982) di Mark Rydell o Birdy, le ali della libertà (1984) di Alan Parker. Ci fu naturalmente la "fase atomica" (che, ricordo, a scuola anticipò di gran lunga i fatti di Chernobyl): i film che ricordo vennero proiettati sono Sindrome Cinese (1979) di James Bridges e Silkwood (1983) di Mike Nichols. Questo è più o meno il cinema scolastico ufficiale, quello per il quale noi ragazzi dovevamo poi scrivere un resoconto critico nel corso dei giorni successivi (ecco quindi spiegata l'origine del blogger cinefilo che conoscete). Esisteva anche un cinema scolastico non ufficiale, quello che l'insegnante di religione, un tipo bizzarro con la fissa de "l'apocalisse è vicina", ci faceva vedere in gran segreto nelle sue ore: facemmo in tempo a vedere tutti gli horror del momento, come L'esorcista (1973), Shining (1980), Poltergeist(1982) e tutta la saga di Omen (1976-1981), prima che la preside se ne accorgesse e mandasse all'aria il nostro simpatico appuntamento settimanale.

Terminata la scuola, tornai comunque ad andare al cinema per conto mio, e finalmente potei di nuovo scegliere i titoli da me anziché subire le scelte degli altri. In realtà non fu proprio così, visto che eravamo una piccola compagnia e che era nostra abitudine scegliere a turno, in maniera piuttosto democratica. Inevitabilmente andai incontro ai classici di quegli anni come Terminator (1985) e Ritorno al futuro (1985), così come ai grandi maestri della comicità, al cui confronto gli pseudo-comici di oggi scompaiono. Cito solo alcuni tra i migliori di quegli anni, e ditemi voi se esiste qualcosa di recente che anche solo ci si avvicina: Fantozzi contro tutti (1980), Bianco, rosso e Verdone (1981), Eccezzziunale veramente (1982), Vieni avanti cretino (1982), L'allenatore nel pallone (1984), Troppo forte (1986)...
Potrei andare avanti per ore, ma mi ero ripromesso di essere telegrafico in quest'ultimo post, per cui passiamo rapidamente ad altro. Ad ogni modo, per approfondimenti, c'è sempre questo post qui.

PICCOLE COSE SPARSE E CONCLUSIVE

Non ho voglia di parlare di televisione. Ne usufruivo poco, tutto sommato, e a quanto ricordo non c'era veramente nulla che valga la pena rivangare ora. Parliamo invece di svaghi nel loro concetto più generale.
Giochi e videogiochi? Non sono mai stato un grande appassionato di videogiochi. Anche molti anni dopo, alle prese con la prima playstation, mi sarei rotto le balle quasi subito. Giusto qualche Tomb Raider e nulla più. Negli anni Ottanta, come accadde a molti miei coetanei, ebbi però anch'io modo di venire in possesso di un fiammante Commodore 64. Lo scopo principale di quella macchina era ovviamente il divertimento e, ve lo assicuro, mi impegnai parecchio nel trovare una logica nel muovere avanti e indietro un joystick senza interruzione. Tutto quello che vedevo erano solo pixel colorati che si muovevano di qua e di là senza uno scopo e... lasciai perdere. Il Commodore però lo utilizzai parecchio per imparare da autodidatta i primi rudimenti della programmazione Basic, esperienza che mi sarebbe servita in futuro (e mi serve ancora oggi) per poter affrontare certi problemi della vita con un minimo di logica. Se invece vogliamo espandere il concetto di "giochi" oltre lo schermo di un monitor, come non ricordare i lunghi pomeriggi rubati allo studio attorno a un tavolo da biliardo? Ricordo con nostalgia la piccola compagnia del Bar Mauro... A sedici anni ero anche bravino, sapete? Non bravissimo, ma bravo quanto bastava per riuscire a farmi offrire qualche spuma gratis, quando la sete si faceva sentire. E vogliamo parlare di quelle adrenaliniche bigiate mattutine trascorse alla sala biliardi dietro la scuola? E di quella volta che il professore di meccanica, giustamente sospettoso, ci venne a prelevare a domicilio proprio mentre il sottoscritto stava approcciando un "sette sponde" difficilissimo?
Se le geometrie del biliardo non avevano segreti, quelle tridimensionali del cubo di Rubik mi facevano andare invece in paranoia dura. Mai riuscito a completare nulla di più di una singola faccia. Non ho mai avuto abbastanza pazienza. Era un marchingegno diabolico di cui mi liberai alla prima occasione buona.
Ed è proprio scrivendo di bigiate che mi sono venuti in mente poco fa i due momenti gastronomici cult degli anni Ottanta, con i quali vado a congedarmi. Nei miei patetici tentativi di sfuggire alle interrogazioni capitava talvolta che finissi in Duomo (sto parlando di Milano, se non lo si fosse capito), dove mi aspettavano due gloriosi simboli della "Milano da bere": il mitologico Burghy in Galleria Vittorio Emanuele (che preferivo a quello in San Babila perché c'erano meno paninari) e lo storico panzerottificio Luini in Santa Redegonda, ancor oggi tappa obbligatoria per chi ha voglia di un po' di sano street food e non si lascia intimorire dalle lunghe code iniziate, guarda caso, negli anni Ottanta. Milano!
Il mio viaggio termina qui, anche se mi sto trattenendo dal citare luoghi culto come l'Astra Games e il Rolling Stones. Grazie a chi ha sopportato le mie interminabili storie. Un saluto particolare a Moz che ha innescato la miccia e a Ivano che l'ha cosparsa di benzina. (Dannati!)


Al-mummia

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You who left, you will return / You who slept, you will awake / You who passed away, you will be resurrected. (The Egyptian Book of the Dead)

No, "Al Mummia" non è un refuso. No, non è nemmeno un post sull'ultimo film con Tom Cruise quello che state leggendo, anche se un pochino devo ammettere che mi stuzzica l'idea che qualcuno possa finire per caso su questo blog digitando male l'articolo determinativo. Probabilmente quel qualcuno schizzerà poi via in un nanosecondo, ma c'è sempre una vaga speranza che un paio di click me li possa regalare.
Parleremo oggi invece proprio di "Al-Mūmiyā" (العربية), film datato 1969, lungometraggio primo e unico di Chadi (o Shadi) Abdel Salam (o Abdessalam), che ebbe il gran merito di far convergere l'attenzione del mondo occidentale verso un cinema allora pressoché sconosciuto come quello egiziano.
Nel fermento di questi ultimi giorni, suscitato dall'ennesima rivisitazione del mito cinematografico della mummia, potrebbe essere facile supporre che "Al-Mūmiyā" sia solo una delle tante opere derivate dal classico del 1932 con Boris Karloff, vero capostipite di un genere che non ha mai smesso di affascinare: sto parlando naturalmente di "The Mummy" di Karl Freund.

Niente a che fare, quindi? Sì e no. Diciamo che la risposta è positiva solo in parte. Ricordate i presupposti del vecchio film? Tre archeologi scoprirono il sarcofago contenente la mummia del sacerdote Imhotep e, leggendo un papiro ritrovato nei pressi della bara, riportano in vita il millenario sacerdote. Una storia per certi versi molto simile a quella narrata dall'omonimo (e forse più celebre) film Hammer del 1959, diretto dal regista Terence Fisher e interpretato dagli onnipresenti Peter Cushing e Christopher Lee. Un'altra mezza dozzina di film simili, girati soprattutto tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta, così come i più recenti, quello di Stephen Sommers del 1999 e l'ultimissimo di Alex Kurtzman, uscito nelle sale solo pochi giorni fa, si basano più o meno tutti sul principio secondo il quale gli antichi abitanti dell'Egitto fossero a conoscenza di particolari arti con le quali superare i vincoli terreni e l'ineluttabilità della morte. Il meccanismo che in questi film fa inevitabilmente scattare la molla è l'apertura di una tomba o di un sarcofago. Secondaria, invece, è l'intenzione di colui o coloro che "profanano" (il virgolettato è d'obbligo) il luogo sacro: la mummia, una volta risorta, sembra non voler fare una gran distinzione tra archeologi, seriamente intenzionati alla salvaguardia di beni storici, e tombaroli, il cui unico lo scopo è quello di depredare oggetti preziosi per poterli poi piazzare sul mercato nero del collezionismo.

In un modo o nell'altro, il messaggio è che non sono importanti le intenzioni del "predatore": l'importante è che il sonno dei morti non venga disturbato. Ed è un po' lo stesso messaggio che si cercò di trasmettere quando qualcuno iniziò a diffondere la leggenda della maledizione di Tutankhamon, che avrebbe colpito inaspettatamente tutti coloro che parteciparono alla ricerca e riportarono alla luce il luogo di sepoltura del sovrano egizio. Sappiamo ormai bene che non vi fu mai alcuna maledizione, e che l'unica morte che si può cronologicamente far coincidere con la scoperta della tomba fu quella di Lord Carnarvon, colui che nel 1922 finanziò la spedizione archeologica. L'archeologo Howard Carter, a capo della spedizione, morì ben diciassette anni più tardi, così come sopravvissero per decenni anche tutti gli altri partecipanti alla spedizione.
La domanda a questo punto è quasi d'obbligo: c'è davvero una netta differenza tra archeologi e collezionisti? Sono o non sono entrambi predatori?
È precisamente ciò che ci si chiede al termine della visione del film "Al-Mūmiyā", altrimenti conosciuto con il titolo internazionale di "The Night of Counting the Years", un film basato su eventi documentati che coinvolsero una spedizione archeologica francese, che nel 1881 effettuò scavi presso la necropoli tebana di Deir el-Bahri, e la popolazione locale, che già da tempo conosceva il sito e che lo utilizzava come personale magazzino di manufatti egizi da vendere sul mercato nero.
Il tema non è banale e scava in profondità (scusate il gioco di parole) nella questione della stessa identità egiziana: come si pongono le moderne generazioni nei confronti del passato faraonico del loro paese? Sono esse custodi delle memorie dei propri antenati, sono da considerarsi naturali eredi delle immense fortune che a loro appartenevano, o sono semplicemente generazioni di tombaroli che vivono del ricavato dei loro saccheggi?
La vicenda presentata dal regista Abdel Salam indaga nelle complesse relazioni morali tra l'archeologia ufficiale di stampo occidentale e quella locale, che critica la rimozione degli antichi manufatti egizi da parte di scaltri europei che, nascondendosi dietro termini quali "preservazione" e "progresso scientifico", non fanno altro che depredare i tesori di una cultura che non appartiene loro.
Questa differenza ideologica non è però solo quel tema accademico che viene mostrato, all'inizio, in una delle scene forse più pregevoli del film, ma una vera e propria spaccatura generazionale, una frattura insanabile che finirà per dividere uno stesso clan dall'interno. Il dramma è rivelato sin dalla prima inquadratura, dove assistiamo assieme a Wanis (Ahmed Marei) e a suo fratello maggiore (Ahmed Hegazy) alla sepoltura del corpo del padre Selim, guida politica e spirituale dell'antico clan Harbat. In una scena cupa e dolorosa, dominata da quel senso di angoscia che non cederà mai il passo a nient'altro sino ai titoli di coda, i due vengono messi a conoscenza dell'antico segreto di famiglia: la necropoli, da duemila anni inesauribile sorgente di ricchezza. Nel corso di un'abbondante ora e mezza, a tratti insopportabilmente lunga e totalmente girata nella luce soffusa di un perenne crepuscolo, Wanis e il fratello dovranno confrontare il loro istinto di appartenenza con il senso della propria morale, giungendo infine alla soluzione più dolorosa ma inevitabile.
L'antico fascino del mondo arabo, quello narrato in tante vecchie fiabe, permea ogni metro di pellicola ed è quasi naturale che "Al-Mūmiyā" sia considerato il capolavoro assoluto del cinema egiziano, spesso addirittura indicato come uno dei migliori film in lingua araba di tutti i tempi. "Al-Mūmiyā", alla cui produzione avrebbe partecipato, anche se non è ben chiaro in quale veste, il nostro Roberto Rossellini, non cede nemmeno per un attimo alla tentazione di trasformarsi in un horror e di confondersi con tanti altri film omonimi. La mummia del titolo non risorge, non si vendica dei suoi predatori e, a conti fatti, è decisamente meglio così.

Questo articolo partecipa al progetto inter-blog "Vieni dalla tua Mummy", ideato da Lucius Etruscus



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