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L'eredità di Lin Carter (Pt.1)

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Abbiamo iniziato questo viaggio tra gli Yellow Mythos qui sul blog quasi quattro anni fa. Ci siamo posti milioni di domande e solo ad alcune abbiamo trovato delle risposte, peraltro parziali e spesso un po' forzate. Come abbiamo visto nell'ultimo articolo della serie, James Blishè in procinto di fornirci un'opportunità incredibile: quella di immergerci nel lago di Hali e, attraverso le sue acque, giungere là sulla spiaggia dove onde di nubi si frangono, là dove Soli gemelli s’affondano e le ombre si allungano in Carcosa, là dove strana è la notte in cui sorgono stelle nere e strane lune ruotano nei cieli, là dove si odono canzoni che le iadi canteranno, là dove s’agitano i cenci del Re, là dove le canzoni muoiono inascoltate nell’oscura Carcosa.
Ma il tempo che sia fatta luce non è ancora giunto. Occorre prima intraprendere una piccola deviazione che, sebbene possa lasciare l'amaro in bocca a chi sperava in una rapida conclusione di questa serie, non mancherà di entusiasmare (almeno lo spero) chi desidera scavare sempre più a fondo tra le radici del mito. Il passaggio obbligato, come sarà chiaro in seguito, è quello che orbita attorno a una delle più prolifiche penne dello sword and sorcery dell'ultimo secolo: Lin Carter.

Scrittore, editore e critico scomparso sul finire degli anni Ottanta, Lin Carterè uno dei tanti nomi ingiustamente poco noti in Italia, se non per una limitata serie di racconti apocrifi, giunta a noi negli anni Settanta attraverso Editrice Nord, sulla figura di Conan il Barbaro, il leggendario personaggio creato dalla fantasia del celebre autore di heroic fantasyRobert E. Howard.
Naturalmente non sarà quest'ultimo il focus di questo articolo (che potrebbe facilmente trasformarsi in una serie di articoli, se le cose andranno come devono), bensì il lato più oscuro della produzione di Lin Carter, quella più weird, per usare un termine oggigiorno piuttosto (ab)usato. 
Non è affatto un mistero che due tra gli autori più graditi da Lin Carter fossero l'ideatore dei miti di Cthulhu Howard Phillips Lovecraft e il padre dell'horror fantascientifico Clark Ashton Smith (altro nome mai abbastanza celebrato nel nostro paese), così come non è affatto un mistero che Carter fosse talmente affascinato da certi temi da volerli riproporre numerose volte all'interno dei suoi racconti. Mi riferisco in particolare alla faccenda della pseudobiblia, quella diffusissima pratica, molto in voga negli anni d'oro della rivista Weird Tales, di utilizzare citazioni provenienti da libri inesistenti, intere opere inventate appositamente per creare un sottofondo mitologico agli avvenimenti narrati. 
Uno degli pseudobiblium più ricorrenti negli scritti di Lin Carterè senza dubbio il "Livre d'Ivonis", palese riferimento al famigerato Liber Ivonis o Livre d'Eibon (The Book of Eibon) la cui origine sarebbe da ricondurre al già citato Clark Ashton Smith. Secondo quest'ultimo, il testo conterrebbe le procedure necessarie a creare una porta inter-dimensionale tra il nostro mondo e il mondo dei Grandi Antichi. Sarebbe troppo lungo in questa sede scendere nello specifico, ma nel caso desideraste approfondire l'argomento potreste senz'altro iniziare dall'ottima analisi del Libro di Eibon scritta diverso tempo fa dall'esimio professor Lucius Etruscus (qui).
Altri testi fondamentali nella pseudobiblia citazionista Carteriana sono naturalmente gli innominabili culti (Unaussprechlichen Kulten) di Robert E. Howard e il classico dei classici, il lovecrafiano Necronomicon, entrambi già largamente approfonditi dall'etrusco di cui sopra (qui e qui). Il tutto senza contare l'immensa sorgente, a cui il nostro poté attingere, offerta da gente come August Derleth, Robert Bloch, Henry Kuttner, Frank Belknap Long e da mille altri che prima di Carter si cimentarono con la materia.
Oggi ci limiteremo a parlare di un solo fortunatissimo episodio della carriera citazionista di Lin Carter, un racconto uscito per la prima volta nel 1981 sul terzo numero del progetto antologico "Weird Tales", curato dallo stesso Carter e realizzato in omaggio alla storica rivista omonima. Il racconto, intitolato "The Winfield Heritance" (che il titolo di questo articolo cerca di parafrasare), è forse quello che più di ogni altro è ricco di riferimenti pseudobiblici e, senz'ombra di dubbio, possiamo prenderlo ad esempio.

Tutt’attorno le Voci mi sussurrano quanto facile sia completare il segno di Koth, che mi permetterà di superare i cancelli del sogno, là dove i Night-Gaunt, i Ghouls, e i Ghastes di Zin, presto mi accoglieranno; da lassù i grandi Byakhee alati, servitori di Hastur negli spazi oscuri tra le stelle, attendono il mio arrivo, per accompagnarmi in volo alla Stella Nera, là tra le Iadi dove, sulle nebbiose sponde del Lago Hali, giace Carcosa; là ai piedi dell’Antico Trono dove il Re in Giallo - proprio Lui, Yhtill, il Senza Tempo - riceverà la mia solenne promessa, e dove io finalmente riceverò la penultima ricompensa per la mia devozione; e finalmente il mio sguardo si poserà su Colui che si cela dietro la Maschera Pallida.

Il testo del racconto riprende una dichiarazione scritta di Winfield Phillips, un tempo segretario del Dr. Seneca Lapham alla Miskatonic University e ora miliardario in pensione grazie al frutto dell'eredità dello zio materno Hiram Stokely. In tale dichiarazione, nella quale si narrano le vicende che lo portarono a dubitare della propria sanità mentale, Winfield invita l'eventuale lettore a inoltrare il suo scritto al dottor Lapham affinché questi possa farne l'uso che ritiene più opportuno. Un incipit nel più classico stile del solitario di Providence, non vi pare?
Ad ogni modo, Hiram Stokely, che diversi anni prima si era trasferito dal Massachusetts alla California, praticava (a quanto si presume) rituali proibiti ai quali aveva avuto accesso tramite una monumentale collezione di testi antichi, raccolti nell'arco di tutta una vita.
Alla sua morte, Winfield decide di recarsi al funerale del vecchio zio, più per dovere di rappresentanza che per altro (non avendolo mai conosciuto di persona), assieme al cugino Brian. La città che ospitava lo zio Hiram gli appare subito come un luogo decadente, che ispira depressione e una certa nota di disagio. Le sue paludi stagnanti sembrano indebolire la luce e, come il cugino ha modo di illustrare a Winfield, probabilmente tutto è da ricondursi a un vecchio caso di cronaca noto come "The Hubble’s Field Atrocity", ovvero la scoperta di una fossa comune che accoglieva centinaia di corpi smembrati appartenenti a diverse epoche. È il "luogo dei vermi", così come lo definisce la gente del posto. E guarda caso, quel luogo è proprio adiacente alla residenza del vecchio zio.
Una vera beffa per il cugino Brian, che riceve in eredità il "contenitore" (una proprietà di scarso valore immobiliare); una vera manna per Winfield, che invece può disporre di tutto il "contenuto" della villa, inclusa l'imponente e preziosa biblioteca.



L'eredità di Lin Carter (Pt.2)

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Continuiamo oggi il nostro percorso di (ri)scoperta di Lin Carter, un autore che, anche se non ne abbiamo ancora svelato il motivo, ha contribuito enormemente alla causa degli Yellow Mythos.
La volta scorsa vi avevo segnalato un racconto piuttosto interessante, "The Winfield Heritance", apparso una trentina di anni fa sulle pagine di un testo antologico curato dallo stesso scrittore statunitense. Ciò che mi porta in questi giorni a parlarne nuovamente non è tanto lo spessore letterario del racconto in sé, non molto diverso dai tanti altri racconti che decine di seguaci di Cthulhu hanno dato alla luce nell'arco di un secolo, quanto l'incredibile elenco di pseudobiblia lì citati nel breve spazio di poche pagine.
Naturalmente, ciò che più di ogni altra cosa aveva inizialmente attirato la mia attenzione su "The Winfield Heritance" era la presenza di quel lungo paragrafo riportato integralmente nella prima parte di questo articolo; un paragrafo che mette in chiaro, se mai ce ne fosse bisogno, la grande passione di Carter per il Re in Giallo, una passione che avrebbe trovato il suo apice... ma stiamo correndo un po' troppo.
Oggi proviamo a stilare una lista degli pseudobliblia citati in "The Winfield Heritance", un piccolo esercizio fine a se stesso che ci servirà, se non altro, a introdurre Lin Carter in vista dei prossimi articoli. Mi auguro che l'onniscente etrusco, massimo esperto di libri inesistenti, possa venire a correggermi laddove dovesse trovare delle imprecisioni.
Si parte già dalle prime righe, dove il protagonista dichiara di essere un diretto discendente di tale reverendo Ward Phillips, pastore della seconda chiesa congregazionalista di Arkham.
Phillips sarebbe autore di un oscuro tomo dal curioso titolo di "Thaumaturgical Prodigies in the New-Englis Canaan", uscito in prima edizione a Boston nel 1794 e successivamente (1801) ristampato in forma ridotta, avendo cura di togliere o modificare le parti ritenute oscene o per qualche motivo sconvenienti. Il testo rappresenterebbe la cronaca, sotto forma di predica, di certi strani (e blasfemi) fenomeni avvenuti nel New England attorno al 1620, ai tempi della storica Rivoluzione. In esso verrebbero descritte le attività blasfeme di streghe, guerrieri, sciamani e di numerose altre creature maligne del New England coloniale. Phillips presterebbe anche particolare attenzione agli eventi che avvennero a Billington's Woods, vicino a Arkham, nel 1624, e sui quali sorvoleremo.

Ovviamente il "Thaumaturgical"altro non è che uno pseudobliblium, citato per la prima volta da August Derleth nel romanzo "The Lurker at the Threshold" (Il guardiano della soglia, 1945), scritto sulla base di alcuni frammenti lasciati da Lovecraft (che era morto, lo ricordiamo, nel 1937) e che venne pubblicato, in una sorta di collaborazione postuma, con la doppia firma Lovecraft-Derleth, nonostante il secondo avesse scritto praticamente il 99% del testo. Ne "Il guardiano della soglia", che con un pizzico di fortuna potreste trovare in una vecchia edizione Fanucci, uno dei personaggi è appunto il reverendo Phillips, al quale Derleth affida la biblioteca della celebre Miskatonic University. A causa di una serie di eventi che non starò qui a raccontare, il reverendo finirà per dare alle fiamme ogni copia esistente del "Thaumaturgical", rendendolo di fatto uno pseudobliblium perduto. 
Ma da dove arriva il reverendo Ward Phillips? Le ipotesi circa il suo nome, a quanto ne sappiamo, potrebbero essere due: la prima conduce a uno dei personaggi più famosi del solitario di Providence (Charles Dexter Ward), al quale sarebbe stato aggiunto il cognome Phillips in omaggio allo stesso Howard Phillips Lovecraft; la seconda ipotesi, forse più centrata, può ricondursi a un Ward Phillips (un semplice caso di omonimia?) citato nel racconto "Through the Gates of the Silver Key" (Attraverso le porte della Chiave d'Argento, HPL, 1932), che viene presentato come un cugino alla lontana di Randolph Carter (altro inflazionatissimo personaggio lovecraftiano).
A proposito di "Carter", il nostro Lin Carter accosta al "Thaumaturgical"altri due titoli che odorano parecchio di pseudobiblium ma che in realtà pseudoblium non sono: il "Magnalia" (Magnalia Christi Americana, 1702) e l'infernale "Wonders of Invisible World" (1692) di Cotton Mather, un pastore congregazionalista realmente vissuto nel New England nella seconda metà del XVII secolo e divenuto tristemente (e, a quanto mi risulta, ingiustamente) famoso in occasione del processo alle streghe di Salem.

La parte centrale del racconto, senza dubbio quella più interessante, inizia con l'ingresso del nostro protagonista nella biblioteca appena ereditata. Questa viene descritta come un ampio salone posto al secondo piano della villa e tappezzato di scaffali su tutte le pareti, dal pavimento al soffitto. A portata di sguardo vi sono testi di autori piuttosto normali; tra questi Mark Twain, Alexandre Dumas, Honoré de BalzacCharles Dickens, William Makepeace Thackeray, Walter Scott e alcuni poeti della Scuola del Lago: William Wordsworth, Samuel Taylor Coleridge e Robert Southey.
L'unica tregua a quell'infinita fila di libri è un piccolo spazio appena sopra la porta, nel quale troneggia un grottesco dipinto raffigurante creature bestiali in quello che sembra essere un cimitero. Tutte queste figure, dalle espressioni ghignanti, appaiono riunite attorno a una figura centrale intenta a consultare una guida turistica di Boston. La targhetta posta sotto la cornice riporta l'indicazione "Holmes, Lowell and Longfellow Lie Buried in Mont Auburn". L'autore si firma Richard Upton Pickman.
Si tratta, come è facile intuire, dell'ennesimo omaggio che Lin Carter concede a Lovecraft: dipinto e pittore sono infatti prelevati pari pari dal racconto "The Pickman's Model" (Il modello di Pickman, HPL, 1927), nel quale si narrano le vicende di un artista specializzato nel dipingere soggetti fantastici di inspiegabile realismo, tra i quali cimiteri e demoni divoratori di cadaveri. Siamo quindi di fronte a uno pseudo-quadrum (oddio, spero si dica così), ma quale significato nasconde?
I tre personaggi citati nel titolo dell'opera (Oliver Wendell Holmes Sr, James Russell Lowell e Henry Wadsworth Longfellow), ancora una volta personaggi reali, appartenevano una congregazione di poeti del New England denominata "The Fireside Poets" e attiva nei primi anni del XX secolo. Il Mount Auburn Cemeteryè anch'esso un luogo reale (si trova a pochi chilometri da Boston) e realmente ospita i resti mortali di Holmes, Lowell e Longfellow (curioso il particolare che nessuno degli altri membri della congrega fu sepolto a Mount Auburn). Osservando il dipinto, verrebbe da pensare che i tre poeti si siano in seguito trasformati in demoni oppure che siano stati divorati dagli stessi. Forse Howard Phillips Lovecraft aveva qualche conto in sospeso con i tre, per dedicare loro una simile citazione post-mortem? Credo che non lo sapremo mai. E non sapremo nemmeno se Lin Carter sapeva.
Direi che a questo punto ci siamo già dilungati ben oltre le nostre aspettative, per cui interrompiamo qua e rimandiamo il finale a un successivo articolo. Spero abbiate ancora un po' di pazienza.

Holmes, Lowell and Longfellow Lie Buried in Mont Auburn, Richard Upton Pickman
© Jason Thompson (@mockman) http://mockman.com/2012/05/14/lovecraft-sketch-mwf-pickmans-model-2/

L'eredità di Lin Carter (Pt.3)

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Ritorno oggi a occuparmi della montagna di citazioni pseudobibliche presenti nel breve racconto "The Winfield Heritance" di Lin Carter con la certezza che, ancora una volta, sarò costretto a rimandare la conclusione di questo articolo. Se vi siete persi l'inizio, vi raccomando di passare prima qui e poi qui. Volendo essere pignoli, ci sarebbero in realtà altri trenta post precedenti a questo, tutti catalogati sotto l'etichetta Yellow Mythos, che non sarebbe fuori luogo recuperare... ma capisco che l'eventuale impresa di un recupero totale sfiori ormai il titanico.
Eravamo comunque rimasti al punto in cui il nostro protagonista fa il suo ingresso nella biblioteca appena ereditata. A portata di sguardo ci sono numerosi volumi di autori classici e, sopra la porta d'ingresso, un dipinto il cui contenuto lascia già intuire la presenza, chissà dove, di testi ben più interessanti. Uno sguardo più attento porta infatti alla luce una seconda fila di libri nascosta dietro quella in primo piano. Niente di così misterioso, ci sarebbe da commentare. Trovatemi qualcuno che non si sia ridotto a sistemare i propri libri in doppia fila...
La seconda fila di libri del vecchio zio materno di Winfield è tuttavia cento volte più interessante di qualsiasi seconda fila noi possiamo avere nelle nostre case. Se noi siamo soliti nascondere alla vista i titoli più scrausi, quelli di cui più ci vergogniamo, i libri del vecchio Hiram Stokely erano al contrario i più rari e interessanti (fatto singolare per un collezionista, che si suppone debba tenere parecchio all'esibizione della sua raccolta).
I primi esemplari di un certo spessore portano la firma di un certo Edgar Henquist Gordon, autore ovviamente inesistente, come del resto lo sono i suoi libri. Salta subito all'occhio un romanzo intitolato "Night-Gaunts", pubblicato a Londra dalla casa editrice Charnel House. Un testo rarissimo, a detta del giovane Winfield, e di un certo valore nel mercato del collezionismo; si tratta, tra l'altro, dell'opera prima del suo autore, che a causa forse dell'eccessiva morbosità del suo contenuto rappresentò per chi lo scrisse un totale disastro in termini di pubblico e critica. 
Non sorprenderà nessuno il fatto che "Night-Gaunts" (letteralmente "magri notturni") sia un'ennesima citazione lovecraftiana. Si tratta nella fattispecie di un racconto lungo, piuttosto famoso, datato 1926, che vede come protagonista il più volte sfruttato Randolph Carter. Il racconto, The Dream-Quest of Unknown Kadath (Alla ricerca del misterioso Kadath), è una specie di diario del "Lovecraft sognatore", quello più rappresentativo della sua produzione, nel quale lo scrittore del New England va a riprendere e ad approfondire concetti e personaggi già intravisti nei suoi scritti giovanili (Celephaïs, Nyarlathotep).

In The Dream-Quest i "Night-Gaunts" sono delle creature magre, nere, senza volto, dai cervelli rudimentali, di forma vagamente umana e dotate di membrane alari, che si trovano a dover fare i conti con un personaggio di nostra conoscenza, quel Richard Upton Pickman, ex-pittore specializzato in quadri raccapriccianti, che qui ritroviamo trasformato in un ghoul, un non-morto divoratore di cadaveri (ovviamente, erano ghouls quei mostri ritratti nel dipinto "Holmes, Lowell and Longfellow Lie Buried in Mont Auburn" descritto la volta scorsa).
I "Night-Gaunts", per inciso, sono anche descritti in uno dei sonetti lovecraftiani raccolti sotto il nome di "Fungi from Yuggoth" (Gli orrori di Yuggoth, 1929-1930): "Fuori da quale cripta essi strisciano, non so dirlo / ma ogni notte vedo quegli esseri viscidi, / neri, cornuti, filiformi, con ali a membrana / e bifide code che terminano in uncini infernali".

Sempre a firma Edgar Henquist Gordon scopriamo "The Soul of Chaos", uno dei quatto testi pubblicati privatamente dal suo autore, e la rara copia di una vecchia e oscura rivista intitolata "Outré", contenente uno dei racconti più famosi di Gordon: "Gargoyle". Per saperne di più sul primo titolo dobbiamo bussare alla porta di Robert Bloch, autore di celebri pseudobiblia quali il De Vermis Mysteriis e il Cultes des Goules, che nel suo racconto "The Dark Demon" ne riporta un estratto: "Questo mondo è solo una placida isola in mezzo a neri mari d'infinito, e vi sono orrori che vorticano attorno a noi. Attorno a noi? Diciamo piuttosto "tra noi". Lo so, perché li ho visti nei miei sogni, e ci sono più cose in questo mondo di quante una mente sana può mai vedere."
La somiglianza con l'incipit del racconto "The Call of Cthulhu" (Il richiamo di Cthulhu, HPL, 1928) è raccapricciante: "Viviamo su una placida isola di ignoranza in mezzo a neri mari d'infinito, e non era previsto che ce ne spingessimo troppo lontano".
Il racconto di Robert Bloch già citato, in cui un narratore anonimo indaga sulla scomparsa di uno scrittore (guarda caso proprio quell'Edgar Henquist Gordon), ci porta a scoprire ulteriori collegamenti con i "Night-Gaunts" e con i "Gargoyles", dal che si evince che, ancora prima di HPL, è proprio l'autore di Psycho il destinatario dell'omaggio che Lin Carter ha voluto inserire in questa parte del racconto.

Altre copie della rivista "Outré" vengono alla luce, e con esse altre riviste intitolate "Whispers", nelle quali sono contenute storie di un giovane quanto geniale autore, tale Michael Hayward. Un autore realmente esistito? Macché! Se ne trova traccia solo all'interno di un racconto di Henry Kuttner (The Invaders, 1939) di chiara ispirazione lovecraftiana. In esso Hayward viene così descritto: "Michael Hayward era uno scrittore, unico nel suo genere. Pochi scrittori sono mai stati in grado come lui di ricreare quella strana atmosfera di orrore con la quale Hayward è riuscito a permeare le sue storie fantastiche. Aveva grandi imitatori – tutti i grandi scrittori li hanno – ma nessuno mai ne raggiunse l’estremo terrore che egli seppe raccontare, andando molto oltre i limiti umani. Gli elementali di Blackwood, i ripugnanti spettri di M.R. James– anche il nero orrore de “La Horlà” di Maupassant e de “La Cosa Maledetta” di Bierce - impallidiscono al confronto."
Le due riviste? Se inizialmente si poteva supporre che Outrè fosse un richiamo all'omonimo Pulp Magazine edito da Filmfax, dopo aver notato che la data di nascita di tale rivista è di oltre dieci anni posteriore alla stesura del racconto "The Winfield Heritance" ci si deve ricredere. Più probabilmente, Outrèè invece una citazione dell'omonima fanzine di Joseph Vernon Shea (1912-1981), uno scrittore horror che ebbe un lungo rapporto epistolare con H.P. Lovecraft e che collaborò con la piccola casa editrice amatoriale Esoteric Order of Dagon (da non confondere con l'omonimo ordine esoterico di cui abbiamo parlato qui qualche anno fa).
E che dire di "Whispers"? Qui siamo invece di fronte a una testata immaginaria il cui nome si può ricondurre, come sempre, a un racconto di Lovecraft (The Unnamable, 1923). "Whispers" vuole essere una sorta di versione immaginaria di Weird Tales, sulla quale scrivevano autori altrettanto immaginari: come il solito Randolph Carter, autore, secondo "The Unnamable", della pseudo-novelette più celebre dell'universo lovecraftiano: "The Attic Window" (apparsa, come precisa il narratore, nel numero di gennaio 1922). Una pseudo-rivista che è restata tale per mezzo secolo, ovvero fino al giorno in cui, grazie all'editore Stuart David Schiff, "Whispers" ha trovato un suo spazio nel mondo reale. La versione "palpabile" di "Whispers" intendeva raccogliere l'eredità della leggendaria Weird Tales e, per lo meno parzialmente, possiamo dire che ci sia riuscita grazie al contributo di Autori quali Fritz Leiber, Robert Bloch, Robert AickmanRoger Zelazny, Frank Belknap Long, Tanith LeeRamsey Campbell e Karl Edward Wagner. La rivista vinse il World Fantasy Award nella categoria riservata alle pubblicazioni "non professionali" (sebbene avesse tutta l'impressione di esserlo). Nel 1978, infine, a "Whispers" si affiancò un omonimo volume antologico ed entrambi proseguirono la loro avventura fino al 1987, finché non seguì, nel 1994, un corposo canto del cigno con l'aspetto di un corposo "Best of".


L'eredità di Lin Carter (Pt.4)

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Andiamo oggi a concludere questo lungo percorso tra le pagine di quel singolare racconto di Lin Carter intitolato "The Winfield Heritage", un racconto che a quanto pare è talmente ricco di citazioni da rendere quasi impossibile, seppur prestando la massima attenzione a ogni singola parola, non lasciarsene sfuggire qualcuna. È invece possibile, al contrario, lasciarsi prendere la mano dall'euforia, e trovare citazioni anche laddove non ce ne sono, o dove sono solo involontarie. Lo stesso titolo del racconto potrebbe infatti richiamare il nome di battesimo del padre di HPL, che, come sappiamo, era proprio Winfield (Scott Lovecraft), scomparso prematuramente quando il nostro aveva solo otto anni. Ci sono però ancora delle importanti citazioni pseudobibliche che vale la pena menzionare; e queste non sono certamente da attribuire al caso. 
Eravamo alle prese, come ricorderete se avete letto le parti precedenti (qui, qui e qui), con la perlustrazione della biblioteca appena ereditata dal nonno da parte del protagonista Winfield Phillips (abbiamo già detto che "Phillips" era il cognome della madre di HPL?).
Il successivo volume ad attirare la sua attenzione si intitola "Azatoth and other horrors". Si tratta di un volume piuttosto scarno contenente una serie di liriche redatte dal poeta sensitivo Edward Pickman Derby. Una prima edizione di sole 50 copie fu mandata in stampa, senza dare troppo nell'occhio, da una piccola casa editrice di Cambridge nel 1916; una successiva edizione di 1400 copie, in una copertina rigida impreziosita da disegni dell'artista Jackson Eckhardt, fu stampata nel 1919 dall'autore stesso con l'ausilio della Onyx Sphinx Press di Arkham e raggiunse una discreta diffusione, al punto che ancora oggi i più fortunati possono trovarne una copia in talune imprecisate librerie dell'usato. Secondo il racconto "The Terror from the Dephts" di Fritz Leiber, un ignaro tedesco avrebbe trovato il prezioso scritto all'interno di un cofanetto acquistato all'asta, assieme al quale venne alla luce anche una rarissima copia del "The Tunneler Below" di Georg Reuter Fisher (Ptolemy Press, Hollywood, California). Il testo di Derby fu poi finalmente ristampato nel 1945 dalla Vartan Bagdasarian’s Azathoth House, divenendo un oggetto di culto ad oggi valutato circa $500 sul mercato del collezionismo. I pochi che hanno avuto la fortuna di averlo fra le mani riferiscono che, oltre al poema che dà il titolo alla raccolta, il volume includerebbe tra l'altro “Nemesis Rising”, “Charnel House”, “To Asenath”, “Dead But Not Gone” e “Medusa’s Kiss”. Un quasi omonimo testo ("Forever Azatoth and other horrors") sarebbe poi stato scritto da Peter Cannon e pubblicato per la Tartarus Press nel 1999 (questo è un libro vero di un autore vero... controllate su Amazon).

Il poeta Edward Pickman Derby è ovviamente irreale e, lo avrete già capito, quel "Pickman" deriva ancora una volta dal personaggio descritto da Lovecraft in "The Pickman's Model" (Il modello di Pickman, 1927). La sua biografia ufficiale stabilisce i suoi natali ad Arkham nel 1890 e rivela che, dopo un percorso di studi piuttosto anonimo presso la Miskatonic University, il nostro si ritirò nella solitudine del Crowninshield Manor nei pressi di Innsmouth assieme alla moglie Asenath Waite. La loro storia è narrata nel dettaglio da Lovecraft nel celebre racconto "The Thing on the Doorstep" (La cosa sulla soglia, 1933).
Se per Fritz Leiber"Azatoth" faceva il paio col misterioso testo di un tale Fisher, per Lin Carter esso era accostato a un libro di liriche di Justin Geoffrey, amico di gioventù di Edward Pickman Derby e suo compagno di studi alla Miskatonic. Il titolo dello scarno volumetto venuto alla luce nella biblioteca dello zio di Winfield Phillips, per la cronaca, è "The People of Monolith". 
Di questo testo immaginario parla ampiamente Robert E. Howard, che abbiamo già avuto modo di citare nella prima parte di questo lungo articolo. Nel suo racconto "The Black Stone" (La pietra nera, 1931), Howard scrive infatti: "Cercando informazioni venni a sapere che Geoffrey l'aveva scritta [la poesia "Il popolo del monolito", ndr] durante un suo soggiorno in Ungheria e non dubitavo che la Pietra Nera fosse proprio il monolito a cui si riferiva nei suoi versi bizzarri. Rileggendo le strofe, avvertii di nuovo la strana, inspiegabile eccitazione che avevo provato la prima volta in cui avevo letto della pietra.". Di Geoffrey si dice che fosse giunto presso un piccolo villaggio ungherese detto Stregoicavar (letteralmente "paese delle streghe"), dove "fece e disse delle cose strane" prima di morire, delirante, in un manicomio. Servirebbe a questo punto una lunga digressione sul famigerato "Unaussprechlichen Kulten" di Friedrich von Junzt, nel quale si fanno ampi riferimenti alla pietra nera e alle sue origini, ma rischieremmo di uscire troppo dal seminato. Credo che per ora basti solo citare un brano da "The People of Monolith" così come lo riporta lo stesso Howard: "Par che maligni esseri ancestrali / ancor si annidino in cupi, obliati angoli del mondo / e che porte si apran, certe notti, / per liberare creature infernali.". Altri estratti dalle opere di Justin Geoffrey sono presenti nel racconto "The House" (La casa), sempre di Howard.

Tutto qui? Nient'affatto. Ecco che in fondo a un altro scaffale polveroso si nasconde il manoscritto originale di "Black God of Madness" di Amadaeus Carson, mai pubblicato, e che gli esperti ritenevano ormai per sempre perduto. Si supponeva anzi che il romanzo di Carson non fosse stato mai terminato e che il suo Autore, in preda alla follia, avesse dato alle fiamme il manoscritto nelle ultime tragiche ore trascorse in quella che egli, all'interno della sua dimora, chiamava "la stanza della strega". Stiamo ovviamente parlando di finzione nella finzione: Amadaeus Carson e il suo romanzo "Black God of Madness" sono infatti i protagonisti del racconto “The Salem Horror” (1937) di Henry Kuttner.
Devo proseguire? Ecco allora un altro manoscritto inedito: "The Witch is Hung" di Simon Maglore. La fonte? Ancora una volta, presumibilmente, dobbiamo riferirci a Robert Bloch, che narrò le disgrazie di un omonimo Maglore (probabile contrazione di Magical Lore, ovvero folclore) nel suo racconto "The Mannikin" (1937). Nel testo il protagonista è vittima di una creatura senziente che cresce sulla sua schiena, sviluppandosi da quella che pareva essere una semplice gobba. Ipotizzabile, ma non certa, l'ispirazione al classico lovecraftiano "The Dunwich Horror" (1928).
Altre due perle: una prima edizione di "The Secret Watcher" di Halpin Chalmer, edita dalla londinese Charnel House e, sempre dalla stessa casa editrice, "Visions from Yaddith", opera in versi di Ariel Prescott. Sembrano davvero infinite queste citazioni: Halpin Chalmer è il protagonista del racconto "The Hound of Tindalos" (1929) di Frank Belknap Long, nel quale troviamo anche un lungo estratto dello pseudobliblium Chalmeriano: "Come reagireste se vi dicessi che, parallelamente alla vita che conosciamo, ci fosse un'altra vita che non muore? [...] Forse in un'altra dimensione c'è una forza diversa da quella che genera la nostra vita. Forse questa forza emette energia [...] Ah, ma io ho visto le sue manifestazioni. Ho parlato con loro. Nella mia stanza di notte ho parlato con i Doels. E nei sogni ho visto il loro creatore, [...] oltre i confini del tempo e della materia, e ho visto...". Dell'esistenza dei Tindalos, creature antichissime dedite a perseguitare i viaggiatori del tempo, troviamo conferma in Lovecraft, che le citò in "The Whisperer in Darkness" (Colui che sussurrava nelle tenebre, 1931) e, più di recente, in John Ajvide Lindqvist ("Tindalos", 2014). Come degna conclusione, Ariel Prescott appare in "The Dreams in the House of Weir" di Lin Carter (un'autocitazione, quindi), così come, udite udite, è lo stesso Lin Carter il reale autore di una raccolta di poesie dal titolo "Visions from Yaddith"....

Siamo arrivati alla conclusione di questo lungo viaggio. Winfield Phillips, il protagonista di "The Winfield Heritage", pare aver rivoltato da cima a fondo la biblioteca del defunto zio. C'è ancora però un'ultima cosa da scoprire: quel passaggio segreto celato dietro uno scaffale mobile che, attraverso uno stretto corridoio, conduce a una sala dove ben altri infernali testi sono tenuti nascosti. Non dirò altro: lascerò tutto alla vostra immaginazione, o al vostro desiderio di conservare intatto il piacere della lettura di "The Winfield Heritage".
A me invece resta solo una cosa da fare: spiegare cosa c'entra tutto questo con gli Yellow Mythos. Ricordate come avevo iniziato questa piccola serie di post? Avevo citato quell'altro vecchio post, dove rivelavo che James Blish era riuscito a "materializzare" il famigerato "King in Yellow" e, in quell'occasione, mi ero riproposto di rivelarne i contenuti qui sul blog. Ebbene, anche Lin Carter si è cimentato nella ricostruzione del "King in Yellow", in parte rielaborando il testo di James Blish e in parte riscrivendone interamente ampie parti. Mi era quindi impossibile parlare dell'uno senza parlare anche dell'altro... e questa lunga introduzione a Lin Carter, al suo stile di scrittura e alla sua passione per le citazioni pseudobibliche era decisamente necessaria.

Traditi dalla fretta #3

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Sono trascorsi già due mesi dall'ultima volta che questa rubrica è apparsa qui sul blog. Due mesi che, non lo nascondo, sono stati piuttosto impegnativi per via di faccende che nulla hanno a che fare con il blog.
Se da una parte gli impegni lavorativi si sono ulteriormente moltiplicati, talvolta spingendomi lontano da casa in trasferte totalmente prive di senso, dall'altra c'è l'avvicinarsi inesorabile del mio compleanno che, quest'anno più che mai, mi getta nella depressione più nera.
I numeri tondi fanno sempre impressione. Me ne hanno fatta sin dal primo compleanno in doppia cifra, quel giorno ormai remoto in cui per la prima volta in vita mia realizzai che il tempo stava passando. E stavo compiendo solamente dieci anni. Non ho un ricordo ben preciso dei miei vent'anni, ma credo non sia andata così male. Più tragici furono i miei trenta, giunti in un momento della mia vita in cui per puro miracolo non stava finendo tutto nel cesso. L'arrivo degli "anta" mi colse più o meno alla sprovvista, ammortizzato da un contorno decisamente molto più promettente. Oggi altri dieci anni sono passati, e l'idea di dover tirare altre somme mi inquieta e non mi lascia dormire la notte.
Quale miglior momento quindi per spezzare questa angoscia e uscire con una nuova puntata di "Traditi dalla fretta"? A beneficio di coloro che non sanno ancora di cosa si tratta, posso semplificare il tutto dicendo che questa rubrica è una sorta di nodo al fazzoletto digitale, nella pratica la macchina del tempo che spero mi aiuti a recuperare il tempo perduto. L'idea di base l'ho ampiamente descritta nel "numero zero" introduttivo, mente la sua intelaiatura l'ho illustrata nel "numero uno". In questa puntata sarò però molto meno vario in ciò che presenterò, visto che saranno quasi tutte segnalazioni di cose succose in arrivo. Non ci resta che procedere.

In preparazione il più terrificante evento blogosferico dell'estate
NOTTE HORROR 2017

Anche quest'estate, come ormai è abitudine piuttosto consolidata, tornano gli appuntamenti del martedì con la Notte Horror in versione blogghesca.
A chi bazzica da queste parti solo da tempi recenti, posso dire che si tratta di un'iniziativa multi-blog che intende omaggiare quei meravigliosi appuntamenti che, negli anni Novanta, ci tenevano incollati ai teleschermi, ben sintonizzati su Italia 1.
Le Notti Horror televisive, che puntualmente si ripetevano ogni martedì d'estate, proponevano lunghe maratone di filmacci horror tra i più demenziali della storia ma, nonostante questo piccolo particolare, quegli appuntamenti sono rimasti impressi nell'immaginario di un'intera generazione.
Rievocare sul blog (su sedici blog, per la precisione) un pizzico di quel fascino perduto è cosa non da poco, ma ci proviamo, e mal che vada potremo dire di esserci divertiti.
La formula è molto semplice: due post ogni martedì, uno programmato alle ore 21:00, l'altro alle 23:00.
Tre semplici regole: 1) tassativamente horror; 2) preferibilmente tamarrata; 3) possibilmente anni 70-80-90.
Si inizia martedì 11 luglio proprio qui su Obsidian Mirror e si andrà avanti fino a fine agosto. Il programma ufficiale lo trovate qui a destra e sarà presto spammato in ogni dove. I link ai vari post saranno palesati di volta in volta, se avrete la pazienza di seguire la rassegna dall'inizio alla fine. Non mancate, mi raccomando!

Segnalazioni, divagazioni, varie ed eventuali
HEROES IN HAIKU

Matsuo Basho "Poems on Tanzaku paper"
Sono aperte sino al 5 settembre 2017 le iscrizioni al concorso HEROES IN HAIKU, organizzato dall’associazione RiLL Riflessi di Luce Lunare col supporto del festival internazionale Lucca Comics & Games. 
HEROES IN HAIKU è un concorso gratuito. Possono partecipare tutte le composizioni formate dall’insieme di una fotografia e di un componimento poetico di ispirazione giapponese (l’haiku, appunto: un semplice componimento in tre versi). Il tema del concorso è “Heroes”, in linea col tema dell’edizione 2017 del festival di Lucca.
Con HEROES IN HAIKU l’associazione RiLL vuole festeggiare i propri venticinque anni di attività: una buona occasione per lanciare un nuovo concorso di argomento non strettamente letterario (diversamente dai concorsi Trofeo RiLL e SFIDA, entrambi rivolti ai racconti fantastici, che RiLL organizza rispettivamente dal 1994 e dal 2006).
Si può partecipare a HEROES IN HAIKU con una o più composizioni, sia in forma individuale (autore singolo) sia in forma collettiva (es. un autore per la fotografia, un autore per l’haiku). Le fotografie possono contenere sia soggetti inanimati sia soggetti umani (es. primi piani, figure intere, gruppi o singoli, in costume o no, riconoscibili o no). Tutte le fotografie e gli haiku inviati al concorso devono essere originali e di piena proprietà artistica degli autori partecipanti. Per maggiori informazioni su HEROES IN HAIKU si rimanda al bando di concorso e al sito di RiLL, che ospita una sezione ad hoc.

Libri che non mancherò di leggere ed eventualmente recensire sul blog 
ICILIO BIANCHI: IL FANTASTICO PERDUTO 

Una fanciulla indiana muore avvelenata da uno spasimante respinto. Un uomo è perseguitato dai nefasti poteri di uno sfavillante gioiello. La polizia indaga sull’oscuro omicidio del guardiano di un cimitero londinese. In un castello scozzese un vecchio professore vuole risolvere l’enigma della morte di una celebre attrice. In un angolo sperduto dell’India un crudele principe deve pagare le conseguenze delle sue scellerate azioni. A unire questo universo di gialli a tinte fantastiche c’è la penna tesa e sottile di Icilio Bianchi, autore della prima metà del Novecento di cui si sa pochissimo. Un mistero nel mistero, dunque, che Cliquotvuole svelare pubblicando questa raccolta di racconti apparsi per la prima volta nel 1907.
Icilio Bianchi (1890-19??) è stato giornalista e scrittore. Le uniche informazioni che si hanno di lui sono quelle che si desumono dalle testimonianze scritte che ha lasciato. Direttore di varie riviste di inizio Novecento come “La settimana illustrata”, “L’Attualità” e molte altre, fu corrispondente da Bruxelles per il “Corriere della Sera”, “Il Piccolo” e “Il Messaggero”, e corrispondente da Milano per il francese “Le Matin”. Scrisse diverse opere di narrativa gialla e per ragazzi.

Non ci crederete, ma avevo già sentito nominare anni fa questo Icilio Bianchi. Ne aveva fatto cenno Federico Foni nel suo fondamentale "Alla fiera dei mostri; racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane 1899-1932".
Non che fossi mai riuscito a leggere niente di suo, intendiamoci (impresa praticamente impossibile), ma se il suo nome mi era rimasto impresso fu certamente per via di quella buffa anglicizzazione della sua firma sui racconti (Ycil Withes, scritto proprio così). Quasi non riuscivo a credere alla notizia, di appena un paio di giorni fa, che la solita combriccola della Cliquot fosse riuscita a mettere le mani su quei racconti perduti e a riproporli, in tutto il loro splendore, dopo oltre un secolo di oblio.
Con la prefazione di Enrico Rulli (che da sola vale il prezzo dell'ebook) e le illustrazioni originali di Ottavio Rodella, il prossimo 18 luglio uscirà nella collana "Generi" questo attesissimo "I racconti della biblioteca fantastica", titolo che richiama quello storico settimanale milanese, diretto da Luigi Motta, che nel 1907 pubblicò i racconti di quel ragazzino di nome Icilio Bianchi. Ho usato l'aggettivo "storico" anche se in realtà quell'antico settimanale ebbe vita piuttosto breve (solo sedici numeri); un particolare, questo, che non fa che aumentare il valore di questo "recupero impossibile" da parte della piccola casa editrice. Se vi ho incuriosito, nei prossimi giorni tenete monitorato il sito di Cliquot e la loro pagina Facebook.

Libri che non mancherò di leggere ed eventualmente di recensire sul blog 
LA BESTIA DALLE CINQUE DITA

Altra incredibile chicca per gli amanti del fantastico d'antan è l'ultima proposta di Hypnos, che va a riesumare un nome sepolto nell'oblio, quello del britannico W.F. Harvey, autore specializzato in racconti brevi e macabri di cui il più celebre è probabilmente quello che dà il titolo alla raccolta. "La bestia dalle cinque dita", storia di una mano disincarnata che semina il terrore, fu anche lo spunto per un omonimo film del 1946 diretto da Robert Florey, regista francese conosciuto per "L'uomo senza volto" (1936) e per qualche sporadico episodio di "Ai confini della realtà".
L'arrivo di questo volume è naturalmente un'occasione unica per scoprire un nome mai prima d'ora tradotto in Italia. Chi ne fosse attirato lo può trovare sia in ebook che in cartaceo, anche attraverso il circuito di librerie Feltrinelli.
Quella che segue è la presentazione ufficiale della casa editrice, che copio e incollo spudoratamente.
È forse la superstizione ad aprire le porte del soprannaturale? È semplice sfortuna, o c'è qualcosa di più misterioso dietro l'inquietante presenza della signorina Cornelius? Siamo certi che solo nel cervello dell'uomo possa risiedere "lintelligenza"? E se la fine dei nostri giorni fosse già stata decisa, come ci comporteremmo? Ci sarà spazio anche per noi nell'Habeas Corpus Club? Tra inquietanti presenze femminili, giochi mortali, fantasmi che si annidano nell'ombra del tempo e divertissement letterari, l'inglese William F. Harvey ci conduce in un mondo in cui il mistero si annida dietro l'angolo, in una sorta di "gatto di Schrödinger" del soprannaturale. «La bestia dalle cinque dita» è il primo volume che appare in Italia dedicato a William Fryer Harvey, autore di storie di fantasmi, e contiene sedici storie del mistero e del soprannaturale, tra cui due classici del fantastico «Calura d'agosto» e «La bestia dalle cinque dita».
Inoltre, dalla postfazione di Claudio Di Vaio: “Il suo stile piano e privo di coloriture ben si adatta a una voce narrante che raramente il lettore percepisce come altra da sé e ciò consente all’elemento soprannaturale di permeare lo spazio del quotidiano in maniera quasi impercettibile. Molti dei racconti di Harvey terminano con una frase a effetto, sovente ironica, che equivale spesso a un anticlimax, quasi a voler chiudere il cerchio della storia, ingabbiando l’elemento irrazionale e fantastico e seminando il dubbio nella mente del lettore. […] La paura non abita più forme mostruose al di fuori di noi stessi, ma si nutre invece dei nostri timori e delle nostre fobie inconfessate, conferendo alla realtà che ci circonda il colore di un oscuro malessere.”

Libri che non mancherò di leggere ed eventualmente di recensire sul blog 
LA PAURA DI VINCENZO ABATE

La paura è una delle sensazioni più forti che ha accompagnato l'umanità fin dagli albori, una delle emozioni più concrete e potenti che l'autore ha cercato di riproporre con forza in queste pagine. "Paura"è una raccolta di racconti che toccano diversi generi ma che risultano, a un'attenta analisi più approfondita, una vera e propria dichiarazione di amore che l'autore fa nei confronti del genere horror. Prendendo spunto dai grandi maestri della letteratura dell'orrore, come Poe e Matheson, Vincenzo Abate ha tentato di portare su carta gli incubi che l'hanno sempre ossessionato fin da ragazzino. Spaventosi clown assassini, folli predicatori, strani culti segreti, oscure apparizioni notturne. "Paura"è un recipiente ricolmo di alcuni dei peggiori incubi che siano mai stati concepiti.
Vincenzo è una vecchia conoscenza qui sul blog. Ne avevamo parlato, se vi ricordate, più o meno un anno fa in occasione di quella mia vecchia recensione di un'altra sua raccolta di racconti intitolata "L'estraneo nello specchio".
Parecchia acqua è passata sotto i ponti da allora e la curiosità di capire come lo stile di Vincenzo si possa essere evoluto in questo lasso di tempo è per me praticamente invincibile. Se nella raccolta precedente mi ero divertito a passare sotto la lente d'ingrandimento i diciotto titoli, identificando in questo modo anche alcune piccole incertezze, erano ben evidenti le potenzialità a cui un po' di allenamento avrebbe potuto facilmente sopperire. L'attesa è stata lunga, le premesse ci sono... Cos'altro manca? Un salto su Amazon, per esempio...

Segnalazioni, divagazioni, varie ed eventuali
I FILM CHE NON VEDRETE MAI

Aldo Lado, sceneggiatore e regista nato a Fiume ma veneziano di adozione, ha realizzato un centinaio di lavori, tra cinema e televisione. Alcuni dei suoi film, ormai cult, vengono rieditati in molti Paesi e presentati in retrospettive. Da un paio di anni si dedica alla letteratura. Ha pubblicato dei racconti nell’antologia "Nuovi Delitti di Lago" e altri suoi romanzi sono in via di edizione. In questo libro ha raccolto una selezione di storie scritte per il cinema tra gli anni ’60 e i ’90 e mai arrivate sullo schermo. I film che non vedrete mai ripercorre quindi il succedersi dei generi che hanno caratterizzato la nostra cinematografia in quegli anni.
Questa è bella! Davvero Aldo Lado scrive libri? Personalmente l'ho scoperto solo pochi giorni fa, esattamente il 26 giugno 2017, data della presentazione di questo "I film che non vedrete mai". Evidentemente invece è proprio così, visto che la quarta di copertina accenna a romanzi e racconti scritti in tempi anche abbastanza recenti.
Non posso che essere lieto di questa nuova linfa che sgorga dal mitologico regista di capolavori assoluti come i gialli "La corta notte delle bambole di vetro" con Jean Sorel (1971) e "Chi l'ha vista morire?" con la piccola Nicoletta Elmi (1972), visti e rivisti decine di volte senza mai un attimo di noia... E che dire del suggestivo "Sepolta viva" (1973) con un'esordiente Agostina Belli, e del violentissimo "L'ultimo treno della notte" (1975) con Flavio Bucci? La sola idea che tanti film simili a quelli appena citati siano rimasti (e rimangano) incompiuti mi mette un'ansia che non so descrivere. A voi no? Se siete anche voi in ansia, vi suggerisco vivamente di andarlo a trovare su Facebook: potrete ascoltare la genesi de "I film che non vedrete mai" direttamente dalla sua viva voce!

Non si deve profanare...

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Molte cose non si dovrebbero profanare. Una di queste, molto semplicemente, è quella vecchia regola non scritta che fin dal giorno della sua nascita questo blog si è auto-dettato: la regola di non recensire cagate.
Vi state forse chiedendo come sia possibile mantenere fede a quella vecchia promessa e allo stesso tempo uscire con un'immagine come quella che ho postato qui a sinistra? La risposta è molto semplice: non tutte le cagate sono uguali, ci sono quelle attraverso le quali è possibile raccontare una storia e quelle fini a se stesse e che è meglio lasciar perdere.
Non c'è contraddizione, quindi, nel presentare oggi la recensione di un vecchio film che, solo apparentemente, appartiene alla seconda categoria. D'altra parte non sarebbe nemmeno la prima volta... nel senso che non sarebbe la prima volta che il sottoscritto riesce portare a casa una partita che pare persa in partenza.
Questo è uno di quei titoli, per inciso, che avrebbe potuto fare la sua porca figura su quel vecchio e defunto blog su cui scribacchiavo un tempo (ecco, quello sì che era un blog dove si alternavano cag.. ehm... recensioni di tutti i tipi), ma sono certo che alla fine non finirà per sfigurare nemmeno qui.
Un film di zombi? Esatto, proprio un film di zombi. E per di più una produzione italo-spagnola degli anni Settanta. Le premesse non sono delle più facili, ma posso iniziare a dire che "Non si deve profanare il sonno dei morti" (1974) ha ben più di un motivo per elevarsi oltre la media rasoterra che contraddistingue i suoi simili.
Il primo motivo è piuttosto personale: questo è uno di quei film che vidi da ragazzino al cinema e che, al pari dei vari Phantasm, Patrick, Holocaust 2000 e chi più ne ha più ne metta, ha sempre conservato un piccolo spazio nel mio cuore e che ho sempre sperato di poter rivedere.
Ho già più volte parlato di quel piccolo cinema di fronte a casa mia dove appena potevo mi fiondavo, in barba alla "regola aurea" secondo la quale il genere horror era da evitare, per cui non tornerò sull'argomento (credo anzi di averne parlato proprio in occasione delle recensioni di quei tre film citati poco fa). 
Il secondo motivo è anch'esso decisamente personale: al pari di Circuito Chiuso di Montaldo, questo è un film della cui reale esistenza ho dubitato per anni, quasi come se fosse un mio falso ricordo. Nella mia mente avevo solo vaghe reminescenze, non tanto della trama in sé (tutt'altro che originale), quanto della causa scatenante dell'apocalisse zombi: una macchina agricola sperimentale ad ultrasuoni utilizzata come antiparassitario. Un'idea interessante, se non altro sotto il profilo ecologista, che ovviamente mostrò rapidamente il rovescio della medaglia: i cervelli più semplici, vale a dire quelli dei neonati nelle culle e quelli dei defunti nelle bare (purché ancora freschi di camera ardente), venivano cortocircuitati dagli ultrasuoni, con il risultato che possiamo immaginare.
L'altro particolare di cui avevo assoluta certezza era il titolo: "Zombi 3"...

Peccato che il classico "Zombi 3" (1988) di Lucio Fulci non rispecchiasse affatto i miei ricordi (oltre al fatto che le date non coincidevano). L'omonimo fulciano, che mi misi un giorno a vedere pieno di speranze, si rivelò infatti una delle più atroci visioni a cui abbia mai assistito: sceneggiato male, girato peggio... insomma, una porcheria che non poteva assolutamente confondersi con ciò che mi frullava nella testa. 
L'altro indizio era il sottotitolo: "Da dove vieni?". Ricordavo perfettamente quel "Da dove vieni?" che sui cartelloni appariva in piccolo appena sopra "Zombi 3" (così che il titolo completo avrebbe potuto benissimo essere "Da dove vieni, zombi 3?"... un titolo improbabile ma plausibile).
La risposta arrivò per caso molto tempo dopo, quando vagando sul web incappai nell'immagine di uno zombi barbuto, con la testa fasciata e il petto indignitosamente villoso. Era lui! Era proprio uno di quegli zombi che avevano impresso la mia memoria come una lastra fotografica. 
La soluzione dell'enigma del titolo fu incredibile: quel film venne distribuito in Italia tre volte con tre titoli diversi. L'originale "Non si deve profanare il sonno dei morti"è del 1974, dopodiché lo stesso film venne riproposto la prima volta nel 1976 con il titolo "Da dove vieni?" e, siccome non bastava ancora, riesumato nuovamente nel 1981 con il titolo "Zombi 3". I motivi di queste operazioni sono abbastanza ovvi: nel primo caso si intendeva cavalcare l'onda di altre pellicole dai titoli coniugati nella forma interrogativa (tra tutti il "Chi sei?" di Ovidio Assonitis, 1974), nel secondo si voleva sfruttare il successo dello "Zombi" di George Romero (1978), pur tenendo conto dell'esistenza di un precedente "Zombi 2" fulciano (1979).
Non credo sia opportuno commentare questa usanza tipicamente anni Settanta di insultare gli spettatori paganti con riciclaggi indiscriminati di materiale già visto. In fondo, all'estero non andava poi tanto meglio: nei paesi in lingua anglosassone "Let Sleeping Corpses Lie" (traduzione non fedelissima, ma accettabile) si tramutò improvvisamente prima in "The Living Dead at the Manchester Morgue", poi in "Don't Open the Window"... per un totale, secondo la wikipedia inglese, di 16 diversi titoli internazionali.

Detto questo, sono riuscito a rivedere, oltre trent'anni più tardi, il film che avevo in mente e posso finalmente confermare che sono ben più che semplici motivi affettivi quelli per cui a mio parere "Non si deve profanare il sonno dei morti" (1974) riesce ad elevarsi ben oltre la media.
Innanzitutto, ci sono quelle malsane atmosfere rurali che in parte ricordano quelle della "Bassa Padana" raccontate nei suoi film da Pupi Avati. Siamo ovviamente molto lontani dai "terreni kappa" romagnoli, visto che la produzione girò gli esterni nelle campagne inglesi appena fuori Manchester, ma non per questo il quadro complessivo è scevro di quelle stesse atmosfere "malate".
Il regista spagnolo Jorge Grau, già salito agli onori delle cronache con il precedente "Ceremonia sangrienta" (1973), interpretato da Lucia Bosè e incentrato sulla vita della contessa ungherese Erzsébet Báthory, dovette però venire a Cinecittà per trovare i finanziamenti per la realizzazione del suo horror zombesco. Evidentemente, nonostante i propositi riformisti ventilati dal Ministro dell'Informazione Pio Cabanillas Gallas, che era allora a capo della censura cinematografica del governo Navarro, il peso opprimente della dittatura franchista in Spagna era ancora piuttosto rilevante. 
Una sensazione, questa, più volte percepibile tra i fotogrammi del film, specialmente in quella scena iniziale, apparentemente fuori contesto, nella quale una tizia completamente nuda attraversa di corsa una strada di Manchester. 

Piccola digressione: quella scena, che per ovvi motivi era rimasta bene impressa nella memoria di quel ragazzino che ero, mi consente oggi di realizzare che non è stato solo il titolo del film a cambiare negli anni, ma anche il doppiaggio. Nella versione originale, quella che si trova su YoutTube, la tizia attraversa la strada in silenzio, mentre nella versione del 1981, lo ricordo benissimo, lo fece al grido di "Viva la liberta!". Fine digressione.
Ed è proprio in quelle sequenze iniziali, in cui il nostro Ray Lovelock attraversa in moto il centro della città di Manchester, che si può ricercare il significato sommerso del film: un messaggio ecologista che oggi pare abbastanza ovvio, ma che nel 1974 passava forse ancora un po' inosservato. Pochi fotogrammi buttati qua e là a spezzare la corsa in moto del protagonista: strade intasate di traffico, scarichi industriali, centrali nucleari, rifiuti abbandonati a bordo strada, carcasse di animali, fermate d'autobus sovraffollate di gente che cerca una soluzione chimica (leggi: farmaci) a problemi chimici. In tutto questo, quel "Viva la libertà" assume il significato di ribellione non solo verso la censura, ma anche nei confronti della civiltà opprimente. Un significato che verrà perpetuato, lungo tutta la durata del film, nelle lunghe schermaglie tra il protagonista (Ray Lovelock) e un ispettore di polizia ottuso e reazionario (Arthur Kennedy).
Lo zombi in questo scenario è perfettamente a proprio agio. Ne è sia il risultato che l'elemento catalizzante. E non si tratta del solito concetto pavloviano dello zombi di cui ci aveva parlato George Romero e al quale si sono ispirati decine di registi, Lo zombi di Jorge Grauè il prodotto della civiltà e della sua presunzione di poter adattare la natura alle proprie esigenze. È il prodotto della cattiva tecnologia che sfugge al controllo, che cattura il genere umano e lo illude sull'irreale esistenza di un paradiso artificiale. La tecnologia che genera  abomini: non è un tema dannatamente attuale?
Non manca naturalmente un bel finale gore, che concede ampio spazio alla macelleria. In fondo siamo in un film di zombi, no?

Il presente articolo da il via alla quarta edizione della rassegna estiva "Notte Horror", ideata e realizzata da una combriccola di blogger che, in questo modo, intendono omaggiare l'omonimo programma che, tra gli anni Ottanta e i primi Novanta, ha incollato ai teleschermi un'intera generazione. Due post ogni martedì, uno programmato alle ore 21:00, l'altro alle 23:00. Tre semplici regole: 1) tassativamente horror; 2) preferibilmente tamarrata; 3) possibilmente anni 70-80-90.
Abbiamo iniziato proprio qui su Obsidian Mirror e proseguiremo subito su Solaris, dove il buon Kris Kelvin ci porterà alla scoperta di Possession, un grande classico di Andrzej Żuławski che tutti dovrebbero vedere.
Il programma ufficiale lo trovate nella colonna qui a destra, in cima (e rimarrà lì fino a settembre). I link ai vari post saranno palesati di volta in volta, se avrete la pazienza di seguire la rassegna dall'inizio alla fine. Non mancate, mi raccomando!

Confessioni di una maschera #0

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Ed ecco giunto il momento fatidico, quello del mio cinquantesimo compleanno. Nascevo alle tre del pomeriggio del 15 luglio del remoto 1967, in un ospedale dell'hinterland milanese, esattamente all'ora in cui ho deciso di programmare la pubblicazione di questo post.
Mentre queste righe divengono pubbliche io mi trovo nell'assolata Santorini, primo giorno e prima tappa delle mie agognate vacanze greche. Seguiranno a breve altre due destinazioni, le isole di Ios e di Naxos, poi di nuovo un ultimo giorno a Santorini da dove mi imbarcherò per far rotta verso casa. Ma per quello c'è tempo, lasciatemi prima gustare queste promettenti due settimane di mare, visto che non tocco un granello di sabbia da tre anni. Che dite? Niente male il modo che ho scelto per esorcizzare il mezzo secolo, no?

Avevo fatto una promessa tempo fa. Qualcuno mi ha dato prova di essersi fatto un nodo al fazzoletto, altri probabilmente se ne sono dimenticati. Ero quasi tentato di lasciar passare tutto sotto silenzio, ma alla fine ho deciso per il no. Avevo promesso, tra l'altro per ben due volte, che al compimento del mio compleanno avrei chiuso questo blog per aprirne un altro e cominciare tutto daccapo. Avevo deciso il nome del presunto nuovo blog e avevo anche già cominciato a lavorare alla parte grafica. Poi a un certo punto mi sono detto "ma chi se ne frega?"... e così, eccomi ancora qua.
In fondo quello che avevo in mente di fare posso farlo anche qua, senza dovermi avventurare in sentieri inesplorati. Cosa avevo in mente di fare? Beh, in realtà non lo so di preciso. Forse avevo solo intenzione di fare il punto della situazione, di guardarmi indietro. Avevo voglia di frugare nei miei cassetti di ricordi e di indirizzi che ho perduto, per rubare una frase di qualcuno più famoso.
Qualche settimana fa avevo lasciato un indizio sul fatto che qualcosa del genere era in procinto di accadere. Ed ecco che la rubrica "Confessioni di una maschera", che oggi nasce con un posticcio numero zero, altro non è che quell'ipotetico blog in formato ridotto. Ma avremo tempo di parlarne più diffusamente al mio ritorno. Ora, se volete scusarmi, è tempo di lavorare sulla buona riuscita delle mie vacanze. Mi trasferisco sulle panchine dei giardini  a succhiare fili d'aria e un vento di ricordi.

Oggi, con questo post, il blog chiude ufficialmente per ferie (ho bisogno di staccare per un po' anche da questa mia attività di scribacchino seriale). Fino a quando? Non ho ancora deciso. Agosto? Settembre? Forse, semplicemente, fino a quando la lontananza da questo spazio non diverrà insostenibile. Leggerò comunque le novità che usciranno sui blog qui attorno, nel limite del possibile. Magari cercate in mia assenza di non scrivere cose troppo interessanti... non vorrei mai dover trascorrere le ferie con il naso incollato allo schermo dello smartphone. Buona estate a tutti! Take care!


Riavvio del sistema in corso...

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Partire è un po' morire / rispetto a ciò che si ama / poiché lasciamo un po' di noi stessi / in ogni luogo ad ogni istante. / E' un dolore sottile e definitivo / come l'ultimo verso di un poema... (Edmond Haracourt)
Non è mai facile allontanarsi da ciò che si ama, nemmeno se si tratta di una lontananza temporanea. Quasi certamente Edmond Haracourt non stava pensando alla chiusura estiva di questo blog quando scrisse il Rondel de l'adieu, ma possiamo benissimo fare finta che lo avrebbe fatto, se solo non fosse vissuto così in anticipo rispetto ai nostri tempi.
Difficile allontanarsi ma ancora più difficile è rimanere lontani, specialmente se ci si costringe a farlo in nome di quel salutare riposo a cui si bramava e che mancava ormai da diverso tempo.
Se mi sono riposato? Non come avrei voluto ma sì, mi sono riposato. Il distacco dalla blogosfera non è stato assoluto come era nei miei piani (per colpa di quelle dannate notifiche che non hanno mai smesso di raggiungermi), ma a questo dettaglio ero ben preparato. Non speravo davvero che accadesse, ma avevo anche fortemente sperato che nessuno in mia assenza si mettesse a scrivere cose troppo interessanti...
In buona sostanza il mio distacco è stato più teorico che pratico, a prescindere dal fatto che questo blog sia stato aggiornato oppure no. 

Queste settimane di chiusura servono d'altra parte anche a gettare le fondamenta della stagione blogghesca successiva, quella che nella fattispecie inizia oggi. Non c'è nulla di più importante, a mio parere, di un buon momento di riflessione su tutto ciò che si sta facendo e che si ha intenzione di fare. È così che in una mattina di luglio, sdraiati sulla sabbia di un'assolata spiaggia delle Cicladi, il sottoscritto e la sua gentile signora hanno improvvisato una piccola "riunione di redazione" al semplice scopo di fare il punto della situazione, discutere dei progetti in corso d'opera, di quelli di futura realizzazione e di quelli destinati all'oblio. 
Il punto fondamentale che è emerso è che fino a oggi quest'imbarcazione è sempre stata in totale balìa dell'umore del suo comandante: per abbondanti sei anni, e questo è specialmente vero negli ultimi tempi, essa ha proseguito il suo cammino senza che nessuno dell'equipaggio avesse la più pallida idea della destinazione finale... tutt'al più era ben chiaro solo il waypoint successivo, il che francamente non è abbastanza per la sopravvivenza in quest'oceano in tempesta.
Intendiamoci, sono sempre stato contrario alla programmazione asfissiante alla quale si sottopongono masochisticamente alcuni colleghi, ma un minimo di pianificazione a lungo termine a questo punto diventa necessaria. Non è ormai più pensabile affidarsi ai sistemi di dead-reckoning, per quanto elaborati, per identificare la propria posizione nel mondo: serve prima di tutto recuperare una identità che si sta perdendo. Il suo essere estraneo ai rigidi confini tematici rimane fuori discussione, ma questo blog ha bisogno di capire cosa vuole fare da grande, perché non può rimanere all'infinito un'eterna promessa. L'aspetto principale sul quale urge intervenire è le periodicità delle rubriche aperte, il cui numero a questo punto inizia ad essere considerevole. Già in passato mi era capitato di trascurare per lungo tempo rubriche classiche come Yellow Mythos e Orizzonti del reale; oggi mi rendo conto che anche quell'altro progetto, quello dei cento post che avevo battezzato Kaidan, non viene aggiornato praticamente da un anno. Esistono poi piccoli progetti, quasi appena accennati, che sono abortiti nel giro di un paio di post. Recentemente sono stati poi avviati due nuovi filoni che ho chiamato Traditi dalla fretta e Confessioni di una maschera e, non contento, ci sarebbero ulteriori idee in cantiere che potrebbero partire da un momento all'altro (chi ha gettato un'occhiata alla pagina statica Oltre lo specchio di recente può farsi un'idea). In tutto questo susseguirsi di progetti occorre trovare un modo perché ciascuno di essi possa seguire il suo corso senza clamorose interruzioni. Non importa quanto possa essere dilatata la loro periodicità: ciò che importa è che nulla possa mai più venire trascurato per così lungo tempo. Non ci resta quindi che rimboccarci le maniche. E a tutti voi un caloroso bentornato!



Liebster backlog

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Decisamente fuori tempo massimo procedo oggi, in questa ennesima assolata giornata di fine stagione, a mantenere ciò che promisi tempo addietro a quei tre colleghi blogger che hanno voluto insignirmi del famig... ehm... prestigioso Liebster Award 2017.
Solitamente i miei tempi di reazione non sono vergognosi come hanno dimostrato essere in questo caso, ma spero mi si possa lo stesso perdonare. A questo punto della giostra ritengo superfluo rispettare tutte le regole del Liebster, per cui, lo dico sin da ora, al termine di questo post non verranno nominate nuove vitt... ehm... non verranno perpetuate nuove premiazioni.
Cercherò lo stesso però di onorare il premio, il cui nome tanto mi ricorda un dado per il brodo, rispondendo immantinente a tutti i quesiti.
Quest’anno il Liebster Award è cascato su questo blog tre volte. Siamo lontani dalle nove coccarde ricevute nel 2016, per cui si rende subito indispensabile un vigoroso ringraziamento a coloro che si sono ricordati di me. Ringrazio quindi pubblicamente, e senza alcun rancore, Giulietta, Frank e Luz (in perfetto ordine di nomination).

Domande di Giulietta del blog "La collezionista di biglietti"

1. Qual è il personaggio d'invenzione nel quale ti riesci ad immedesimare maggiormente e perché? Vorrei tanto poterti dire che mi sento un eroe Marvel o qualcosa di altrettanto mitico, ma credo di potermi identificare molto di più in Paperino. A volte ho la sensazione che la sfortuna mi perseguiti.
2. Qual è il personaggio d'invenzione che hai detestato o detesti fortemente e perché? Mi viene molto più facile detestare personaggi reali. Quelli non posso eliminarli semplicemente spegnendo la tivù e chiudendo un libro.
3. C'è qualcosa che hai imparato e che adesso fa parte del tuo bagaglio personale dalla tua esperienza nella blogsfera? Sono passati abbondanti sei anni da quando ho cominciato a scrivere qua sopra, e se qualcuno dovesse andare a rileggere i post più vecchi, probabilmente avrebbe il sospetto che siano stati scritti da un'altra persona. Direi che questo dovrebbe bastare per affermare che sono cambiate molte cose. Forse sono solo io ad essere cresciuto, chi lo sa, ma mi piace comunque pensare che sia stato il blog a offrirmi le giuste opportunità di crescita. Qualcosa di specifico in cui sono migliorato? La diplomazia: comunicare senza essere fraintesi è cosa non facile, specialmente per chi non vuole fare uso abbondante di emoticon.
4. Qual è il motivo che ti spinge a scrivere? La voglia di condividere i miei interessi e la ricerca di un riscontro da parte di chi quegli interessi li condivide. Qualcosa che nella vita quotidiana, fuori dalle mura di casa, mi riesce molto difficile. 
5. Visione in sala o visione casalinga?Entrambe: per fortuna, una non esclude l’altra. Per motivi logistici negli ultimi anni ho frequentato ben poco i cinema, ma ci sono film che vanno visti tassativamente in sala. 
6. Qual è il primo film in DVD/Blu-ray che hai acquistato?Uh, onestamente non ricordo proprio quale sia stato il primo DVD che ho acquistato. Probabilmente perché io arrivo dall'era delle VHS e il DVD, di conseguenza, è stato un momento di passaggio (e nemmeno troppo importante). La prima VHS acquistata sicuramente è stata una di quelle da edicola, una di quelle offerte in allegato ai settimanali. Il titolo? Potrei sbagliarmi, ma credo sia stato uno di quei vecchi film di Totò...
7. C'è un film (o anche più di uno) che assolutamente guardi una volta l'anno dovesse cascare il mondo? Non so se una volta l’anno, ma ci sono film che rivedo molto spesso, da Il signore del male di Carpenter a Pulp Fiction di Tarantino, da Talk radio di Oliver stone a La terza parte della notte di Zulawski... 
8. Quale film avresti voluto dirigere? Avresti cambiato qualcosa? Se un film del genere esistesse, sicuramente non ci sarebbe proprio nulla che vorrei cambiare. Diciamo piuttosto che mi sarebbe piaciuto assistere alla regia di alcuni grandi film, i cui backstage meriterebbero tanto quanto il risultato finale: Alfred Hitchcock, Stanley Kubrick, Steven Spielberg... ecco alcuni nomi che avrei voluto tanto vedere all'opera.
9. Un film che hai interrotto a metà visione o meno e perché. In parte avevo già risposto in un post precedente: già molti anni fa avevo mollato a metà “Reds”, un film di (e con) Warren Beatty sulla rivoluzione d’ottobre, ero crollato su “Inseparabili” di David Cronenberg, e avevo gettato la spugna su "Paganini" di (e con) Klaus Kinski. Anche "Oblivion" di Joseph Kosinski, con protagonista Tom Cruise, mi ha devastato: credo di aver retto per quindici o al massimo venti minuti, e di aver poi spento il televisore al grido di “basta!!”. 
10. Il cibo che preferisci mangiare durante la visione di un film. Sacchetto di patatine e tavoletta di cioccolata. Insieme.
11. Blockbuster o cinema indipendente? Qual è la differenza? Il cinema è prima di tutto intrattenimento. Poi possiamo anche andare a fare delle distinzioni, affermando che l'arte è per gli artisti e che tutto il resto è per la plebe. Io dico che c'è un tempo per tutto.

Domande di Frank del blog "Combinazione Casuale"

12. Se hai un blog (o una pagina e/o canale social), perché hai scelto il nome che gli hai dato?Principalmente perché lo specchio rappresenta uno dei misteri più grandi e allo stesso tempo uno dei miei spauracchi, ma se vuoi saperne di più ti invito a leggere la sezione About sul mio blog! 
13. Se decidessi di farlo ora, apriresti un blog, una pagina social o un canale youtube? O tutte le cose insieme?L'ho già fatto e lo rifarei.
14. Meglio un film da solo o un film in compagnia?Meglio un film in compagnia della mia lei, con un micio crogiolante a portata di mano. 
15. Preferisci i film in lingua originale (magari con i sottotitoli) o doppiati? (se vuoi puoi anche dirmi il perché)Dipende dal momento. Spesso dopo una giornata di lavoro trascorsa con gli occhi incollati a uno schermo, la sola idea di leggere dei sottotitoli mi ripugna. Diciamo così: doppiati se sono molto stanco, altrimenti in lingua originale sottotitolati, in modo da apprezzare le voci originali degli attori e tutte quelle sfumature che si perdono con la traduzione (ammesso che il film sia in una lingua che più o meno conosco). Ma c’è da dire che molti dei film che guardo abitualmente non vengono doppiati affatto, quindi non ho molta scelta. 
16. Estate o inverno? Caldo o freddo? Mare o montagna? Tarda estate, caldo ma non troppo, mare. Ma hanno il loro perché anche l’inverno, il freddo e i paesaggi non acquatici... 
17. Se potessi ottenere un super potere, uno solo, uno qualunque (anche inventato da te), quale sceglieresti? Sono indeciso fra il poter volare e l'essere invisibile. In un modo o nell'altro potrei togliermi davvero molte soddisfazioni. 
18. Vivi in un mondo distopico in cui la musica è proibita. Per questo motivo stanno distruggendo tutti i dischi in qualunque formato, anche mp3. Tu però hai la possibilità di salvarne uno e uno solo. Quale? Domanda bastardissima: Uno solo? Potrei scegliere "The Dark Side of the Moon" dei Pink Floyd... oppure "The River" di Springsteen... oppure "Boy" degli U2.... oppure "Thick as a Brick" dei Jethro Tull... oppure....oppure...."Low" di Bowie... oppure... ma valgono anche i best of? Allora un best of assoluto, con il meglio del meglio di tutti, della durata di quattromila ore.
19. Se potessi diventare il personaggio di un film, quale vorresti essere? Il tenente colonnello William "Bill" Kilgore, comandante del reggimento elicotteristico della Prima Divisione Cavalleria degli Stati Uniti d'America, di stanza in Vietnam. Peccato che quando Francis Ford Coppola si è trovato a dover scegliere tra me e Robert Duvall... beh, è stato quest'ultimo ad avere la parte. 
20. Hai mai letto un libro (di qualunque genere: narrativa, poesia, saggio, fumetto) più di una volta? Se sì, quale e quante volte? (basta indicare quello con più letture). Oggi penso che la vita sia troppo breve per rileggere ciò che ho già letto. In passato però mi è capitato più volte di leggere e rileggere all'infinito la mia vecchia collezione di Zagor...
21. Collezioni qualcosa? Cosa? Vedi la risposta precedente. In realtà ho smesso negli anni Novanta, per sopraggiunte svolte nella vita, di comprare quei fumetti tutti i mesi. Oggi, per evidenti limiti di spazio, non potrei collezionare nemmeno capocchie di spillo...
22. Cosa ti fa perdere la testa? C'è qualcosa per cui perdi qualunque freno, qualunque inibizione, ogni tipo di controllo? La mia gatta! Tutti i gatti... ma anche cani, roditori, e tutto ciò che è peloso e carino. 

Domande di Luz del blog "Io, la letteratura e Chaplin"

23. Il primissimo libro che hai ricevuto in dono. Un libro per bambini, ovviamente. Si intitolava "La mia prima enciclopedia a colori" (Ed. Piccoli, 1963). Tante illustrazioni e tanti piccoli stratagemmi per allenarsi con i numeri, con le lettere dell'alfabeto e con le unità di misura. Il primo libro invece un po' più "da grandi" si intitolava "La scoperta dei fossili" (G. Ruggeri, A. Mondadori, 1976) e mi fu regalato in virtù della passione per i dinosauri che avevo da bambino. Entrambi i volumi, che conservo tuttora gelosamente, si possono trovare in vendita su ebay a cifre astronomiche...
24. Come ti immagini da vecchio/a? (descrivi una tua ipotetica foto). Sono già un vecchietto, anche se modestamente sono ancora piuttosto arzillo. Mi devo immaginare più vecchio di così? Potrei perdere i capelli, potrei venire sommerso dalle rughe, potrei mettermi la dentiera e magari avere anche qualche problema di prostata, potrei aver bisogno del bastone per camminare e magari farmi costringere da qualcuno dei miei nipoti in una casa di riposo... Mi va bene tutto, purché ci sia il wifi per continuare a bloggare!
25. C'è un viaggio in luoghi remoti che vorresti fare prima o poi? Su questo pianeta mi manca il Sudest Asiatico e il Sudamerica. Dopodiché potrei pensare a Marte.
26. Hai mai scritto un libro? No, mi dispiace. Troppa fatica. Preferisco leggere.
27. Hai mai scritto una poesia? Questo nemmeno l'ho mai pensato.
28. Tre aggettivi che riguardano i tuoi pregi. Riservato, Premuroso, Ottimista.
29. Tre aggettivi che riguardano i tuoi difetti. Lunatico, Apprensivo, Pigro.
30. In quale epoca storica del passato ti vedresti assai bene? Non riesco a pensare a un solo periodo del passato in cui vorrei vivere: diciamo al massimo che mi piacerebbe essere nato una ventina d'anni prima, per potermi gustare già grandicello gli anni Sessanta e Settanta... certo però che così facendo oggi mi trasformerei in un settantenne... 
31. Pianifichi tutto prima di un viaggio o inventi là per là? Preferisco pianificare tutto nei minimi particolari, pur riservandomi delle piccole finestre di incertezza. Tutte le volte che ho affidato al caso o ad altri la preparazione di un viaggio è sempre finita male.
32. Se tu fossi un personaggio della letteratura, saresti... Probabilmente un personaggio di Kafka, tipo il protagonista de "Il processo", considerate certe cose che talvolta mi accadono...
33. Quanto tempo hai impiegato a scrivere questo post? :-) Un paio di mesi, se iniziamo a contare dal momento della mia prima nomination. Un paio di giorni, se iniziamo invece a contare dal momento in cui ho iniziato a scrivere le risposte. Un paio d'ore, se escludiamo le tante pause di riflessione.


Come ti evado l'ultimo meme estivo

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Dopo aver dato ampio spazio al Liebster, prosegue senza tregua l’attività di recupero degli impegni accantonati nel corso della lunga pausa estiva del blog. Questa volta però il mio personale contributo è limitato a poche righe introduttive, visto che questo spazio sarà tutto appannaggio di Lady Obsidian, al secolo Simona, mia compagna di vita e di blog, che entusiasticamente (?) si adoprerà per onorare la nomination di Ivano Landi. Due righe di cronaca sono necessarie: tutto nasce sul blog intitolato Grafica Creattiva, la cui ideatrice Elisabetta ha lanciato l’iniziativa “Top 5 Summer (che credo sia alla sua seconda edizione). La logica di tale “Top 5”, che di blog in blog è sbarcata da Ivano, consiste nel citare tre punti fermi della propria estate, un libro, una ricetta e una colonna sonora, invitare qualcuno a proseguire il meme e condividere. Questa iniziativa è infine planata diritta sul blog che state leggendo, con la postilla di evaderla entro e non oltre il 31 agosto (oggi). Come è potuta planare qui e, nello specifico, come mai è finita sulla scrivania di Simona? 

Il buon Ivano ha semplicemente scelto di virare il tutto al femminile, scegliendo le sue, ehm, vittime tra le lettrici del suo blog… ed è così che la diffusione della “Top 5” ha preso una strada che, personalmente, mi mette in una posizione di totale sicurezza e serenità. 
Simona, per chi non lo sapesse, rappresenta il “lato oscuro” del blog… non nel senso di “maligno” (anche se a volte qualche dubbio mi viene), bensì nel senso “planetario” del termine. La co-blogger che scrive, corregge, pianifica (e spesso e volentieri mi scuote dai miei momenti di torpore), lavora per sua precisa scelta sempre dietro le quinte, proprio come la faccia nascosta della Luna si cela al nostro sguardo. 
Oggi quindi l’evento è di quelli importanti: questo è il primo post, su quasi cinquecento totali, ad essere firmato dichiaratamente da Simona. Il mio consiglio è quello di approfittare di questa congiunzione astrale per fare la sua conoscenza, perché una seconda occasione potrebbe non esserci. Vai, Simo! 

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Carissimi lettori, abituali e occasionali… no, rifaccio. Un semplice “ciao” forse è meglio, che ne dite? Il fatto è che non è semplice presentarsi dopo tanto tempo in cui si è rimasti nell’ombra. Senza il nostro TOM, questo luogo virtuale non esisterebbe, ma mi piace pensare che senza di me sarebbe un po’ diverso dal blog che conoscete. Come molte coppie che stanno insieme da tanto tempo e non hanno figli, noi facciamo molte cose assieme, e in questo contenitore ci sono anche le mie idee, i miei pensieri. Ma io sono una persona schiva, per la quale l’anonimato offerto dal web è anche troppo poco, e ho sempre preferito restare in disparte. Quando però uno dei tuoi blogger preferiti ti nomina per un meme, puoi forse rifiutarti di rispondere? Un grazie dunque a Ivano Landi per aver pensato a me, e vado subito ad affrontare i cinque punti. Alla mia maniera. Come avrete modo di constatare, anche se amo il caldo non ho gusti molto “estivi”. 

1) Scegli la colonna sonora della tua estate, la tua canzone preferita, quella che continui a canticchiare nella testa e che fischietti sotto la doccia, mentre cucini, guidi la tua auto o mentre ti occupi delle faccende di casa. Quest'anno una sola... lo so, è difficilissimo... ma tu prova! 
Credo di non aver avuto nessuna colonna sonora per l'estate negli ultimi vent'anni o giù di lì; non ascolto molto la radio, non ho gusti molto radiofonici né molto allegri, se è per quello. Pescherò quindi a caso fra la manciata di dischi metal che sto ascoltando più spesso negli ultimi tempi: l’album è vecchio di una decina d’anni e il nome della band (che oggi non è più in attività, che io sappia) potrebbe insinuare qualche dubbio, specialmente di questi tempi, ma sappiate che la sua nascita risale a vent’anni fa, molto prima che gli appartenenti a un omonimo “gruppo” diventassero tristemente famosi per attività completamente estranee alla musica. Ad ogni modo il brano si intitola "Maritime" e lo potete ascoltare qui si seguito.


2) Proponi una ricetta veloce (estiva o non), basta che sia facile e a prova di mamma indaffarata/imbranata (tipo me), non importa che sia un primo, un secondo, un antipasto, un dolce o una bibita... lascio libera scelta! 
La vita è troppo breve per passarla ai fornelli: questo è sempre stato il mio motto. Oltre a questo non sono mai stata una buona forchetta: non mangio molto e prediligo i cibi semplici, senza troppe salse e intingoli. Da quando però, negli ultimi anni, sono diventata prima vegetariana e poi vegana, ho sentito di dover dedicare più tempo alla cucina, se non altro per non annoiare troppo la persona con cui divido il desco ogni giorno :-D
Fedele a me stessa, la ricetta che vi propongo (per 2/3 persone) è semplice, veloce e totalmente vegetale. Preparate una terrina con 1-2 cucchiai di olio d'oliva, uno spicchio d'aglio privato della buccia, un peperoncino piccante e abbondante basilico fresco e lasciate insaporire per qualche minuto, poi eliminate l'aglio e il peperoncino.
Nel frattempo lavate 10-15 pomodorini e divideteli in quattro spicchi, poi lavate un peperone e tagliatelo a striscioline non troppo sottili, scartando tutte le nervature bianche. Mettete i pomodori e il peperone così tagliati nella terrina con l'olio e mescolate.
Cuocete della pasta del tipo preferito, scolatela al dente e raffreddatela sotto l'acqua corrente. Unite la pasta fredda al condimento amalgamando il tutto, regolate di sale e pepe, a piacere, e... buon appetito!
Nota: per un sapore più delicato mettere l'aglio e il peperoncino nell'olio interi, tagliateli invece in due o più pezzetti per ottenere un sapore più deciso.

3) Consiglia una lettura, un libro (per adulti o bambini, o entrambi), uno di quelli che suggeriresti ad un'amica lettrice, che leggesti sotto l'ombrellone o che regaleresti volentieri per Natale a chi vuoi bene! 
Quest’anno, per il mio compleanno, mi sono regalata un libro che, a parte il finale a mio giudizio un po' deludente, ha soddisfatto la mia perenne sete di libri del primo Novecento: si tratta di "Fiori fantasma" di Ronald Fraser (1888-1974).
La pubblicazione del romanzo in Inghilterra e America risale infatti al 1926, mentre in Italia è stato tradotto soltanto nel 2016 a cura di Federica Bigotti per la Atlantide Edizioni, una CE che propone opere misconosciute in bellissime edizioni a tiratura limitata e numerata in 999 copie.
È un racconto ambientato d’estate, che con la fine dell’estate si sopisce. Questa è la sinossi: Judy, giovane botanica dei Kew Gardens nell’Inghilterra degli anni Venti, insofferente delle regole della società maschile in cui vive e di un fidanzamento che le sta troppo stretto, inizia a scoprire nelle piante e nei fiori dei Giardini presso cui lavora una vita e una dimensione misteriosa e quasi inattingibile che la affascinano e coinvolgono ogni giorno di più. Fiori e piante infatti non solo iniziano a sembrarle dotati di propri desideri e volontà, ma pian piano la conducono in una dimensione spirituale ed erotica separata dalla realtà, dove la ragazza sperimenta abissi mistici, abbandoni sensuali e un nuovo e potente senso di sé. In particolare è un’Orchidea a divenire il suo appassionato amante, nonostante il fratello e il fidanzato cerchino in tutti i modi di strapparla a quel mondo languido e sovrannaturale nel quale ormai trascorre, come in trance, la maggior parte del proprio tempo.
Per la prima volta pubblicato in Italia, Fiori fantasma, capolavoro mistico-erotico di uno dei più originali e misconosciuti autori inglesi del primo Novecento, è il racconto unico e straordinario di un risveglio spirituale e sensuale, la vertiginosa immersione in una dimensione invisibile, eppure così vicina, dove l’individualità svanisce nel desiderio dell’annullamento di sé oltre il corpo e il tempo.

4) Invita almeno un'altra persona a giocare insieme a noi! (e avvisala!) Poi se vorrai invitarne di più, io sarò ben contenta! Non c'è un limite!!!! :) Se questa persona, per qualsiasi motivo, non accetta l'invito e non prosegue, fa nulla, non mi offendo... ognuno fa quello che può! Se invece non sei stata nominata e vuoi partecipare comunque, fatti avanti tu! Insomma, su questo punto sono abbastanza elastica! :D 
Dal momento che non ho molte frequentazioni “blogghesche”, che l’ultimo giorno utile per partecipare è oggi, 31 agosto, e che l’autrice del meme si è dichiarata elastica su questo punto, credo che la cosa migliore sia non nominare una persona specifica a proseguire la catena. Se arrivate però qui prima di mezzanotte, e se siete molto veloci, potreste tentare di dire la vostra in un commento.

5) Condividi sul tuo blog (se ne hai uno) e sui social questa iniziativa con #top5summer e, se ti fa piacere e ancora non lo sei, diventa mia follower! 
Sarà fatto ^_^ ! Ciao, alla prossima!

***   ***   ***

E con questo è tutto, il vecchio Obsidian riprende la parola e il timone della baracca. Se avete apprezzato la ricetta della pasta fredda non mancate di segnalarlo nei commenti (potrebbe diventare una rubrica fissa). Non avrei mai pensato, in quella lontana primavera di sei anni fa, che quel blog appena aperto potesse un giorno mettersi ad armeggiare davanti ai fornelli, ma così è la vita. Buona fine estate a tutti!


George of the Dead

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La prolungata chiusura estiva del blog ha lasciato numerosi strascichi, come potete ben immaginare. Mi sono lasciato indietro molte cose di cui avrei voluto parlare. Mantenere un blog non è solo osservare una programmazione standard, che cerchi di seguire e proseguire ciò che si è iniziato, bensì assecondare la scrittura "di pancia" che, proprio come in un diario, vorrebbe che le emozioni di un preciso istante possano liberarsi. Uno degli impulsi che a stento non mi ha fatto ribollire il sangue nelle vene è esploso di schianto un pomeriggio di metà luglio, solo un paio di giorni dopo la discesa del mio provvisorio sipario: era la notizia della scomparsa del buon vecchio zio George.
Ormai sono trascorsi quasi due mesi da quell'infausto giorno, ma mi piacerebbe lo stesso dedicare due parole al regista che, forse più di ogni altro (anzi, senza forse), ha rivoluzionato la logica del cinema dell'orrore.
Inizio a scrivere questo articolo senza aver ben chiaro fino a che punto potrò spingermi senza apparire noioso e melenso. Su George Andrew Romeroè già stato scritto di tutto, specialmente (e inevitabilmente) nelle ultime settimane. Cosa mai potrei aggiungere?

Il mio primo incontro con il genio romeriano fu tutto sommato piuttosto singolare: non fu un film, bensì un disco ad incuriosirmi. Ricordo che entrò in casa mia un vecchio vinile, probabilmente ceduto da qualche amico o parente (questo non lo ricordo) al quale quel disco faceva evidentemente cag##e: era la colonna sonora di Zombi (Dawn of the Dead, 1978), firmata da quel gruppo prog-rock chiamato Goblin del quale nemmeno i sassi potevano ignorare l'esistenza.
Non mi fu difficile capire il motivo per cui il dimenticato donatore si era liberato di quel vinile: a parte il primo brano, decisamente avvolgente (L'alba dei morti viventi), tutto il resto era veramente inascoltabile; una di quelle colonne sonore che non hanno alcuna ragione di esistere senza le immagini per le quali sono state pensate. Eppure, quel singolo brano iniziale non mancò di entrarmi nel cervello come una punta di trapano nel muro. Non sto dicendo che senza quel vinile non sarei mai finito tra le grinfie di Romero, ma posso senz'altro dire che contribuì nettamente ad accorciare i tempi.
Come andò in seguito non lo ricordo. Probabilmente fu proprio con Dawn of the Dead, il secondo capitolo della trilogia classica, che feci conoscenza con il grande regista. Gli altri vennero dopo. Il terzo capitolo, Day of the Dead, anche molto dopo. Paradossalmente, per motivi più che altro anagrafici (nel 1978 ero piccino), scoprii prima gli zombi farlocchi di Lucio Fulci, per merito (o per colpa) di qualche coraggioso passaggio televisivo.

LtoR: la notte (1968), l'alba (1978) e il giorno (1985) degli zombi
Oggi che Romero è entrato a far parte del mondo dei trapassati, possiamo con certezza affermare che "he won't stay dead", parafrasando lo slogan presente sulle locandine del primo fortunato capitolo. Questo per dire che tutto quello che siamo abituati a vedere, che abbiamo visto in passato (perlomeno a partire da quella "notte" del 1968) e che vedremo in futuro è stato certosinamente codificato proprio da Romero.
Come ebbi già modo di scrivere un paio di anni fa, prima di Romero lo zombi era semplicemente una creatura delle credenze popolari haitiane del periodo coloniale: nella pratica una specie di burattino senza fili, privo di volontà propria, destinato a compiere i lavori più ingrati sotto il controllo di una sorta di macabro sacerdote detto bokor. È esattamente il tipo di creatura ritratta al cinema dal capostipite del genere, quel "L'isola degli zombies" (White Zombie, 1932) che vedeva da Bela Lugosi nella parte del villain, e replicato successivamente da titoli come "Ho camminato con uno zombi" (I Walked with a Zombie, 1943) di Jacques Tourneur.
George Romero cancellò tutto questo con un solo colpo di spugna e creò il morto vivente così come lo conosciamo adesso, ovvero come il protagonista dei nostri incubi più terrificanti. Non più un semplice "drogato", ma un vero e proprio cadavere risorto dalla tomba, pallido, sanguinolento, spesso orribilmente mutilato, che si aggira per il mondo a passo lento ma inesorabile, con lo sguardo perso nel vuoto, alla perenne ricerca di esseri umani su cui scatenare il proprio feroce (e contagioso) istinto cannibalico. Sulle origini di tali rinnovate creature Romero (e tutti coloro che seguirono il suo schema) ha sempre più o meno sorvolato, rendendo di fatto lo zombi ancora più terrificante.
Potrei stare per ore a parlare di come Romero abbia celato dietro i suoi walking dead messaggi di critica nei confronti della società americana: il razzismo e la paura del diverso in prima battuta ("The Night of the Living Dead", 1968), il consumismo e il desiderio del superfluo in seconda battuta ("Dawn of the Dead", 1978), il militarismo e la politica dei paraocchi in terza ("Day of the Dead, 1985). Ci vorrebbero però delle settimane per sviscerarne ogni aspetto, per cui mi limiterò a quanto detto.

Anni fa, durante un’intervista a Wired, George Romero si era soffermato su come fossero cambiati gli zombie dopo di lui: “I miei zombie erano senza cervello, ora invece sembrano essere diventati più pericolosi. Nei miei film non erano intelligenti, semplicemente avevano un vago ricordo di un certo comportamento." In effetti, oggi gli zombi fanno decisamente più paura: Zack Snyder nel remake di "Dawn" del 2004 ha per esempio sdoganato gli zombi corridori, amplificandone la pericolosità ma allontanandosi dai concetti pavloviani illustrati da Romero e senza una strada ben chiara da percorrere. Che devastazione! In fondo non serviva andare oltre Romero. Non c'è nulla oltre Romero. Lui ce lo ha già spiegato. I morti viventi non sono affatto creature nate dal suo immaginario: egli non ha fatto altro che applicare uno specchio sui nostri schermi e ci ha invitato ad ammirare la nostra immagine riflessa. Gli zombi siamo noi. Chi altri, se no?

* * *

Quando si fa tutto di fretta a volte si finisce spesso per dimenticarsi le cose. Il presente articolo non è affatto un caso isolato: esso si inserisce in un progetto che si è voluto chiamare "Blog of the Dead", una serie di omaggi che oggi appaiono in diverse altre galassie della blogosfera. Siamo più o meno tutti, come avrete certamente notato, piuttosto in ritardo nell'omaggiare il vecchio zio George (tanto più che nel frattempo altri lutti hanno sconvolto il mondo del cinema horror), ma pazienza.
Vogliate quindi navigare rapidamente verso i seguenti lidi: Redrumia, Delicatamente PerfidoWhite Russian, Non c'è paragone, Combinazione Casuale, Una mela al gusto pesce, Pietro Saba World e il Bollalmanacco di Cinema.


Traditi dalla fretta #4

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Sono già trascorse un paio di settimane dal giorno in cui il blog si è destato dal suo interminabile letargo estivo, e ancora sono qua a cercare di mettere insieme i tasselli di questo dannato puzzle. Immagino abbiate capito cosa intendo, no? È un po' come risvegliarsi da un lungo sonno criogenico: occorre provare a recuperare ciò che si è perso, capire cosa ci è rimasto di utilizzabile nella nuova avventura e identificare ciò di cui ci si può anche disfare.
Se il tempo me lo consentisse potrei mettermi a scrivere pagine su pagine e pubblicare almeno un post al giorno per i prossimi tre mesi, ma il mondo sul quale si sono posati i miei occhi appena riaperti è quello reale, fatto di cose reali e di impegni reali.
Non vi tedierò tuttavia con i miei soliti lamenti autunnali: per quelli è stata creata apposta la nuova rubrica "Confessioni di una maschera", di cui avete già scoperto il "numero zero"... Oddio, forse non è una bella mossa di marketing quella di presentare in questo modo una nuova rubrica, ma io sono fatto così, per cui fate finta di niente.
In tutto questo bisogna però andare avanti e quale miglior momento, quindi, per uscire con una nuova puntata di "Traditi dalla fretta"? A beneficio di coloro che non sanno ancora di cosa si tratta, posso semplificare il tutto dicendo che questa rubrica è una sorta di nodo al fazzoletto digitale: nella pratica è la macchina del tempo che io utilizzo per recuperare il tempo perduto. L'idea di base l'ho ampiamente descritta nel "numero zero" introduttivo, mentre la sua intelaiatura l'ho illustrata nel "numero uno". Non ci resta che procedere.

Uno speciale che non viene aggiornato da tempo ma che dovrebbe riprendere a breve
KAIDAN

Come accennavo qualche giorno fa nel post del rientro, occorre mettere ordine nei progetti in essere, facendo in modo che a ognuno di essi venga garantita un'attenzione superiore al passato. Andando a ritroso nel blog, mi sono reso conto che è ormai quasi un anno che il progetto Kaidan riposa in naftalina. Non è nemmeno la prima volta che un ritardo di tali proporzioni si verifica sul blog: tempo fa un'attesa altrettanto lunga era toccata agli Yellow Mythos. La novità è che tutto questo, grazie alla nuova organizzazione del blog, non dovrebbe più accadere.
Un nuovo capitolo di Kaidan è quindi obiettivo prioritario e, a meno di avvenimenti clamorosi come un attacco alieno, una sua apparizione avverrà entro la fine di questo mese di settembre. A beneficio di chi non conosce (o non ricorda) la logica di questa iniziativa, riporto qui di seguito un breve ripasso, rimandandovi successivamente alla pagina statica per l'elenco dei post finora pubblicati.
In Giappone, durante il periodo Edo (1603-1868) il termine Kaidan si diffuse attraverso un gioco popolare chiamato Hyakumonogatari Kaidankai (百物語怪談会), termine che significherebbe più o meno “Cento storie del mistero” o, nel suo significato esteso, “Raduno di persone che si raccontano cento storie del mistero”. I partecipanti, a turno, devono raccontarsi cento storie di fantasmi nella consapevolezza che, al termine del gioco, una porta sull’aldilà si può spalancare, consentendo a uno spettro di ritornare dalla morte e fare la sua comparsa tra i vivi. Le regole del gioco sono molto semplici: all’inizio è necessario accendere cento candele, posarle a terra a formare uno o più cerchi e sedersi tutt’attorno. Una volta che il primo narratore avrà concluso la sua storia, una delle candele verrà spenta. A mano a mano che i racconti vengono portati a termine una nuova candela viene smorzata lasciando l’ambiente, un po’ alla volta, sempre più nell’oscurità. Quando il centesimo racconto sarà terminato e l’ultima candela sarà spenta…

Musica, mostre, spettacoli, eventi, concorsi
STRANIMONDI 2017

Sembra ieri il giorno che pubblicai un articolo sulla rassegna ottobrina Stranimondi. Furono parole buttate giù senza grandi pretese, semplicemente l'opinione di un tizio che, tra un impegno e l'altro, al "festival del libro fantastico" aveva dedicato giusto un paio d'ore.
Un paio d'ore che però diventano quattro se ci aggiungiamo quelle che spesi nell'edizione dell'anno precedente.
La terza edizione di Stranimondi è ormai dietro l'angolo e questa volta è mia intenzione fare in modo che quelle ore possano bruscamente moltiplicarsi, attraverso la partecipazione a presentazioni librarie o, se il calendario me lo consente, alle numerose conferenze e dibattiti.
C'è sempre lo spettro di una trasferta di lavoro che potrebbe per me materializzarsi proprio in quel weekend, ma diciamo che è ancora piuttosto vaga come ipotesi.
Ma bando alle ciance: che cos'è Stranimondi? È il Festival del Libro weird, fantastico e di fantascienza che avremo a Milano il 14 e 15 ottobre 2017. In primo luogo è un'imperdibile mostra-mercato dell'editoria di genere dove, oltre alle novità più recenti, è possibile riportare alla luce chicche che nemmeno nelle bancarelle dell'usato dei vostri sogni più erotici potete sognare di trovare. In secondo luogo Stranimondi è una serie di presentazioni, dibattiti, incontri con gli Autori, esposizioni di arte fantastica e, non meno importante, l'occasione per incontrare gli amici con i quali si ha un rapporto remoto per gran parte dell'anno. Concedetemi giusto un paio di link prima di chiudere: quello del sito ufficiale e quello della campagna di crowdfunding, con ricchi premi e cotillon. Ci vediamo a Milano, presso la UESM di via Sant'Uguzzone, 8 (MM1 Villa S. Giovanni).

Articoli sui blog degli altri che meritano attenzione
MARLOWE VS PHANTOM

Una grande lezione di storia del fumetto, offerta gentilmente da Ivano Landi, è stata la sorpresa di questo ultimo scorcio di stagione. Ospite d'eccezione sul blog dell'estrusco, Ivano ha saputo spendere al meglio la sua abissale conoscenza in materia con una serie di post-intervista in grado di far (ri)piombare il lettore in un mondo affascinante oggi sempre meno valorizzato.
"Tra i tanti piccoli avvenimenti che hanno caratterizzato questa mia tutt'altro che inattiva estate" - riferisce Ivano - "si è insinuata, molto gradita, anche la richiesta da parte del noto e attivissimo blogger Lucius Etruscus di sottopormi una serie di 11 (undici) domande sul fumetto. Un vero invito a nozze per me. Leggerete, beninteso, del mio personale rapporto con la nona arte, sebbene non mi sia astenuto dall'esporre, ogni volta che lo reputavo utile, una serie di dati oggettivi, che mi auguro potranno interessare anche chi ha gusti diversi dai miei. Mi pare, del resto, che lo stesso Lucius abbia voluto sottolineare con divertimento questa caratteristica dell'intervista, facendomi indossare i panni di uno dei miei personaggi preferiti, The Phantom, e battagliare con il suo Marlowe, che se interpreto bene impersona, per l'occasione, l'Etrusco con i suoi personali gusti in materia."
L'intervista "Marlowe Vs Phantom", suddivisa in cinque parti, inizia qui. Da qualche parte sul blog ospitante troverete anche i link per proseguire nella lettura.

Articoli sui blog degli altri che meritano attenzione
GOD SAVE THE QUEEN

Altro momento di superbo blogging ci è stato regalato da un altro personaggio che notoriamente di conoscenza di fumetti ne ha da vendere. In questo caso, sorprendentemente (ma nemmeno troppo), il mitico Orlando Furioso del blog Fumetti di carta ha però messo un attimo da parte il tema principale del suo blog per condividere con noi, quarant'anni dopo i fatti, la sua passione per il movimento punk, inteso come genere musicale ma non in senso stretto.
Attraverso una serie di post che amalgamano perfettamente vita privata, vita on-the-road e contesto storico, Orlando è riuscito a dipingere in maniera egregia il ritratto di un mondo il cui ricordo si sta affievolendo.
Dal canto mio posso solo dire di non aver mai conosciuto il punk se non, come credo sia capitato a molti, attraverso i dischi dei Clash o attraverso le vicende musicali e giudiziarie dei Sex Pistols. Diciamo che se non altro questa è un'ottima occasione per recuperare il tempo perduto.
"Avevo 17 anni ancora da compiere e ascoltavo tantissima musica, come avevo sempre fatto dacché ne avevo memoria, sempre, tutto il giorno e tutti i giorni. I miei genitori vedevano il loro strano figlio sempre chiuso in camera, appiccicato al giradischi (mono) a rovinarsi le orecchie. Immagino si preoccupassero. Avevo sempre per le mani tantissimi libri, ma proprio mai nessuno di essi riguardava i programmi scolastici, lo studio... Leggevo anche tante riviste, riviste musicali di ogni tipo che mi facevo prestare o che, quando potevo, comperavo, riviste italiane - Ciao 2001, Gong, Muzak, Popster e altre - e anche straniere: di queste ultime all'epoca guardavo però solo le figure."... Il resto lo potete leggere partendo da qui.

Segnalazioni, divagazioni, varie ed eventuali
DRACULA IN ISTANBUL

Passiamo bruscamente al mondo dei libri per una segnalazione che ritengo di sicuro interesse per chi frequenta questo blog: la prima pubblicazione in lingua occidentale di uno sconosciuto testo turco che si ispira alle vicende del vampiro più celebre della letteratura.
Si tratta di "Kazıklı Voyvoda", oggi tradotto come "Dracula in Istanbul" e completato da un sottotitolo piuttosto rivelatore che lo definisce come una "versione non autorizzata" del celebre classico di Bram Stoker.
Il punto interessante è proprio questo: Kazıklı Voyvoda fu letteralmente un clamoroso caso di plagio perpetrato nel 1928 dal poeta e scrittore turco Ali Rıza Seyfioğlu, il quale si appropriò del testo originale, lo tradusse tagliando le parti a suo parere meno interessanti e integrando nuovi avvenimenti. L'ambientazione venne spostata da Londra a Istanbul e i molti riferimenti al Cristianesimo vennero sostituiti con altri più appropriati alla cultura islamica.
Seyfioğlu spacciò quindi il suo testo come un'opera originale e lo pubblicò con il titolo Kazıklı Voyvoda, letteralmente "Il principe impalatore", titolo che identifica senza ombra di dubbio (e per la prima volta) il principe delle tenebre con la controversa figura di Vlad III di Valacchia. Non mancano di conseguenza nel testo ampie descrizioni delle atrocità che il vampiro impalatore compì ai danni delle innocenti popolazioni turche. Un testo, al di là delle premesse che abbiamo fatto, il cui valore letterario è indiscutibile, e che per la prima volta vede la luce, con novant'anni di ritardo, oltre i confini del suo paese d'origine.
In uscita il 13 settembre per merito della casa editrice Neon Harbor in un'edizione arricchita da rarissime fotografie del film Drakula İstanbul’da, girato nel 1953 sulla base del testo "pirata". Maggiori informazioni sul sito ufficiale.

Segnalazioni, divagazioni, varie ed eventuali
LA STORIA SEGRETA DI LORD BYRON

Lord Byron nasconde un segreto immortale. Rebecca discendente del grande poeta maledetto, ne insegue le memorie scomparse e finirà per trovare una verità fantastica e terribile. Tom Holland scava nella leggenda del vampiro per raccontarci una storia difficile da dimenticare.
Rimanendo in tema vampirico, facciamo un salto indietro nel tempo fino a rievocare quella famosa notte del 16 giugno 1816 a Villa Diodati, sul lago di Ginevra, dove un gruppo di letterati tra cui Lord Byron, Mary Shelley e John Polidori diedero vita a una "scommessa" letteraria: ognuno di loro avrebbe dovuto scrivere un racconto gotico da leggere e confrontare nelle notti successive. Naquero così "Frankenstein" di Mary Shelley, "Il vampiro" di John Polidori e "La sepoltura" di Lord Byron, opere che gettarono le basi del romanzo gotico moderno.
Il romanzo sul quale invece spenderò oggi due parole è firmato da Tom Holland, scrittore e storico inglese specializzato in storia classica e medievale, e immagina un Lord Byron vampiro.
Non è certo la prima volta che la narrativa, specie quella più recente, sottrae personaggi alla storia e li catapulta tra le pagine immaginarie di un romanzo. Il punto di forza di questo "Il vampiro", datato 2010 (quindi non esattamente una novità), è però quello di aver scelto una figura ambigua come quella di Lord Byron, la cui biografia resta ancor oggi in gran parte un mistero.
Tom Holland ci getta a capofitto nella vita del poeta britannico, riferendo aneddoti reali e arricchendo il tutto con la propria immaginazione. A posteriori, considerate tutte le accuse che vennero fatte a Lord Byron in vita (incesto, sodomia), c'è da chiedersi quale ritratto del poeta sia il più generoso nei suoi confronti. La risposta è forse, nel catalogo Tre Editori.

Da donna a strega: introduzione

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Che ci crediate o meno, il progetto Orizzonti del Reale non è nato per parlare di religione – non in senso stretto, almeno. Non è nato neppure per parlare di John Marco Allegro, che tuttavia lo ha monopolizzato per un bel pezzo. Volendo ora affrontare quella che chiamerò la “questione femminile”, ovvero il ruolo della donna nella pratica religiosa e più in generale nella società, credo quindi che sia giusto aprire un percorso contiguo ma parallelo. Un percorso che costituisce l’ideale punto di partenza per parlare di streghe, un argomento che non ho mai affrontato prima se non a spizzichi e bocconi. 
Vi chiederete forse in che modo le due cose siano collegate. Ebbene, è presto detto: negli ultimi anni, qui sul blog, ho sfiorato quel discorso molte volte, non ultima in occasione dell’ultimo speciale di aprile e la sua incursione in folclore e tradizioni così legati alla dimensione magica come quelli tailandesi. Mi mancava però la voglia di fare di più, dato che molti altri blog lo avevano già fatto e data la vastità e complessità della materia. Il saggio di Allegro mi ha però fornito lo stimolo decisivo (oltre che nuovi spunti) per questa riflessione, e infatti posso dire che il nucleo del post odierno sia nato proprio mentre scrivevo questa parte di OdR.

Il ruolo marginale della donna nel culto è forse l'unico punto su cui le tre grandi religioni monoteistiche sembrano essere in totale accordo. Questa banale constatazione è però solo la punta dell’iceberg: il quadro si completa constatando che la donna ha quasi ovunque uno scarso peso nella società, o comunque minore rispetto all’uomo, e rammentando una lunga serie di pratiche aberranti mascherate da tradizioni irrinunciabili (oppure modi di tutelare l’incolumità e l’onorabilità della donna) che ancora sopravvivono in molte parti del mondo, non solo nelle società tribali. 
In India il Sati, la pratica funeraria derivata dall'omonima divinità che prevedeva di ardere vive le mogli assieme alle spoglie dei mariti defunti, è resistito in pratica fino al ventesimo secolo; in Africa sopravvivono l'infibulazione e l'altrettanto orribile pratica del breast ironing; e così via. Non ne faccio però una questione geografica: in Occidente non siamo messi molto meglio, benché le tutele dal punto di vista normativo siano maggiori. Se si eccettua il fenomeno della violenza, specie domestica, sulle donne, da noi la battaglia si combatte soprattutto sul terreno dei diritti civili e delle opportunità, come l’annosa diatriba sulle quote rosa. La questione è però più profonda, riguarda il nostro sentire, la nostra cultura, o perlomeno quella della metà dell’umanità che legittima la propria egemonia sulla base di un passato del quale in realtà si sa ancora troppo poco, e che vari indizi ci dicono essere stato occultato e travisato più volte. 

Benjamin Christensen, Häxan, 1922
In generale se da un lato si impone (il velo, per esempio), dall’altro si nega (il sacerdozio, ma non solo). Non è sufficiente tirare in ballo il retaggio culturale: bisogna scavare nel substrato della materia e cercare di trovare una ragione all’attuale stato di cose. Un primo passo da fare per combattere i pregiudizi e contribuire a cambiare le cose. 
Com’è noto, in tempi remoti esistette un clero femminile. Esemplificativo è il caso egizio: su documenti risalenti a un’epoca molto antica figuravano nomi femminili nel clero, ma successivamente questi scomparvero, sostituiti da nomi maschili. Col passare del tempo, il ruolo della donna si ridusse a cantare nel tempio. Parlando invece di mitologia e soprattutto di quello che è il nostro principale riferimento, ovvero il mondo classico, la situazione è altrettanto sconcertante. Per dirla con Feuerbach, non è Dio ad aver creato l’uomo ma l’uomo ad aver creato Dio, e la riprova è che quelle greche sono in tutto e per tutto divinità antropomorfe; ma se i potenti e saggi dèi sono spesso anche iracondi e lussuriosi, le dee sono dipinte come cattive, volubili, invidiose e vanitose, sembrano cioè incarnare più i difetti che le virtù umane e in particolare i peggiori, tipici attributi affibbiati al genere femminile: basti pensare che, secondo la tradizione, la guerra di Troia fu indirettamente causata da una contesa tra Era, Atena e Afrodite, ognuna delle quali ambiva al titolo di dea più bella dell’Olimpo. 
Eppure, certamente esistettero delle divinità pre-elleniche femminili, che in seguito vennero soppiantate da altre dalle caratteristiche non proprio edificanti. Esse simboleggiavano la creazione e il rinnovamento della vita e, cosa non meno importante, erano depositarie di saggezza, e mai avrebbero messo in moto una serie di eventi catastrofici per motivi tanto futili. 
Non mi infilerò nella diatriba che riguarda il culto della Grande Madre, perché la sua esistenza è ancora dibattuta e forse non si tratta che di un’idea astratta nella quale si è cercato di far confluire culti eterogenei aventi per oggetto divinità femminili diverse. Allo stesso tempo, anche se i ritrovamenti di immagini sacre femminili non fossero così numerosi, non è possibile negare il fatto che la presenza di figure femminili nel folclore, quasi identiche nel nome e nelle connotazioni, non può essere casuale ed è un probabile retaggio di quegli antichi culti. Diciamo che se d’ora in avanti mi capiterà di utilizzare questa espressione sarà per semplificare dei concetti più complessi, oppure per riallacciarmi a quelle teorie che proprio a una Grande Madre universale fanno riferimento.
CONTINUA

Pieter Paul Rubens, Il guidizio di Paride, 1638, olio su tavola

Il settimino

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Nel folklore piemontese, un bambino nato prematuro al settimo mese viene chiamato setmìn, il Settimino. Secondo tradizione, è dotato di oscuri e terribili poteri sovrannaturali. Davide Bo è un Settimino; e questa è la sua storia. 
Mi è bastato leggere queste prime righe di presentazione per convincermi, qualche mese fa, all'acquisto di questo piccolo ebook edito da Acheron e firmato da Fabrizio Borgio, due nomi di assoluto rilievo nel più recente panorama del cosiddetto "fantastico" italiano.
Sarebbero state in realtà sufficienti le prime tre parole per attirare la mia attenzione, visto e considerato quanto affascinanti possono essere certi argomenti, ma poi il mio sguardo si è posato sulle righe successive e ho perso ogni controllo: "I misteri di Stato. Le stragi. Gli anni di piombo. La strategia della tensione. I terroristi. La massoneria. I servizi deviati. E' l'Italia; e questa è la sua storia.". Quel mix di misteri italici tra loro completamente (forse dovrei dire "apparentemente") agli antipodi non poteva non far scattare in me l'istinto del compratore seriale. Ho quindi cliccato senza indugio sull'apposito pulsante dello store ed ecco che "Il Settimino" ha finito per far parte della memoria virtualmente infinita del mio reader. La piccola disponibilità di extra-tempo, concessami dai recenti pomeriggi estivi, ha fatto il resto. E quando la storia del più potente ESP al mondo si sovrappone alla storia di una nazione dalle mezze verità, dove dominano mafie, logge, rigurgiti totalitaristi e poteri occulti di ogni genere, il risultato finale non può che essere catastrofico.

Tutt'altro che catastrofico, dal punto di vista di chi scrive, è invece stato il risultato finale di questa mia esperienza di lettura. Fabrizio Borgio non solo ha confermato, semmai ce ne fosse stato bisogno, di essere un autore raffinato, ma è riuscito a mettere in campo, con questa sua recente fatica, una stupefacente abilità da giocoliere, muovendosi con estrema sicurezza fra le pieghe più ignobili della storia di questo nostro sventurato paese, e dimostrando quindi di essere un Autore solido sia dal punto di vista stilistico che della costruzione della trama.

...sprofondò le mani nelle tasche della giacca e s'incamminò verso Piazza San Secondo, sbucando proprio al cospetto della collegiata. La chiesa romanica dominava, esaltata da fari incassati nel selciato. L'ampio rosone era un occhio titanico che scrutava con iride multiforme la piazza, la città e oltre. (Il settimino, Fabrizio Borgio)
Sullo sfondo della vicenda del Settimino vi è un fatto di cronaca che probabilmente a molti farà tornare in mente vecchi fantasmi: l'omicidio di uomo politico. Un'esecuzione, sembrerebbe. Tre colpi calibro nove per ventuno. Uno gli ha perforato l'occhio sinistro, gli altri due al cuore. Per essere sicuri. La vittima si chiama Rocca, anche conosciuto come l'uomo della rinascita, un volto nuovo con delle idee nuove, sorto dalle macerie del partito democratico, annichilito da miriadi di litigiose correnti interne e dall'assenza di una radice ideologica.
Ormai è ciclico, - suggerisce uno dei protagonisti - ogni volta che si tenta di aggiustare qualcosa, mani invisibili danno una bella botta al castello di carte che si stava mettendo su. E poi, via tutti con il solito teatrino: accuse che cadono nel vuoto, sguardi torbidi, scambi di poltrone e il lento riassestamento del potere. Cosa ci sarà mai di misterioso in tutto questo, viene da chiedersi. Eppure la storia politica italiana è satura di cosiddetti misteri, episodi all’apparenza scollegati l'uno dall'altro e sulla cui natura è tuttora steso un velo di incertezza ma che, se guardati nel loro insieme, fanno trasparire scenari che non lasciano alcun margine al dubbio. Basta pensare alle vicende che portarono, quarant'anni fa, al crack del Banco Ambrosiano e a tutti i fili che si poterono unire grazie agli elenchi, veri o presunti tali, degli appartenenti alla loggia massonica P2. Ma sto divagando.

Fabrizio Borgio affronta l'argomento con mirabile lucidità, dando particolare enfasi a quegli episodi, fra i tanti di cui conserviamo memoria, che si spingono ben oltre il razionalismo comune. Siamo ad Asti. Stefano Drago, agente speciale del DIP (Dipartimento Indagini Paranormali), una realtà che ovviamente non potrebbe mai esistere nel mondo reale, cerca di fare i conti con tutto questo, mentre per le strade di Asti si aggira lo spettro di un setmìn, l'unico prezioso testimone di una verità scomoda, l'unico in grado di scardinare, attraverso capacità paranormali, le fondamenta di un sistema colluso, che si regge su accordi di potere e interessi economici.
Horror? Fantapolitica? Diciamo piuttosto politica tout-court con qualche pizzico di sovrannaturale. In fondo, i misteri italiani si sono spesso sovrapposti e confusi con misteri di ben altro tipo. Basta riandare con la mente a quelle strane sedute spiritiche legate alla vicenda di Aldo Moro, sedute dalle quali emersero informazioni vitali, ovviamente sottovalutate, per la risoluzione del caso. Se tutti noi, ai tempi, ci siamo bevuti allegramente la favoletta che gli spiriti potessero comunicare con Romano Prodi (sì, proprio "quel" Romano Prodi), allora non vedo perché non possiamo goderci tranquillamente anche le vicende di un Settimino dotato di poteri psichici nella parte di un potenziale destabilizzatore dello Stato.

Il sovrannaturale, dopo un primo capitolo dove sembra essere il vero fulcro del racconto, passa decisamente in secondo piano mano a mano che si procede con la lettura, cedendo generosi spazi all'adrenalina più pura, senza esclusione di scontri a fuoco e inseguimenti, mentre sullo sfondo si delinea un disegno occulto e così ramificato da vederne a malapena i confini. Sorprendente? Non direi, visto che ben altri illustri predecessori, nel cinema e nella letteratura, hanno fatto lo stesso. Nella prima categoria mi viene in mente, senza rifletterci troppo, l'esempio del celeberrimo "Scanners" di David Cronenberg (1981). Nella letteratura mi sovviene invece un racconto, non altrettanto famoso, che è transitato di recente sul mio comodino: trattasi di "Fobia" di Samuel Marolla, altro nome fondamentale del panorama Acheron.
Sarei curioso di sapere se e da quali esempi Fabrizio Borgio abbia tratto ispirazione, ma sono quasi certo che la risposta sarebbe "nessuna ispirazione se non la mia mente". Vedremo di chiederglielo al più presto...
Fabrizio Borgio, per inciso, è lui stesso un settimino e questo particolare spiegherebbe certamente molte cose. Tuttavia, pur fornendo lo spunto di partenza, il folclore non ha molto peso nella vicenda. L’Autore, infatti, sembra più interessato a creare una propria mitologia, il cui fulcro è la piccola figura infantile senza volto, piangente, che rappresenta la parte migliore di un paese alla deriva, ultima e forse unica speranza in una ricostruzione culturale e morale che razionalmente non sembra più possibile, mentre la sensazione di ignavia e generale apatia è enfatizzata dalla descrizione di una Asti iperrealistica, ricoperta com’è dalla cappa dell’inverno e imborghesita dalla naturale ritrosia dei suoi abitanti. Se fossimo in America, il funzionario che sta indagando troverebbe il modo di sconfiggere il sistema, o almeno di sottrarsi alla sua perversa logica; ma siamo in Italia, e Drago non può far altro che ingoiare amaro e tenersi il suo posto fisso, mentre la vita continua il suo corso e la speranza sembra qualcosa di sempre più illogico e inafferrabile.

Di settimini e di altri misteri italiani

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Quando tra le proprie attività ludiche preferite vi è quella del blogger, il semplice atto di leggere un libro (e magari recensirlo) non è quasi mai una pratica fine a se stessa. Specialmente se si opera con passione e divertimento. La maggior parte delle volte, leggere un libro (ma anche guardare un film, perché no) significa chiedersi quale valore aggiunto tale esperienza possa portare alla propria creatura digitale, significa chiedersi quali nuovi meccanismi possano venire innescati da un atto apparentemente tanto semplice. A cascata significa poi chiedersi quali nuove strade si potranno percorrere.
La lettura de "Il settimino" di Fabrizio Borgio, della quale ho dato conto nel mio articolo precedente, è esattamente uno di quei casi: si gira la prima pagina credendo di trovarsi di fronte a una storia di creature fantastiche legate al folclore piemontese, e invece...
E invece ci si ritrova a riflettere su mille altre cose, apparentemente distanti anni luce l'una dall'altra: dagli archetipi in psicologia a quelle vecchie storie di delitti e di faccendieri di cui la prima repubblica italiana è stata maestra.

Erano anni infatti che non ripensavo a quelle settimane in cui tutta l'Italia aveva il fiato sospeso per il destino di Aldo Moro, lo statista che fu uno dei sostenitori del cosiddetto "compromesso storico". A quei tempi chi scrive aveva poco più di dieci anni e capiva poco o niente di quello che stava succedendo, ma nella sua ingenuità non poteva fare a meno di sorprendersi di fronte ai comportamenti di quelle persone che, in giacca e cravatta, avevano la responsabilità di guidare il paese. Nel suo libro Fabrizio Borgio cita infatti un episodio piuttosto curioso della vicenda Moro, il famoso particolare della seduta spiritica che avrebbe potuto guidare gli inquirenti direttamente al covo di via Gradoli e che invece li portò a perdere tempo tra le strade di un omonimo, innocente, comune del viterbese. Mi sono sempre chiesto quale spirito trapassato potesse aver interesse nel farci venire a capo di un sequestro di persona. E ancora me lo chiedo, anche se non sono più il bambino ingenuo di allora.
L'occasione di avere Fabrizio Borgio tra i miei contatti di Facebook è stata quindi irresistibile. Quella che leggerete tra poche righe non è esattamente l'intervista a uno scrittore reduce dalla sua ultima fatica letteraria, bensì una simpatica chiacchierata fra amici alla ricerca di quelle risposte che il nostro paese non ha mai avuto. Ovviamente si parlerà anche di settimini, perché è giusto e corretto che sia così. And now, ladies and gentelmen... Fabrizio Borgio!

* * *

Francesco Borgio
T.O.M.: Ciao Fabrizio e benvenuto su Obsidian Mirror. Mettiti pure comodo e versati da bere. Sei a tuo agio? Bene. Allora, come avrai intuito oggi parleremo de “Il settimino”… ti senti preparato sull’argomento? 

F.B.: Direi abbastanza, grazie 

T.O.M.: Quando si vestono i panni dell’intervistatore, e si entra nell’ottica di dover porre delle domande mirate su un singolo argomento, bisogna sempre fare i conti con una piccola parte introduttiva. La prima domanda è quindi più che altro una formalità: chi è Fabrizio Borgio? Tieni presente che i miei lettori quasi sicuramente conoscono già la risposta, avendo già letto di te su blog qua vicini... e magari molti di questi leggono anche il tuo "Taccuino di altri mondi"...

F.B.: In estrema sintesi: Un settimino quarantanovenne piemontese che da grande vuole fare lo scrittore.

T.O.M.: Da quello che ho capito Stefano Drago, uno dei protagonisti de “Il settimino”, appare in almeno altri due tuoi lavori precedenti, “Masche” e “La morte mormora”. Entrambi quei titoli erano dichiaratamente basati sul folclore piemontese: anche “Il settimino” è un argomento di carattere così strettamente regionale? 

F.B.: Non così strettamente come i precedenti anche se nel nostro folklore il Settimino è uno dei protagonisti oltre che figura “reale” ancora viva nelle campagne piemontesi. 

T.O.M.: Leggendo in rete la tua biografia mi è capitato di scoprire che tu stesso sei un settimino, il che dopo quello che ho letto mi mette un tantino a disagio. A differenza di masche e affini, mi pare però che i settimini non fossero anime totalmente malvagie, no? 

F.B.: Guaritore, stregone, necromante… una figura multiforme, tradizionalmente un nato prematuro il settimo mese ma può anche essere il settimo figlio di sette fratelli, le varianti sono numerose e cambiano anche da paese a paese, da nazione a nazione. Per lo più sono massaggiatori adesso. 

Via Fani, 16 marzo 1978
T.O.M.: Come dicevo nel post di qualche giorno fa, dopo un’introduzione al cardiopalma degna di “quel Cronenberg” che sai, “Il settimino” prende una piega nettamente diversa: mette un po’ da parte l’aspetto fantastico e si getta a capofitto in quelle vecchie storie italiane di politici, banchieri e faccendieri…. Come ti è venuta l’idea di mettere insieme le due cose? 

F.B.: Tra parentesi, Cronenberg lo cito due volte, sfido i lettori a capire l’allusione! È stato un collegamento spontaneo sorto nel momento nel quale ho inserito dei servizi segreti “deviati”. La storia oscura del nostro paese si dipana lungo un intreccio di complotti e operazioni ambigue, mi sembrava così di inserire un elemento inedito nel fantastique nostrano, andando a rileggere la notte delle Repubblica in chiave misteriosa. L’abbinamento mi affascina da sempre. 

T.O.M.: Politica e parapsicologia evidentemente non sono due universi così lontani. Nel tuo libro infatti a un certo punto si fa riferimento a quella famosa vicenda di via Gradoli, uno dei momenti più esilaranti della vicenda Moro. Ho scritto “esilaranti” anche se in realtà non ci sarebbe niente da ridere, ma se ci ripenso quarant’anni dopo non posso che definire quell’episodio un’enorme buffonata. Vuoi spenderci due parole? Tra l’altro io e te siamo coetanei, per cui immagino che abbiamo assistito al rapimento e all’omicidio dello statista democristiano più o meno con gli stessi occhi. Sinceramente io però non ricordavo affatto che fosse stato Romano “mortadella” Prodi il medium di quella famosa seduta spiritica. E, come me, sono sicuro che molti altri se lo fossero dimenticato. Che si tratti di un classico caso di “oblio collettivo della memoria”? 

F.B.: Ricordo che ero tornato a casa da scuola, trovando la famiglia catalizzata davanti al piccolo Tv in bianco e nero che tenevamo in cucina. Silenzio teso, il tg che mostrava le ormai tragiche e note immagini della R4. C’era incredulità e la consapevolezza che la situazione era grave. Per me era quasi eccitante e se non fosse stato per l’aria da funerale che si respirava in casa ne sarei stato perfino eccitato. Scrivendo Il Settimino mi sono riletto tutta la trafila, dal rapimento fino alla morte. Prodi risulta uno dei richiedenti l’extrema ratio della seduta spiritica. Un esempio tipico di come anche ai più alti livelli si finisce col perdere il senso della ragione. Si potrebbe affermare che eravamo una nazione sull’orlo di una crisi di nervi oltre che istituzionale. In realtà questa storia della seduta spiritica ogni tanto saltava fuori. La Fallaci l’aveva spesso rinfacciata al buon Romano, per fare un esempio ma si tratta di una di quelle informazioni che tendono a svanire… forse l’oblio collettivo della memoria su determinati temi si acuisce e sì che noi, come collettività, ne soffriamo in forma grave. La memoria storica è un anello terribilmente debole in una nazione incompleta e incompiuta come la nostra e questa debolezza influenza negativamente, a mio parere, il decorso politico e sociale dell’Italia.

T.O.M.: Ben presto, nello svolgimento del romanzo, butti lì una frase che mi ha incuriosito: scrivi che uno dei tuoi personaggi “stava elaborando un complesso sistema che intrecciava gli archetipi junghiani con le dinamiche nazionali”. Davvero pensi che l’inconscio collettivo, un concetto che tutto sommato ha un che di soprannaturale, possa influenzare la vita sociale e in particolare quella politica?

F.B.: Assolutamente sì e se si va a leggere la definizione ufficiale, le figure archetipiche sono realmente soprannaturali. Le campagne elettorali e la costruzione dell’assenso si basano proprio su suggestioni, suggestioni e percezioni quasi sempre gonfiate e alterate che sono utilizzate dai partiti creando realtà alternative. Le figure archetipiche sono davvero un comune sentire che favorisce l’aggregazione. Un esempio eclatante è dato dalla mitologia che la Lega Nord ha strutturato agli inizi degli anni ‘90, basandosi sulla presunta “comune origine celtica” dei popoli settentrionali. Avevano creato un senso di appartenenza sul quale fidelizzare la loro base elettorale. Operazione analoga a quella del nazismo con la razza ariana o con la mitizzazione dell’impero romano e i latini da parte del fascismo ma tutto questo in fondo è solo la superficie. Come faccio dire a Rocca ne Il Settimino in una sua intervista televisiva, il grosso problema dell’Italia è che la sua unificazione, la costruzione di uno spirito nazionale è calata dall’alto di una elite intellettuale su un popolo che non la percepiva come un’esigenza inderogabile. La Francia ha avuto la Rivoluzione e la presa della Bastiglia, l’Italia, no. 

T.O.M.: Sedute spiritiche, sette segrete, anarchici volanti, caffè al cianuro, bancarottieri sotto i ponti, pontefici a trenta giorni fine mese… la storia italiana è particolarmente ricca di situazioni al limite del paradossale. Senza entrare troppo nel merito, con il rischio di calpestare qualche merda, oggi come la vedi? Quando hanno smesso di pigliarci per il culo? E quanto siamo lontani da quella “azione fondante” in grado di risvegliare l’anima dell’Italia che teorizza il tuo professor Rocca? 

F.B.: Quando hanno smesso di pigliarci per il culo? Finché ci sarà chi è disposto a lasciarglielo fare per il proprio orticello mai. Siamo lontani anni luce dall’azione fondante per due motivi interconnessi tra di loro: i governi che si sono succeduti dalla creazione dello Stato fino ad ora non hanno lavorato nella direzione necessaria a far germogliare il famoso senso di appartenenza. Si percepisce l’entità statale come cosa “altra” perché l’interesse della popolazione è sacrificato per l’interesse di lobby. Non si costruisce una nazione partendo dalla sua squadra di calcio, la si costruisce con la consapevolezza che il singolo cittadino È Stato, che pagare le tasse è il giusto contributo al bene comune e dall’altra parte lo Stato dovrebbe fornire servizi e amministrazioni dei quali i cittadini dovrebbero sentirsi fieri. È sempre stato un atteggiamento sfacciato e deleterio che non ha mai cessato di minare l’interesse comune; dall’altra parte, c’è il singolo che pur di strappare un minimo di privilegio o tornaconto personale, distrugge l’interesse della collettività. 

T.O.M.: Ho sempre pensato che, a dispetto di quanto comunemente si crede, specie all’estero, il tratto caratteristico dell’anima degli italiani sia una sottile malinconia e un radicato senso di disillusione. Quanto concordi con questa affermazione? 

F.B.: Sulla malinconia non concordo molto, percepisco più una nostalgia deformata dalla memoria giovanile, un’afasia del passato particolarmente viva in un popolo anagraficamente in declino; sulla disillusione sì. La disillusione e una sfiducia congenita sono due nuvole che aleggiano sempre attorno al capo del cittadino medio. Siamo ossessionati dai campanili ma non dall’insieme nel quale viviamo, un senso di appartenenza microscopico molto più forte di quello macroscopico 

T.O.M.: Passiamo ad argomenti più leggeri… dopo “Il settimino”, che ormai mi pare abbia già un annetto di vita alle spalle, qual è stato il percorso letterario di Fabrizio Borgio sino ad oggi? 

F.B.: Dopo Il Settimino, cinque mesi dopo è uscito Asti Ceneri Sepolte, facendomi così superare il record personale di due romanzi nello stesso anno. A differenza del primo, Asti Ceneri sepolteè un giallo/noir appartenente al ciclo di Giorgio Martinengo, l’investigatore delle Langhe. 

T.O.M.: Ora che la mia curiosità è stata ampiamente soddisfatta, caro Fabrizio, non mi resta che ringraziarti per aver accettato di farmi visita sul blog. Come faccio abitualmente in queste occasioni, lascio a te un po’ di spazio dove puoi parlare a ruota libera di tutto quello che vuoi, dei tuoi progetti presenti e futuri, o di qualsiasi altra cosa. Un angolino dove puoi farti un po’ di pubblicità, anche in maniera spudorata.

F.B.: Come anticipato nella risposta precedente ho anche una produzione gialla/noir. È l’altra scarpa nella quale sto tenendo la mia attività di scribacchino. Nel futuro prossimo ci sarà una terza indagine sempre di Martinengo, un mio racconto nell’antologia Bar del fantastico, della Cooperativa autori Fantastici e un altro racconto per un’antologia della Frilli editori: la Finestra sul noir, in memoria della scomparsa del fondatore: Marco Frilli. Come work in progress ho un nuovo romanzo sganciato dai due cicli sopra citati, un lavoro anomalo, intriso di fantascienza alla Tullio Avoledo mentre i nuovi di Martinengo e Drago sono in fase di documentazione. Chiudo con un ringraziamento riconoscente a Obsidian Mirror per l’interesse e l’ospitalità. Spero di tornare per le prossime uscite. Fabrizio

Koizumi Yakumo, Lafcadio Hearn

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"Per i molti ai quali non fu dato di conoscere personalmente il Giappone, e che sempre, in una muta quanto bramosa curiosità, ricorrono alle fotografie e tengono in mano estasiati i preziosi oggetti leggiadri dell'arte giapponese per costruirsi, sulla base di tale precario supporto, un sogno multicolore di quel lontano paese, per tutti costoro Lafcadio Hearn è diventato un sostegno incomparabile e un amico." (Stefan Zweig, 1911).

Ormai un anno è passato dall'ultima volta che il progetto Kaidanè apparso sulle pagine virtuali di questo blog. Oltre un anno e mezzo, se vogliamo escludere dal conteggio la lunga digressione dedicata all'universo di Ring. Il tempo, sebbene venga scandito con estrema precisione dalle lancette degli orologi, sembra avere la strana caratteristica di comprimersi e di espandersi al di fuori del nostro controllo... Ma, lo avete capito, sto solo cercando delle scuse.
Lasciataci alle spalle Sadako Yamamura e tutta la sua mitologia, è giunto il momento di rientrare sulla carreggiata principale, quella che, attraverso cento articoli, cercherà di affrontare il tema che ci eravamo prefissati in tutta la sua interezza. E da dove ripartire se non da Lafcadio Hearn, il più celebre narratore di storie di fantasmi giapponesi?
Strano nome Lafcadio Hearn. Non sembra affatto giapponese. E avete ragione: Patrick Lafcadio Hearn era irlandese, nato da padre irlandese e madre greca... e... e come avete già intuito, ho deciso di raccontare questa storia proprio dall'inizio.
Fu un'infanzia non propriamente felice la sua: all'età di sei anni i genitori divorziarono, il padre lo portò con sé a Dublino e da quel giorno egli non vide più la madre. Qualche anno dopo, un maldestro scherzo tra ragazzini gli portò via un occhio; una menomazione che comunque non impedì al nostro di trovare il proprio posto nel mondo. Poco più che ventenne, trasferitosi a Cincinnati (probabilmente a causa di dissidi in famiglia), il giovane Lafcadio era già una piccola celebrità come giornalista di cronaca nera. I suoi articoli erano, diciamo così, piuttosto "singolari"... la parola giusta potrebbe essere "pittoreschi", se non fosse che quella violenza da lui descritta, quella maniacale accuratezza per i dettagli più disturbanti, non erano che lo specchio fedele della realtà che si respirava in città, nelle strade, nelle case e nei palazzi.

Evidentemente, fu già allora che iniziò a germogliare la passione di Lafcadio Hearn per lo strano e per il bizzarro. Nei dieci anni che il nostro trascorse a New Orleans, a partire dal 1887, egli iniziò a sviluppare una passione che l'avrebbe reso celebre: particolarmente attento alla letteratura "esotica", Lafcadio Hearn prese a raccogliere frammenti di vecchie leggende orientali e a metterli insieme, per l'entusiasmo dei lettori del Times Democrat.
Per comprendere l'origine di questo entusiasmo apparentemente ingiustificato, non va sottovalutato il contributo di una corrente artistica che si stava sviluppando in tutta Europa, e di riflesso negli Stati Uniti, proprio in quegli stessi anni: il cosiddetto "giapponismo", letteralmente la fascinazione che quel paese dell'Oriente più remoto sapeva trasmettere grazie ai prodotti dell'arte figurativa, in particolare alle ceramiche, alle xilografie e ai dipinti su seta. Oggi gli appassionati d'arte (e anche i più attenti consultatori di Wikipedia) sanno perfettamente che artisti come Van Gogh, Monet, Renoir e Klimt furono influenzati da nomi come Utamaro e Hokusai, giusto per citare i più noti.

Fu così che, alle soglie dei quarant'anni, Lafcadio trovò la sua definitiva realizzazione nel paese del Sol Levante, dove era stato inviato come corrispondente dal già citato Times Democrat. Era il 1889 e Lafcadio Hearn, che si innamorò perdutamente del paese che così calorosamente lo aveva accolto, mollò tutto, trovò un impiego come insegnante di inglese in un liceo e, nel giro di un anno, trovò moglie e ottenne la naturalizzazione, assumendo il nome di Koizumi Yakumo
Tutta questa roba la potete leggere anche su Wikipedia, non faccio fatica ad ammetterlo. Quella a cui invece Wikipedia non fa alcun accenno è l'immensa eredità che Lafcadio Hearn ha lasciato al mondo, a livello letterario ma anche umano: molti suoi contemporanei, che ancora usavano approcciarsi al Giappone con atteggiamento colonialistico, non poterono che essere colti di sorpresa da un sentimento di tale devozione nei confronti di una cultura così diametralmente diversa.
"Il paese è permeato di uno strano fascino. Artisticamente è come un grande museo, a livello sociale è come vivere nel paese delle fate. [...] L'aspetto religioso mi ha letteralmente folgorato e le mie emozioni ne sono assorbite completamente. Sono praticamente immerso nel buddismo, un buddismo totalmente diverso da quello descritto nei libri - qualcosa di infinitamente tenero, toccante, naif, meraviglioso. Mi accompagno con le folle di pellegrini ai grandi santuari, suono le grandi campane e brucio incenso davanti alle grandi divinità sorridenti.", furono le parole che Lafcadio Hearn, un mese dopo il suo arrivo, scrisse a un suo vecchio amico di Cincinnati.

Nei racconti dello scrittore irlandese troviamo tutto questo: in essi traspare un senso di smisurato stupore e di infinita ammirazione. Lafcadio Hearn, che con il tempo ottenne una cattedra di letteratura inglese presso l'Università Imperiale di Tokyo, divise sé stesso tra la necessità di trasmettere la storia e la cultura del proprio paese di origine agli studenti giapponesi e il desiderio mai sopito di apprendere la storia e la cultura del suo paese ospite. Trascorse intere notti chino sulla sua scrivania a tradurre vecchi testi, a rielaborare antiche leggende e storie di fantasmi, spesso ricavando spunti da tradizioni orali o dalla propria esperienza personale. Dedicò alla sua passione quattordici anni della sua esistenza, una passione che ebbe termine solo con la sua morte, avvenuta nel settembre del 1906 dopo una lunga malattia. Probabilmente fu a causa del suo esilio volontario che il nome di Lafcadio Hearn sparì nell'oblio per quasi un secolo. Non vi crucciate quindi se non lo avevate mai sentito nominare prima d'oggi: è perfettamente normale. Il mondo avrebbe dovuto attendere gli anni Ottanta per poter finalmente godere dell'opera di Hearn, raccolta in numerosissime antologie messe insieme prelevando frammenti, piuttosto a casaccio, dalla sua immensa produzione narrativa.

Io stesso inciampai per caso in Lafcadio Hearn nella primavera di sei anni fa quando, cercando storie giapponesi nel catalogo di una nota libreria inglese, trovai la sua più celebre antologia di racconti, quel "Kwaidan" il cui nome oggi utilizzo per etichettare questa serie di post. L'edizione a cui mi riferisco, che tuttora tengo spesso sul comodino, è quella della casa statunitense Dover Publications che vedete qui a fianco.
Testimonianza di quel mio incontro rimane quel mio vecchio post, scritto quando ancora ero un principiante del blogging (non feci altro che riportare integralmente il testo di un racconto).
Un'antologia di racconti fantastici, quella di cui stiamo parlando, che Lafcadio Hearn iniziò a scrivere ben presto dopo il suo arrivo in Giappone e che vide la stampa appena cinque mesi prima della sua morte. I cambi di stile tra un racconto e l'altro, proprio a causa di questa sua lunga incubazione, sono piuttosto evidenti.
Quella "W" aggiuntiva presente nel titolo, che qualcuno avrà sicuramente notato, è solamente un piccolo "trucco fonetico" ideato dall'editore per facilitare la pronuncia del termine "Kaidan" da parte dei lettori anglosassoni.
Non serve proseguire oltre, per oggi: questo breve articolo su Lafcadio Hearn ha infatti ragione di esistere giusto nel contesto in cui ho voluto inserirlo, quello delle "cento storie di fantasmi", ma non aggiunge nulla di veramente inedito sul personaggio. Il progetto è piuttosto quello di abbeverarci dalla conoscenza di un indiscusso esperto di fantasmi giapponesi e di prendere spunto da essa per gli articoli che verranno. Forse non l'ho ancora detto, ma è interessante sottolineare che la maggior parte dei giapponesi moderni conosce le storie di fantasmi della propria tradizione solo attraverso gli scritti di questo signore irlandese. Quale voce più autorevole, quindi?
Concludo citando un paio di fonti, oltre alla solita Wikipedia: si tratta di due ulteriori piccole antologie edite da Tranchida intitolate "Nel Giappone spettrale" e "Al mercato dei morti" che contengono, oltre a numerosi racconti di Hearn (in alcuni casi pescati direttamente da "Kwaidan"), delle gustose prefazioni di Gabriella Rovagnati, germanista e traduttrice, e un breve saggio del drammaturgo austriaco Hugo von Hofmannsthal.

Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di  tale progetto,  esso rappresenta la parte 28 in un totale di 100.
Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. Buona lettura! 
P.S.: Possiamo spegnere la 28° candela...

Gli esploratori dell'infinito

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Solitamente cerco di dare spazio alle piccole segnalazioni solo entro quel ristretto spazio, più o meno appositamente creato, che appare su questo blog su base bimestrale. Sto parlando di "Traditi dalla fretta", se non si fosse capito: quella specie di rubrica che da qualche mese, piuttosto puntualmente, fa capolino da queste parti. 
Oggi invece è il caso di infrangere quella piccola regola non scritta per dare un po' di voce a un'iniziativa piuttosto curiosa che, a mio parere, merita la giusta attenzione.
Come al solito, dietro un'introduzione del genere c'è lo zampino di Cliquot, piccola casa editrice dai natali digitali specializzata nel recupero di romanzi, raccolte di racconti e saggi inediti in Italia o da lungo tempo fuori catalogo. 
Inutile dire che per il sottoscritto ogni nuova uscita è un'incitazione all'acquisto compulsivo e che solo un incrollabile autocontrollo mi trattiene dallo "sperperare" una montagna di denaro. Il particolare, non trascurabile, che queste opere sono invece accessibili a prezzi piuttosto contenuti non sostiene, ahimè, alcuna mia scusa basata sul risparmio.
Ma lasciamo per un attimo da parte queste piccole divagazioni economicistiche e veniamo piuttosto al punto.

Come riporta wikipedia, Yambo, pseudonimo di Enrico de’ Conti Novelli da Bertinoro (1876-1943), è stato un giornalista, illustratore, scrittore e autore di fumetti italiano, noto soprattutto per i suoi libri per ragazzi. Ammetto che la mia memoria ancora non riesce a disseppellire praticamente nulla che abbia a che fare con il nome Yambo, sebbene tecnicamente dovrebbe essermi noto a causa delle mie tante letture relative a quell'epoca. L'unica "lucetta" che si accende, seppure in un remoto angolo del mio cervello, ha a che fare  con il nome di Ciuffettino, un personaggio a metà strada tra Pinocchio e Gianburrasca che ebbe il suo momento di gloria a cavallo tra il 1969 e il 1970 grazie a uno sceneggiato trasmesso sulla rete nazionale.
Ciuffettino, protagonista di due romanzi scritti da Yambo, mi ricorda effettivamente qualcosa, anche se non saprei dire esattamente cosa. Dubito di aver visto quel programma alla tivù, considerata la mia relativamente giovane età, per cui sarei più propenso a "incolpare" una delle numerose trasposizioni a fumetti che con buona probabilità possono essere transitate un tempo nelle mie mani. Molto più semplicemente però il ricordo di Ciuffettino potrebbe essermi stato trasmesso da mia madre, che, ripensandoci, ha tutte le carte in regola per esserselo letto quand'era ragazza.

Yambo (1876–1943)
Ma non è Ciuffettino l'argomento di oggi: parleremo invece de "Gli esploratori dell'infinito", un gustoso esempio di protofantascienza italiana che, grazie alla già citata Cliquot, sta per rivedere la luce. Non c'è da stupirsi se un titolo come "Gli esploratori dell'infinito", o più in generale il nome del suo autore, oggi non significhi nulla per la maggior parte di noi: semplicemente è la narrativa fantastica del Novecento che ad un certo punto è stata messa drasticamente da parte e dimenticata, come se fosse una cosa di cui gli italiani, presuntuosamente autodefinitisi "popolo di poeti e di navigatori", dovrebbero vergognarsi. E in effetti è andata proprio così: a parte alcune opere di Emilio Salgari e di Jules Verne (che molti chiamano ancora "Giulio", ritenendolo italiano), non vedo altri esempi che possano costituire un'eccezione alla regola. Eppure "Gli esploratori dell'infinito", andato alle stampe per la prima volta nel 1906, è molto spesso indicato come il primo romanzo di fantascienza illustrato della nostra letteratura e, cosa non da poco, il più significativo.
Il romanzo "narra le vicende di Harry Stharr, miliardario filantropo e direttore del giornale "Of The Good Young Gazette" e del suo redattore capo Giorgio che, un bel giorno, decidono di lasciarsi alle spalle la vita complicata sulla Terra e di trasferirsi nel tranquillo Cupido, nuovo asteroide appena scoperto. Ma Cupido si stacca dall'orbita terrestre e inizia a vagare nell'immensità dell'universo, ed è l'inizio per i due protagonisti di un'avventura stellare fatta di situazioni assurde e incontri strabilianti...".
L'edizione di Cliquot, oltre a riproporre tutte le settanta (e più) illustrazioni originali di Yambo, recupera anche le versioni di copertina del 1906: un lavoro certosino di cui andiamo a chiedere conto a Federico Cenci, portavoce di Cliquot e vecchia conoscenza di questo blog.

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T.O.M.: Ciao Federico, bentornato su Obsidian Mirror. L’appuntamento di oggi è di quelli gustosi, mi pare di capire… 

F.C.: Ciao Obs, grazie per questo spazio e quest’intervista, che in effetti arrivano in un momento molto particolare e molto ricco della vita editoriale di Cliquot! Vengo subito alla parte gustosa: abbiamo lanciato da pochi giorni un crowdfunding per pubblicare il secondo volume della nostra collana Fantastica, andando a ripescare dall’oblio uno dei romanzi senza dubbio più affascinanti (e più dimenticati) dell’intera letteratura fantastica italiana: Gli esploratori dell’infinito di Yambo. Il crowdfunding durerà ancora per tutto il mese di ottobre, e il libro sarà pronto per la fiera dell’editoria Più Libri Più Liberi di Roma dei primi di dicembre (e può essere un ottimo regalo di Natale, eheh). Ho sempre considerato Cliquot una specie di laboratorio di sperimentazione editoriale, un po’ perché facciamo libri che nessuno fa, un po’ perché nel farli tentiamo – da pazzi incoscienti − soluzioni editoriali, tipografiche, commerciali molto diverse da quelle che solitamente adottano i colleghi. Ci siamo accorti che la strada del crowdfunding – che abbiamo intrapreso, non lo nego, anche per necessità – si sta rivelando uno dei nostri cavalli di battaglia, un marchio distintivo per Cliquot e per la collana Fantastica in particolare e soprattutto ci consente di divertirci ed esprimerci al meglio, di inventare idee sempre più insolite nella realizzazione dei libri (idee che spesso fanno impazzire il nostro tipografo!). 

T.O.M.: Partiamo dal principio, dalla collana Fantastica, di cui questo Gli esploratori dell’infinito rappresenta la seconda uscita del catalogo Cliquot. Vuoi spiegarci brevemente di cosa si tratta? 

F.C.: L’anno scorso abbiamo incluso nel progetto Cliquot anche la stampa di libri di carta, dopo un primo anno dedicato esclusivamente alla pubblicazione di ebook, e una delle priorità che ci siamo dati è quella di accontentare davvero gli amanti del libro in quanto oggetto. In un certo senso abbiamo sentito il peso della responsabilità di passare dall’etereo dell’ebook alla concretezza del cartaceo, in un mondo in cui di cose inutili se ne producono già abbastanza. Inoltre, una delle richieste più incalzanti che ci erano giunte dai nostri lettori della prima ora era quella di trasformare gli ebook della nostra collana Generi (dedicata alla riscoperta di opere dimenticate nella letteratura popolare italiana – collana che tu ben conosci, dato che facesti una bellissima recensione di uno dei nostri primi ebook!) in libri “veri” che potessero non soltanto essere letti, ma anche custoditi con cura e collezionati. Tutte queste considerazioni sono confluite nella collana Fantastica, il cui nome dice già tutto: è “fantastica” perché consacrata al recupero di narrativa dell’immaginario (fantastico, fantascienza, gotico ecc.), ma è “fantastica” anche perché è realizzata ogni volta con materiali, tecniche e accorgimenti tipografici della più alta qualità, e con un ricco apparato di illustrazioni, in modo da rendere la lettura anche un’esperienza sensoriale appagante. Una delle particolarità della collana è la pubblicazione in doppia versione: Classica brossurata e Deluxe cartonata in tiratura limitata e numerata per soddisfare le voglie dei collezionisti e dei feticisti più incalliti. Abbiamo realizzato in doppia versione sia il primo volume della collana, Alla conquista della Luna di Emilio Salgari, sia questo nuovo volume, e così continueremo anche in futuro. 

T.O.M.: Dopo Emilio Salgari, un nome che presumibilmente conoscono anche i sassi, siete quindi andati a recuperare un illustratore toscano dal curioso nome di Yambo che, secondo wikipedia, sarebbe lo pseudonimo di un tizio dal nome lunghissimo. Vuoi raccontarci i “dietro le quinte” di questo recupero? Come, dove, quando e perché lo avete ripescato? Se poi hai qualche succoso aneddoto da raccontare, sai bene quanto sia gradito… 

F.C.: In realtà scoprire l’opera e l’autore è stato molto più “facile” rispetto ad altri casi nella collana Generi. Questo soprattutto perché nella prima metà del Novecento Yambo era molto famoso e i suoi romanzi (tutti illustrati magnificamente… da lui medesimo!) vendevano migliaia e migliaia di copie! Abbiamo adocchiato subito Gli esploratori dell’infinito nelle nostre ricerche perché è il suo romanzo più importante, e qualsiasi saggio o articolo sulla protofantascienza italiana lo cita come uno dei capisaldi imprescindibili del genere. Io personalmente non riesco a capire come queste splendide storie (penso a Gli esploratori dell’infinito, ma anche ad altre opere di Yambo come La colonia lunare) siano conosciute soltanto dallo sparuto gruppo degli studiosi di fantascienza e non siano invece più note al grande pubblico. O meglio, forse lo intuisco. Da una parte c’è il fatto che (fino a oggi!) i suoi libri non erano stati più ristampati, perlomeno in edizioni comprensive delle splendide illustrazioni interne e di copertina. Dall’altra c’è il discorso che la letteratura fantastica, da noi, è sempre stata intesa un po’ come letteratura per bambini, ingenua e facilona (quando c’è, fra gli altri, un gigante della letteratura come Borges che, in un’intervista di Alberto Arbasino, ci fa capire perché «la grande letteratura non è mai stata realista, ma è sempre stata fantastica»). Yambo stesso, che era un personaggio singolare ed eclettico, era un appassionato di fantastico a trecentosessanta gradi, ed è stato lui a realizzare nientemeno che il primo cortometraggio italiano assoluto di fantascienza, nel lontano 1910! (visionabile in fondo all'articolo, ndr). Se però è stato facile individuare il titolo, tutt’altro discorso è stato rintracciare una copia della prima edizione per recuperare le illustrazioni a colori. All’inizio pensavamo che avremmo fatto in un batter d’occhio perché il MuFant (MuseoLab del Fantastico e della Fantascienza) di Torino si era gentilmente offerto di prestarci la loro. Quando però il libro ci è arrivato… ci siamo accorti che c’era uno dei soliti problemi che affliggono questi antichi volumi: mancava la copertina! Era comune, agli inizi del Novecento, ricopertinare i libri con rilegature tipografiche anonime al fine di preservare il contenuto, ma per noi… era una bella sfortuna! E per di più di copertine ne dovevamo recuperare due perché, come quasi tutte le prime edizioni dei libri di Yambo, ne esistevano due versioni, una brossurata e una cartonata – come la nostra collana Fantastica – e Yambo si divertiva ogni volta a realizzare due illustrazioni diverse. Ebbene: ci siamo messi alla ricerca delle rare copie attraverso tutti i canali che potevamo. È stata un’esperienza bellissima, perché siamo andati personalmente a visitare le sconfinate raccolte di alcuni fra i più importanti collezionisti d’Italia, e non potete immaginare che spettacolo ci si è presentato alla vista! 

T.O.M.: Quando ascolto i tuoi racconti ammetto di provare un pizzico di invidia. Davvero fenomenale! E in tutto questo non posso fare a meno di notare che nel volume sono presenti contributi di Gianfranco de Turris e Fabrizio Foni, due nomi che non hanno certo bisogno di presentazioni… 

F.C.: Chiunque si interessi di critica nel campo del fantastico ha letto qualcosa uscito dalla loro penna, poco ma sicuro. De Turrisè un’istituzione nel settore da almeno quarant’anni, e Foniè uno dei pochissimi intellettuali che abbia coraggiosamente intavolato una discussione accademica sulla narrativa popolare. Niente di complicato, dunque, scegliere loro come contributori critici al nostro progetto, tanto più che entrambi avevano in passato scritto articoli che trasudavano un grande amore per Yambo e la sua opera! Se mi permetti, suggerirei un libro di ciascuno di loro: di Gianfranco de Turris consiglio Cronache del fantastico, (Coniglio, 2009), una raccolta di articoli apparsi negli anni su varie riviste, e di Fabrizio FoniAlla fiera dei mostri (Tunué, 2007) un escursus sulle opere gotiche e pulp italiane a cavallo fra Ottocento e Novecento (è grazie a questo libro se abbiamo riscoperto Il ritratto del morto di Daniele Oberto Marrama). 

T.O.M.: Due suggerimenti che non posso che condividere in pieno... tra l'altro il saggio di Foni, se non vado errato, fu inizialmente redatto dal suo autore come tesi di laurea (mi paure fu così che ne venni a conoscenza, prima di trovare in libreria la sua versione definitiva). Tornando a noi, come ciliegine sulla torta di Yambo ho notato tanti deliziosi gadget (e non i soliti gadget) riservati chi aderisce al crowdfunding… 

F.C.: Quando all’inizio parlavo di divertirci ed esprimerci al meglio, mi riferivo anche a questo! Abbiamo previsto anche questa volta diversi gadget legati al crowdfunding, ma quello più significativo è senza dubbio una serie di poster realizzati a mano da Betterpress Lab, laboratorio tipografico romano gestito da due preparatissime ragazze in cui si utilizzano antiche tecniche di stampa manuali e caratteri mobili realizzati a mano nei secoli scorsi. Ci piaceva questo genere di sinergia fra una casa editrice che ripropone vecchi testi, e l’editoria come era intesa una volta! Se vogliamo, un bellissimo recupero anche questo! Grazie per l’intervista e alla prossima! 

T.O.M.: Grazie a te, Federico, per il tempo che hai dedicato a Obsidian Mirror e ai suoi lettori. E resto in attesa che tu possa tornare di nuovo a raccontarci di altri gustosissimi recuperi letterari.


Da donna a strega: l’eterno ritorno

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L'INTRODUZIONE SI TROVA QUI

In Europa, le analogie fra miti e figure del folclore in territori anche molto distanti geograficamente si spiegano per via delle migrazioni e dei contatti fra vari popoli, e in particolare i Celti e gli Sciti, ma anche i Daci e i Traci, il cui immaginario evidentemente si fuse con quello romano. Il patrimonio culturale italiano, in particolare, è stato plasmato anche da influenze di culture come quella illirica, quella cimbra e quella degli indoeuropei, i nomadi delle steppe russe, e, specie nelle regioni del Nordest, da quelle delle popolazioni slave, tanto che se oltre ai termini generici di Fate e Streghe tenessimo in considerazione tutte le variazioni dialettali dei nomi che ricorrono nelle varie leggende locali, dovremmo contare decine e decine di nomi, molti dei quali fanno parte da tempo immemore della toponomastica: Agane, Angolane, Anguane, Aquane, Begane, Bugadére, Cavestrane, Desodre, Dujacesse, Eguane, Fade, Gandane, Gane, Guane, Inguane, Ivane, Janare, Jane, Krivapete, Lagane, Langane, Linguane, Longane, Melusine, Nanguane, Pagane, Pane, Salinghe, Sequane, Somegane, Spilunghe, Stane, Torke, Varvuole, Vivane, Zuane, e ancora Vecchie Signore, Beate Donnette, eccetera eccetera... 

Nei racconti e nelle leggende che le riguardano, queste figure aiutano i contadini nel lavoro dei campi, svelano i segreti della semina o dell’aggiogo del bestiame, e (come la loro controparte maschile, l'Uomo Selvaggio, nelle sue numerose declinazioni) insegnano l’arte casearia, e addirittura sono in grado di prevedere i fenomeni atmosferici e più in generale il futuro. Solo raramente sono malvagie, in qualche caso persino antropofaghe, ma è del tutto plausibile che queste caratteristiche siano entrate a far parte del mito solo in seguito alla cristianizzazione del territorio. 
A volte si tratta di donne morte di parto, ossia creature che, morendo nel dare la vita, hanno sperimentato contemporaneamente sia la vita che la morte, assumendo caratteristiche soprannaturali di matrice animistica. Ma la tradizione le descrive anche come “lavandaie notturne” (le Agane, soprattutto) o come creature che trascorrono la notte a filare, due attività dall’oscuro simbolismo. Non è molto probabile, come a volte si afferma, che questi spiriti si limitino a ripetere gesti che gli erano abituali o che stiano espiando colpe commesse da vivi (magari, come Lady Macbeth, lavando e rilavando ossessivamente per rimuovere le macchie di sangue, cioè le prove dei propri delitti, dagli indumenti). La tessitura, evidentemente, riguarda il destino degli uomini (è quello, del resto, il compito delle Parche, le Moire, le Norne, le Matres, altre rappresentazioni della “triplice” Ecate). La lavatura invece le ricollega all’acqua, elemento che fa da tramite fra il nostro mondo e l’altra parte, l’Oltretomba: se dall’acqua si viene al mondo, è evidente che questo elemento può consentire anche il passaggio inverso. 

Adolf Münzer, Walpurgis Sabbath, 1906
Ci sono racconti in cui queste creature fanno il bucato, in genere lenzuola così preziose e belle che non possono essere state create da mani umane, né con telai umani, e altri, ricorrenti ad esempio nella tradizione bretone, narrano di lenzuola rubate ai morti, anzi alle morte, che fanno di tutto per riaverli indietro, con conseguenze (ovviamente) infauste. 
Quei teli candidi, infatti, vengono generalmente interpretati come lenzuoli funebri e, guarda caso, questi racconti sono tipici di regioni dove l’uso del lenzuolo funebre si è protratto fino a tempi abbastanza recenti. In tutta Europa, e specie oltremanica, ove il retaggio della cultura celtica si è meglio preservato, le figure di lavandaie o filatrici notturne si fondono con quelle di divinità o spiriti che preannunciano la morte (comeAnkou, nome che in Bretagna indica sia la Morte personificata che la lavandaia notturna, o Giltine, la Morte lituana, che si presenta avvolta in un lenzuolo bianco, il che spiega perché queste creature vengano definite anche Dame Bianche o Bianche Signore, essendo il bianco in tempi remoti il colore della morte). 
Solo per fare qualche esempio, possiamo citare le irlandesi Morrigan e Badb (probabili antenate della Banshee), la Bean Nighe e la Clóta scozzesi, le gallesi Modron e Golchwraig, la germanica Frau Holle (Hel, la Signora dei Morti), la bretone Kannérez-noz, la Moura portoghese, la Bagadiera occitana, la Maouèz-noz francese. 
Queste Fate, Streghe o come dir si voglia abitano quasi sempre zone di particolare interesse geografico o geologico, ma specialmente cavità o sporgenze delle montagne, grotte o antri, sorgenti o laghi o fiumi, tutti luoghi (di cui probabilmente sono le custodi) che rappresentano fisicamente e simbolicamente un accesso alle profondità della terra e alle forze che lì si annidano. Perché la terra è, sulla base di credenze antichissime, quel grembo “materno” che non solo genera e rigenera la vita vegetale e animale, ma che accoglie le anime dei morti e le riporta alla vita. 
Non di rado esse presentano aspetti zoomorfi, incluso un qualche tipo di malformazione che comporta problemi deambulatori (è il caso del piede caprino delle Anguane), caratteristica che da sempre contraddistingue le figure sospese fra il piano naturale e quello soprannaturale, ovvero fra il regno dei vivi e quello dei morti, anche per aver compiuto un viaggio iniziatico (o un’esperienza estatica). Infatti la mancanza di un osso, o una sua malformazione, è una prova del “sacrificio” insito nel rito di iniziazione – qualcosa che nel Cristianesimo divenne la prova tangibile di un patto col Diavolo. 
Tutto questo ci dice che, in origine, esse furono divinità celesti e terrestri, correlate tanto ai cicli lunari che alla dimensione ctonia, che entrarono a far parte delle fiabe e dei racconti popolari solo dopo aver perso ogni attributo metafisico, e dopo che i riti che un tempo venivano loro tributati, anche per la demonizzazione operata dalla Chiesa, vennero dimenticati. Il mito dell’Eterno Ritorno, nel suo senso più ampio che indica il perpetuo farsi e disfarsi delle cose, della natura che vive, muore e rinasce ciclicamente ogni primavera, è legato a doppio filo a quello della donna.

CONTINUA

Francisco de Goya, Il sabba delle streghe, 1823, dipinto a olio su muro trasportato su tela

L'estate segreta di Babe Hardy

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Le labbra di Laurel si deformarono sotto un’incontenibile pressione interna per esplodere infine in una fragorosa risata che lo squassò a lungo. Era una cascata senza freni. L’attore si batteva convulso le mani sulle ginocchia, risucchiava aria con dei ragli asinini, poi riprendeva a ridere con maggiore intensità. Rimasto spiazzato per qualche secondo, Hardy si drizzò in tutta la sua statura, offeso come non mai. «Non vedo proprio cosa ci sia da ridere.»
Sono secoli che non guardo un film comico. Sarà forse che la comicità degli ultimi decenni mi deprime come una riunione di marketing a ferragosto, ma è un dato di fatto che le grasse risate che mi facevo un tempo guardando quei vecchi film con Sordi, Troisi o il principe De Curtis non riesco davvero più a concepirle. 
E pensare che Totò e i suoi compari non avevano nemmeno bisogno di battute: erano capaci di divertire anche solo con la mimica facciale. Ho citato Totò, ma la mia mente inevitabilmente ritorna al cinema dei pionieri, a quelle maschere tragicomiche che erano i Ridolini, i Charlie Chaplin e i Buster Keaton. Ma molto più di questi ultimi, non me ne vogliano i loro eventuali epigoni, da bambino io amavo Stanlio e Ollio e le loro imprese.
Stan Laurel e Oliver Hardy, a differenza di tanti loro predecessori, avevano (non ci piove) il vantaggio della comunicazione verbale, con la quale potevano sottolineare le loro ineguagliabili espressioni, ma è indiscutibile che il loro successo non dipese da quello. Non dipese nemmeno da quel famoso gesto di Hardy, che sottolineava i propri successi da latin lover sitemandosi il nodo della cravatta, né dalle smorfie di Laurel, in lacrime per i propri insuccessi. La chiave del successo della coppia era il "camera-look" di Hardy, che cercava la complicità degli spettatori guardando fisso la cinepresa.  Me ne resi conto per la prima volta diversi anni di più tardi, osservando l'attore inglese Brian Murphy nei panni di George Roper... ve lo ricordate? Massì, il personaggio di quella serie tivù dal titolo "George e Mildred", che era poi uno spin-off di "Tre cuori in affitto"! Brian Murphy aveva copiato quell'espediente e lo aveva fatto suo, se possibile anche migliorandolo. 
Per lunghi decenni non ho più pensato alla coppia Laurel e Hardy, quasi come se li avessi chiusi dentro la valigia dei ricordi che conservo tra la polvere e le bottiglie di vino giù in cantina. Ma poi ci ha pensato Fabio Lastrucci.
Avevamo già parlato dell'autore napoletano poco prima dell'estate, come certamente vi ricorderete. In tale occasione tentai una piccola analisi di una sua raccolta di racconti. Se non fosse stato per quella felice esperienza di lettura, probabilmente non mi sarei mai deciso a mettere "in cantiere" questo nuovo titolo. La parola "nuovo" non è forse azzeccatissima, visto che "L'estate segreta di Babe Hardy"è stato pubblicato da Dunwich quattro anni fa, ma sicuramente nuovo lo è per me.
Nuovo, ma non nuovissimo: ricordo che lessi qualcosa in proposito già molto tempo fa, forse una recensione sul blog di Glò, e che mi affrettai ad annotarmelo. Quest'estate, finalmente, è giunto il suo momento.

La favolosa Hollywood degli anni ’30 si tinge di horror per un contagio ripugnante che si propaga grazie alla promiscuità dell’ambiente cinematografico. Le vittime mostrano un crescente bisogno di sangue, insieme a disturbi della personalità e bizzarri effetti collaterali. Potrebbe mai trattarsi di vampirismo? Lo sperimenteranno loro malgrado Oliver Hardy e Stan Laurel, trascinati in un incubo che coinvolge illustri colleghi – la “fidanzata d’America” Mary Pickford, l’atletico Douglas Fairbanks Sr. e Bela Lugosi – in una doppia vita da tenere nascosta alla legge, ai giornali e soprattutto al sinistro dottor Rainer Von Herb. 
Non deve essere stato facile, per Fabio Lastrucci, svestire delle loro maschere due icone della comicità più classica. Le cronache, questo è vero, narrano di vite tutt'altro che spensierate per Hardy e Laurel, ma non sono quelle le vite che il nostro immaginario riserva loro.  
Molto più facile, se vogliamo, può essere stato dipingere Bela Lugosi, il più classico dei vampiri cinematografici, qui piuttosto fedele all'impietoso ritratto che ne diede il regista Ed Wood nel "peggior film di tutti i tempi" (Plan 9 from Outer Space, 1959). Molto più facile, dicevo, anche grazie a Tim Burton e al compianto Martin Landau (Ed Wood, 1994), che hanno ucciso il re dei vampiri molto più trucemente di quanto abbia mai fatto Van Helsing in cent'anni di carriera.
Al di là di questo, immaginare una Hollywood anni '30 non è facile nemmeno per chi legge, talmente lontani sono nel tempo quegli anni. Laurel e Hardy sono nomi e volti noti, ma quanti potrebbero asserire di saper riconoscere il volto di Mary Pickford in mezzo ad una folla? Eppure, se cercate una sua foto in rete vi renderete di certo conto che l'avete già vista in mille occasioni. Ecco, sarebbe una buona idea se quella foto della Pickford, con quella bellezza così eterea, stesse accanto a voi mentre leggete "L'estate segreta di Babe Hardy": sarebbe un ottimo espediente per potersi meglio immergere in quelle atmosfere fortemente retrò evocate da Fabio Lastrucci.


Racconti e romanzi in cui protagonisti sono personaggi reali, viventi o vissuti, non sono affatto una novità nelle nostre librerie: da diverso tempo ormai autori di tutte le nazionalità si divertono a gettare nelle situazioni più improbabili poeti, pittori e addirittura capi di stato. La sospensione dell'incredulità è in genere ampiamente raccomandata, ma mai come in questo caso è entusiasmante cimentarsi nel discriminare il sorprendentemente vero dal palesemente falso. Lastrucci si diverte a citare qua e là avvenimenti realmente accaduti, come quel celebre bacio tra May Irwin e John C. Rice nella scena finale del musical teatrale The Widow Jones di John J. McNally (in rete trovate un cortometraggio di 18 secondi che testimonia quello che fu il primo bacio pubblico della storia: interessante come testimonianza storica, ma sexy come il manubrio di una bici).

Dopo qualche secondo, il naso di Oliver ruotò dalla spalla dell’altro per puntare sul collo, in prossimità della scia insanguinata. Il respiro gli si spense in petto. Le iridi castane si accesero diventando lucide e brillanti. Fece il tentativo di resistere, ma solo per un attimo. E morse. Morse con la forza di un mastino.
Una storia di vampiri e di cacciatori di vampiri? Tutto questo e anche il suo contrario. Diciamo che se per essere definiti vampiri è sufficiente abbeverarsi di sangue e provare avversione per mazzetti d'aglio assortiti, allora questa è una perfetta storia di vampiri. Se invece ci aspettiamo castelli gotici avvolti nella nebbia, bare invase di ragnatele e paletti di frassino sparsi sul pavimento... beh, allora proprio no.
Piuttosto che cercare una definizione (qualcuno userebbe il termine ucronia, ma non sono d'accordo), preferisco soffermarmi su ciò che "L'estate segreta di Babe Hardy" lascia al lettore una volta raggiunta la parola fine. Che cosa, dunque? Una specie di vaga malinconia.
La cosiddetta "fabbrica della risata" non era affatto quel mondo spensierato cui noi, ragazzi di mezzo secolo fa, sognavamo di abbandonarci. Stan Laurel e Oliver Hardy, e come loro decine di altri attori comici loro contemporanei, avevano la saggezza di nascondere dietro un gesto, dietro un'espressione, l'impietosità di una macchina per fare soldi. Un orrore ben più grande di qualunque orrore uno schermo ci possa mai mostrare, e che Lastrucci caparbiamente rivela negli spazi bianchi fra le righe di un libro.


Quella diabolica Hollywood...

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No, non è solo una vostra impressione: ancora una volta, la terza nel giro di un mese, questo blog apre le porte del suo salotto ad un graditissimo ospite.
Lungi da me far concorrenza al monumentale Nick Parisi, il vicino di blog che ha fatto delle sue interviste un marchio di fabbrica, questa recente tendenza a lasciar carta bianca a scrittori ed editori deriva semplicemente dal fatto che, forse come mai prima d'ora, quest'estate ho infilato una fortunatissima serie di letture strepitose.
Il classico progetto di scrivere una relazione "in pillole" di tutte le mie letture da spiaggia (cosa che tra l'altro era sempre stata mia abitudine fare) mi aveva però un po' annoiato e, quest'anno, così tanto per cambiare, ho preferito lasciar perdere e concentrarmi su poche cose, accuratamente selezionate, in maniera più approfondita.
L'estate è finita da un bel pezzo, osserverà giustamente la maggior parte di voi, ma i tempi biblici sono una caratteristica a cui uno "slow blog" come questo non può rinunciare... e per questo motivo eccomi ancora qua.
L'ospite di oggi, come probabilmente avrete intuito, è Fabio Lastrucci, vecchia conoscenza di Obsidian Mirror (ne avevamo parlato qui), scrittore, illustratore e, me ne accorgo solo oggi, anche scultore. Fabio ci racconterà la genesi di uno dei suoi lavori più complessi, quel "L'estate segreta di Babe Hardy" recensita su questo blog solo pochi giorni fa. Nello specifico con Fabio parleremo di quel parterre di personaggi che ne costituisce l'ossatura e di alcuni di quegli inside jokes disseminati nella storia, come omaggi alla cultura e all'immaginario pop. Buona lettura!

* * *

LtoR: Laurel, Hardy, Lastrucci
T.O.M.: Ciao Fabio e benvenuto su Obsidian Mirror. Mettiti pure comodo e versati da bere. Sei a tuo agio? Bene. Allora, come avrai intuito oggi parleremo di Babe Hardy… ti senti preparato sull’argomento? 

F.L.: Buongiorno Obsidian, ti ringrazio per l’ospitalità sulle tue pagine. Dopo la lunga gestazione del romanzo spero di essere abbastanza rodato, in ogni caso, un cicchetto aiuta… 

T.O.M.: Quando si vestono i panni dell’intervistatore, e si entra nell’ottica di dover porre delle domande mirate su un singolo argomento, bisogna sempre fare i conti con una piccola parte introduttiva. La prima domanda è quindi più che altro una formalità: chi è Fabio Lastrucci? Tieni presente che i miei lettori quasi sicuramente conoscono già la risposta... 

F.L.: Questa stessa domanda me la pongo anch’io da più di cinquant’anni e non so ancora che rispondermi. Ho sempre inseguito sogni artistici e letterari, trovandomi poi a praticarli quando meno me l’aspettavo e attraverso percorsi impensabili. Partendo dalla pittura sono approdato al fumetto, a decenni di scultura per teatro e televisione, poi ancora la ricerca artistica e il fumetto, il tutto legato dal fil rouge della scrittura e del fantastico. Insomma, l’incrocio tra un jolly e un cubo di Rubik disordinato. Volendo essere onesto e realistico, mi definirei un artigiano innamorato dei linguaggi. 

T.O.M.: Leggendo “L’estate segreta di Babe Hardy”, non ho potuto fare a meno di notare l’accurato lavoro di documentazione che ha preceduto (o affiancato) la stesura del testo: avresti per esempio potuto inventarti un nome qualsiasi per la casa di produzione del duo comico Laurel e Hardy, ma hai preferito andare a verificare con i tuoi occhi, identificando così gli Hal Roach Studios… Quanto incide la preparazione in un’opera come questa? 

F.L.: Alle prese con un romanzo storico, la verosimiglianza è tutto, richiedendo quindi un certosino impegno di ricerca per consolidare il telaio della storia in fase di scaletta e di stesura. Ho dovuto quindi leggere monografie del duo Laurel e Hardy, più qualunque cosa riguardasse gli anni ’30 per immergermi nel clima giusto, e la pignoleria dei riferimenti si è estesa a dettagli come la frequenza delle radio pattuglie di Los Angeles dell’epoca, scovata su un sito americano di maniaci della radio, oppure giorno e orario di programmazione di “The Shadow”, una popolare fiction radiofonica ascoltata da un personaggio minore. Allo stesso tempo, studiare l’argomento tra libri e web mi ha fatto imbattere in spunti che hanno fatto nascere scene o dinamiche che non avevo previsto in principio, come per esempio la figura del padre di Stan Laurel, un personaggio sorprendente che mi ha sedotto reclamando spazio nella storia principale. Anche “visitare” virtualmente gli spazi tramite lo Street View di Google, mi ha fatto scoprire luoghi interessanti come l’area in cui ho collocato il cimitero mormone, oppure la zona residenziale di Pacific Palizades, che al principio avevo scelto per il suono del nome e che si è rivelata uno scenario delizioso per la parte finale del libro. 

T.O.M.: Un lavoro dannatamente certosino, non c'è che dire. Molto più facile, mi verrebbe da dire, ambientare le storie nella propria città e nel proprio tempo. Se mi fermo a rifletterci, mi domando quanto valga la pena uno sforzo del genere. In fondo mostri sacri come Stephen King o Lovecraft ambientavano le loro storie rispettivamente nei familiari territori del Maine e del New England. Perché quindi scegliere la strada più in salita? 

F.L.: In casi come questo, non potevo fare altrimenti. L’idea portante era nata in funzione dei suoi protagonisti, che, essendo due grandi comici d’oltreoceano, mi hanno fatto lanciare nella prima stesura breve del progetto. Com’è immaginabile, ho subito abbandonato tutto per viltà e tenuto per anni in un cassetto il canovaccio e gli appunti. Il padre putativo del romanzo è poi stato Vincent Spasaro, carissimo amico e grande scrittore, che mi ha costretto a rimboccarmi le maniche per affrontare un’operazione più grande di me. Contro ogni mia aspettativa, ce l’ho fatta, grazie anche alla fiducia e l’eccellente editing della Dunwich di Roma. Ora il pungolo è passato all’editore Mauro Saracino, che gradirebbe vedere un sequel del libro e di cui, in effetti, ho già in mente da tempo uno spunto divertente. Per ora accumulo informazioni, poi la scintilla scatterà, anarchica e imprevedibile come sempre. Intanto mi son fatto furbo e navigo per lo più su acque conosciute, come la Napoli di un ciclo di storie giallo/paranormal con un Guappo come protagonista… peccato che l’anno sia il 1747… 

T.O.M.: Negli ultimi anni parecchi autori hanno scelto di vestire personaggi storici delle vesti di protagonisti delle loro storie. Tra i tanti mi vengono in mente Dante Alighieri e Leonardo Da Vinci investigatori e Abramo Lincoln cacciatore di vampiri… Ne esisteranno sicuramente molti altri. Perché, secondo te, questo tipo di narrativa continua ad essere così largamente apprezzata? 

F.L.: A quanto mi è parso di capire, il pubblico di una storia va prima di tutto alla ricerca di personaggi carismatici, ricchi e capaci di creare empatia,come esempio citerei IT di King, che più degli altri suoi libri è sostenuto dalla tridimensionalità dei protagonisti. Partendo da questo assunto, ipotizzo che utilizzare una figura già nota, arricchita da un proprio aspetto ignoto o addirittura discordante, può avvantaggiare lo scrittore creando un interesse immediato più di eroi fittizi, spesso ricalcati comunque da personaggi reali. Il mercato dell’intrattenimento tende a utilizzare questo espediente come garanzia di successo commerciale, ma personalmente sono affascinato dall’ingegnosità che può animare operazioni simili, come le brillanti riscritture di Philip Josè Farmer e i suoi miti letterari rivisitati. 

T.O.M.: Quando pensiamo a Stan Laurel e a Oliver Hardy, ciò che ci si presenta davanti è l’immagine di due amici che se la spassavano moltissimo, tra belle macchine, donne mozzafiato e una montagna assurda di denaro. In realtà sappiamo bene che, nel loro privato, la situazione era diametralmente opposta. Laurel aveva perso un figlio alla nascita, aveva infilato una serie impressionante di matrimoni infelici e doveva fare i conti con un’accusa di bigamia; Hardy dal canto suo mise in sequenza prima un infarto, poi un ictus e infine un cancro che se lo portò via prematuramente. Senza dimenticare quella vecchia faccenda della massoneria. Quanto ha influito questo aspetto sulla tua scelta di utilizzare la celebre coppia comica come protagonista di un… horror? 

F.L.: Ottima domanda. Al momento in cui è germinato il binomio Hardy/vampirismo, la mia visione del duo era quella stereotipata derivata dalla loro immagine comica, immagine del tutto inconsapevole della loro dimensione reale. Setacciando le loro vite, ho poi scoperto in Stan Laurel e Oliver “Babe” Hardy delle persone straordinarie, sfaccettate e umanissime, alle quali mi sono perdutamente affezionato. L’intimità della frequentazione mi ha dato delle linee guida dei loro singoli comportamenti, delle reazioni e dell’impatto del problema sulle (incasinatissime) vite personali. In effetti, a un certo punto della scaletta, i personaggi hanno preso il comando, indirizzandomi verso il punto di incontro più probabile tra la propria storia e la mia. A questo si è aggiunto l’ausilio di qualche figura di pura fantasia, come il grottesco ladruncolo Lefty Miracle o altri ancora, per far quadrare il tutto. 

T.O.M.: Bela Lugosi, Tod Browning, W.C. Fields, Mary Pickford, Douglas Fairbanks Sr... mi chiedo,perché proprio loro e non altri? E poi c'è il tenente di polizia Nunnally Johnson che in questo caso è solo un omonimo del celebre regista de “L'uomo dal vestito grigio”… 

F.L.: Come dicevamo, i personaggi hanno sempre una valenza simbolica e nel caso di figure reali, bisogna fare i conti con la loro percezione da parte del pubblico e ciò che può evocare. Ovviamente, parlando di vampiri al cinema, non potevo trascurare Bela Lugosi, anche lui riletto sulla scorta di informazioni reali, Mary Pickford, in quanto ex “fidanzata d’America” era il giusto ossimoro vivente da utilizzare per dare il via al contagio, fungendo inoltre da ponte indispensabile con Fairbanks Sr, il mentore del duo interprete di un tipo di cinema avventuroso e spaccone. W. C. Fields, comico dimenticato dai contemporanei, è anche il volto di Larsen, l’avvocato losco del mago Wiz, il che mi ha consentito il lusso di una doppia citazione. Johnson Nunnally, invece, è solo un gioco di rimandi che inverte nome e cognome del celebre regista e sceneggiatore, così come il mago A. Lester Crapley, gioca con l’esoterista Aleister Crowley riducendolo al rango di cartomante imbroglione. Ma abbondano anche molti altri richiami criptati che rimandano al cinema, al fumetto, al mistery, come i poliziotti Charlie Schmidt e Chester Gould (nella realtà disegnatori delle strip “Radio Patrol” e “Dick Tracy”) o i nomi dei colleghi del 56° distretto, legati tutti al genere Giallo, da Kaminsky a Jack Monk. Ulteriore piccola curiosità, a lavoro inoltrato, ho scoperto con mia grande sorpresa che Fairbanks avesse una vera passione per l’occulto e le tavolette Ouija… che sia tutto vero? 

Morbidi Approdi
T.O.M.: E poi c’è quell’accenno a “Weird Tales”… 

F.L.: Dato l’argomento del romanzo, non poteva non aleggiare la presenza della celebre rivista dell’orrore, al tempo stesso, la cultura pulp si affaccia di continuo tra le pagine, dagli sceneggiati radiofonici a riviste hard boiled come “Black Mask”, che appare in mano a un personaggio equivoco. Infine, in compagnia del famigerato senatore McCarthy, nel finale troviamo anche un ubriachissimo Dashiell Hammett, ospite di Samantha Stephens (da “Vita da strega”), insomma, nel calderone dell’immaginario ogni dettaglio è un link verso qualcosa d’altro. 

T.O.M.: Passiamo oltre, ti va? Dopo “Babe Hardy”, che ormai mi pare abbia già diversi annetti di vita alle spalle, qual è stato il percorso letterario di Fabio Lastrucci sino ad oggi? A parte l’antologia “Da Zero a infinito” di cui abbiamo già parlato prima dell’estate… 

F.L.: Negli ultimi due anni ho lavorato a un corposo saggio sulla lettura horror e gotica con Vincenzo Barone Lumaga, “Com’era weird la mia valle”, che uscirà nei prossimi mesi con la Milena edizioni. Nel contempo ho anche finito di scrivere e illustrare il sequel del mio fantasy per ragazzi “Il ritorno dell’Arcivento”, di prossima pubblicazione col titolo “La febbre di Cariath” e poi ci sarà il consueto appuntamento con l’antologia ALIA, alla quale collaboro da diversi anni, con un racconto che reinterpreta un classico di Poe ambientato nelle comunità albanesi del Pollino. Infine prevedo la partecipazione a un'altra antologia horror tutta italiana dedicata ai vampiri, un progetto ricco di presenze eccellenti che spero si faccia onore come merita. Il cassetto è ancora fitto di progetti, saranno le circostanze o l’alchimia dell’umore a decidere quale sarà il prossimo ad andare in cantiere, se il terzo fantasy provvisoriamente intitolato “La fortuna dei nani”, o un racconto lungo di sf dalla gestazione tribolata. 

T.O.M.: Ora che la mia curiosità è stata ampiamente soddisfatta, caro Fabio, non mi resta che ringraziarti per aver accettato di farmi visita sul blog. Come faccio abitualmente in queste occasioni, lascio a te un po’ di spazio dove puoi parlare a ruota libera di tutto quello che vuoi, dei tuoi progetti presenti e futuri, o di qualsiasi altra cosa. Un angolino dove puoi farti un po’ di pubblicità, anche in maniera spudorata. 

F.L.: Ti sono grato per lo spazio che mi hai dedicato e per l’acutezza delle tue domande, sempre calzanti e mai scontate. Approfittando di quest’ultima vetrina, vorrei allora segnalare un paio di link in cui chi ne sia incuriosito può seguire Morbidi Approdi, l’attività artistica che perseguo con mio fratello Paolo e anche la bella rivista di fumetti on line del gruppo Mokapop, con cui collaboro, ossia il bimestrale Ronin. Infine invito a tenere d’occhio la rivista americana Perihelion SF sul cui numero di ottobre dovrebbe uscire il mio primo fumetto in inglese “The Pawniac Delight”. Detto questo, saluto te e i lettori di Obsidian Mirror, sperando di essere stato prolisso nei limiti del tollerabile. Ora posso tacere per una settimana.


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