“The Ring” (Ringu, リング) non è stato solo uno dei tanti franchise di successo, quello che ha portato nelle sale cinematografiche una decina di pellicole tra sequel, prequel, remake e reboot, ma ha innescato un fenomeno virale che è proseguito per molti anni e che, sebbene ridimensionato dal tempo, continua ancora oggi in tutto il mondo. Ma quale singolare meccanismo si nasconde dietro lo scatenarsi di un fenomeno virale come può essere quello di una nuova moda cine-horror? La qualità oggettiva di un prodotto, il semplice intervento del caso oppure una combinazione delle due cose? Magari è necessario anche un pizzico di fortuna e il sapersi far venire l'intuizione giusta al momento giusto. Probabilmente la risposta è un giusto mix di tutte queste cose, ma anche la sagacia e la lungimiranza di coloro che, in un modo o nell’altro, hanno contribuito alla nascita e alla crescita di tale fenomeno. Questo risultato, è bene sottolinearlo, non è limitato al solo franchise di Ring, per quanto questo possa essere di vasta portata, bensì è da estendersi a tutto il filone J-horror che, proprio iniziando da Ring, si è rapidamente allargato a macchia d’olio invadendo in maniera sistematica, per un intero decennio, tutto l’Occidente. Senza nulla togliere agli altri, sono due in particolare i nomi a cui il mondo deve riconoscere la genesi di Sadako e di tutti i personaggi che in seguito saranno in qualche modo ricollegabili alla protagonista di Ring: Kōji Suzuki (鈴木 光司) e Hideo Nakata (中田 秀夫).
Il primo nasce a 13 maggio 1957 a Hamamatsu, nella prefettura di Shizuoka, situata nella regione di Chūbu, un centinaio di chilometri ad est di Osaka, il secondo nasce il 19 luglio 1961 ad Okayama, capitale dell’omonima prefettura, situata nella regione del Chūgoku (San'yō), un centinaio di chilometri ad ovest di Osaka… No, no, non vi preoccupate… stavo solo scherzando. Queste sono informazioni che chiunque può andarsi a leggere su Wikipedia.
Quello di cui parleremo qui è l’incredibile risultato che i due (il primo scrittore, il secondo regista cinematografico) sono riusciti a ottenere narrando una storia che di per sé potrebbe sembrare banale (almeno per i giapponesi, che la conoscono da qualche secolo), ma che è stata in grado, forse davvero per la prima volta nella storia, di avvicinare due culture così agli antipodi come quella giapponese e la nostra. Quale è stato il punto di contatto? Ma naturalmente la paura! Non c'è infatti luogo al mondo ove tale sentimento non condizioni la vita delle persone, anche se le sue incarnazioni possono essere molto diverse fra loro. Il meccanismo attorno al quale ruota tutto questo è in realtà piuttosto semplice: nel suo romanzo, dato alle stampe nell’ormai lontano 1991, Kōji Suzuki ha sapientemente miscelato una storia di fantasmi tipicamente locale, giacché ispirata a una classica figura della tradizione nipponica, con quel substrato di perturbante che tutti noi sperimentiamo nell’uso della tecnologia, in generale, e del mezzo televisivo in particolare.
La trama del romanzo è piuttosto nota e, per forza di cose, ne parleremo in lungo e in largo per tutto il mese. Lasciatemi solo dire che, per sommi capi, si tratta della storia di uno spettro vendicativo il cui rancore, superando i limiti fisici di spazio e tempo, riesce a materializzarsi in un video e a scatenarsi sul malcapitato quanto innocente spettatore. Questa storia per la verità è piuttosto diversa da quella di cui Hideo Nakata decreterà il successo sette anni più tardi con il suo omonimo film: nel romanzo alcuni elementi chiave (quelli più virali, per essere chiari) sono completamente assenti mentre altri, pur presenti, furono in diversa misura reinterpreti dal regista al fine di adattarli meglio al mezzo cinematografico. È proprio su uno di questi che ci soffermeremo nell’articolo odierno, quell’elemento che ha permesso al Ring cinematografico originale (リング Ringu, 1998) di trasformarsi in un fenomeno seminale: tale elemento non è altro che Sadako nell’atto di attraversare lo schermo per ghermire le sue vittime.
Al termine di un decennio che aveva ridotto il cinema horror alla canna del gas per la cronica mancanza di idee e originalità, non poteva che essere un violento colpo di coda a risollevare le sorti di un genere ormai mortificato. Quel colpo di coda fu l’introduzione di poche, nuove regole che andavano principalmente a riprogettare le luci, i colori e, soprattutto, il sonoro. Spazzati via in un sol colpo tutti gli slasher, che ormai erano tutto ciò che sopravviveva della vecchia generazione, la nuova ondata proveniente dal Giappone si gettava a capofitto nel soprannaturale delle origini, la cui caratterizzazione era per noi occidentali completamente sconosciuta: i nuovi fantasmi in arrivo, per lo più femminili, dall’aspetto pallido ed emaciato, con lunghi capelli corvini a mascherarne il volto e un procedere rallentato con accelerazioni improvvise, non si erano mai visti prima. Un'altra intuizione vincente fu quella di riservare ai momenti di maggiore tensione una colonna sonora davvero atipica: suoni diegetici, gutturali e cacofonici emessi dai fantasmi terrorizzavano tanto le loro vittime che gli spettatori del film (i risultati migliori, a mio parere, li avrebbe ottenuti la serie di Ju-On, ma lo stridio che fa da preludio all'arrivo di Sadako, un’esasperazione del suono del televisore non sintonizzato su alcun canale, non è certo da sottovalutare in termini di impatto). Questi suoni sarebbero diventati, da lì a poco, il vero marchio di fabbrica del J-horror.
Un diverso livello di tensione andava a sostituirsi a quello esistente e aveva il grande pregio di riuscire a mantenersi inalterato per tutta la durata della pellicola, senza concedere allo spettatore un attimo di tregua e lasciandolo nella consapevolezza che a questa nemesi non sarebbe stato possibile sfuggire. E a tutto ciò si aggiungeva Sadako nello sconvolgente atto di attraversare lo schermo del televisore.
Nel trasportare il romanzo di Suzuki sul grande schermo, Hideo Nakata ha fatto buon uso dell’insegnamento dei grandi classici horror occidentali che proprio nel decennio precedente, guarda caso, avevano già sperimentato il dualismo fra l’orrore e il mezzo televisivo. Di quei film Hideo Nakata utilizzò una delle scene a mio parere più perturbanti mai viste al cinema, quella appunto della creatura che fuoriesce dallo schermo. Scena che, come ho già detto, non era stata pensata nel romanzo. Rammentate qualcuno di quei vecchi film? Proviamo a stilare assieme una piccola lista, ma senza entrare troppo nel dettaglio come facemmo lo scorso anno con il duplice articolo su “I corridoi della paura”.
Il primo in ordine di tempo mi pare sia stato Poltergeist – Demoniache presenze, uno dei capisaldi del cinema horror testosteron-reaganiano, girato nel 1982 da Tobe Hooper con la supervisione di Steven Spielberg (ne abbiamo già parlato ampiamente qualche anno fa, ricordate?). Il televisore in Poltergeist è un tramite fra la dimensione terrena e quella popolata dagli spiriti, che sembrano non aver altro scopo se non quello di terrorizzare una stereotipata famiglia americana. Vi è un doppio attraversamento in Poltergeist: le creature superano lo schermo, catturano la piccola Carol Ann e la trascinano con sé nel loro mondo. A proposito di video maledetto, Poltergeist è passato alla storia anche perché, come ricorderete, la giovane attrice Heather O’Rourke, che nel film impersonava appunto Carol Anne, perse la vita, così come la persero diversi altri partecipanti a quella produzione. Credo che Poltergeist sia stato il primo in questo genere, ma se anche dovessi sbagliarmi su questo punto, credo di aver ragione se dico che è stato almeno il più importante: dopo la visione di Poltergeist, di certo nessuno ha più potuto guardare serenamente un televisore dopo il termine dei programmi della notte.
Anche in Videodrome, il capolavoro che David Cronenberg diresse l’anno successivo, è presente una scena che ricalca perfettamente quella di cui stiamo parlando. Il film credo lo ricordiate più o meno tutti, no? Il televisore viene qui usato per causare tumori al cervello e conseguenti allucinazioni ai soggetti considerati pericolosi dalle autorità governative. Non ci sono fantasmi in senso stretto, ma c’è chiaramente la mutazione della carne, ovvero la fusione dell’essere umano con la tecnologia rappresentata dallo schermo televisivo.
Nel secondo capitolo della serie demoniaca del nostro Lamberto Bava (Dèmoni 2... L'incubo ritorna, 1986), il televisore rappresenta nuovamente il passaggio tra una dimensione infernale e il mondo reale. Se nel primo capitolo il passaggio era reso possibile dallo schermo di una sala cinematografica, in Demoni 2 è attraverso lo schermo di un televisore che le orde di 'zombi' trovano il loro varco. Ancora una volta nessun fantasma, ma una nemesi forse ancora più terrificante, resa ancora più angosciante dalla completa assenza di vie d’uscita per i malcapitati che si trovano a doverla fronteggiare.
Non poteva naturalmente mancare, in questa breve lista, uno dei più spaventosi serial killer cinematografici di tutti i tempi: Freddy Kruger. Sì, proprio lui, il villain che per anni è stato in grado di monopolizzare gli incubi di migliaia di adolescenti in tutto il mondo, quel Freddy Kruger in grado di attraversare a suo piacimento i confini tra le due dimensioni del sogno e della realtà. Poteva forse Freddy, nell’arco di ben nove film, non sfruttare in almeno uno di questi il mezzo televisivo per irrompere nella nostra realtà? Lo ha fatto nel terzo capitolo della serie, Nightmare 3, i guerrieri del sogno (1987), forse uno dei più riusciti dell’intero franchise, nel quale non solo è riuscito a incarnarsi nell’apparecchio televisivo, ma anche a trascinare (di nuovo un passaggio inverso) la malcapitata ragazzina, letteralmente, sin dentro l’elettrodomestico.
Sullo stretto rapporto fra orrore e mezzo televisivo esisteranno di sicuro decine di altri film, ma credo proprio di aver citato i principali: del resto questo mio breve excursus, come detto, voleva limitarsi a identificare dei precedenti il più possibile simili a quella geniale scena di Ring che, a quasi vent’anni di distanza, ne è ancora indiscutibilmente il manifesto.
Senza Hideo Nakata, tutto ciò che è accaduto negli anni successivi all’uscita del suo film (incluso questo speciale) non avrebbe avuto modo di esistere. E, senza Hideo Nakata, lo stesso romanzo di Kōji Suzuki sarebbe finito ben presto nel dimenticatoio. La prova? La prova è che, sebbene io stesso prima abbia definito la pellicola del 1998 come quella “originale”, l’opera di Nakata non è stata affatto la prima della serie. Ci aveva già pensato tre anni prima un certo Chisui Takigawa a trasformare il romanzo di Suzuki in immagini, ma di quel film per la tivù, passato quasi inosservato su un'emittente privata giapponese la sera del 11 agosto 1995, oggi non si ricorda quasi più nessuno: ed è un peccato, perché Ring: Kanzenban (リング 完全版), come vedremo, aveva diversi pregi.
Il primo nasce a 13 maggio 1957 a Hamamatsu, nella prefettura di Shizuoka, situata nella regione di Chūbu, un centinaio di chilometri ad est di Osaka, il secondo nasce il 19 luglio 1961 ad Okayama, capitale dell’omonima prefettura, situata nella regione del Chūgoku (San'yō), un centinaio di chilometri ad ovest di Osaka… No, no, non vi preoccupate… stavo solo scherzando. Queste sono informazioni che chiunque può andarsi a leggere su Wikipedia.
Quello di cui parleremo qui è l’incredibile risultato che i due (il primo scrittore, il secondo regista cinematografico) sono riusciti a ottenere narrando una storia che di per sé potrebbe sembrare banale (almeno per i giapponesi, che la conoscono da qualche secolo), ma che è stata in grado, forse davvero per la prima volta nella storia, di avvicinare due culture così agli antipodi come quella giapponese e la nostra. Quale è stato il punto di contatto? Ma naturalmente la paura! Non c'è infatti luogo al mondo ove tale sentimento non condizioni la vita delle persone, anche se le sue incarnazioni possono essere molto diverse fra loro. Il meccanismo attorno al quale ruota tutto questo è in realtà piuttosto semplice: nel suo romanzo, dato alle stampe nell’ormai lontano 1991, Kōji Suzuki ha sapientemente miscelato una storia di fantasmi tipicamente locale, giacché ispirata a una classica figura della tradizione nipponica, con quel substrato di perturbante che tutti noi sperimentiamo nell’uso della tecnologia, in generale, e del mezzo televisivo in particolare.
La trama del romanzo è piuttosto nota e, per forza di cose, ne parleremo in lungo e in largo per tutto il mese. Lasciatemi solo dire che, per sommi capi, si tratta della storia di uno spettro vendicativo il cui rancore, superando i limiti fisici di spazio e tempo, riesce a materializzarsi in un video e a scatenarsi sul malcapitato quanto innocente spettatore. Questa storia per la verità è piuttosto diversa da quella di cui Hideo Nakata decreterà il successo sette anni più tardi con il suo omonimo film: nel romanzo alcuni elementi chiave (quelli più virali, per essere chiari) sono completamente assenti mentre altri, pur presenti, furono in diversa misura reinterpreti dal regista al fine di adattarli meglio al mezzo cinematografico. È proprio su uno di questi che ci soffermeremo nell’articolo odierno, quell’elemento che ha permesso al Ring cinematografico originale (リング Ringu, 1998) di trasformarsi in un fenomeno seminale: tale elemento non è altro che Sadako nell’atto di attraversare lo schermo per ghermire le sue vittime.
Al termine di un decennio che aveva ridotto il cinema horror alla canna del gas per la cronica mancanza di idee e originalità, non poteva che essere un violento colpo di coda a risollevare le sorti di un genere ormai mortificato. Quel colpo di coda fu l’introduzione di poche, nuove regole che andavano principalmente a riprogettare le luci, i colori e, soprattutto, il sonoro. Spazzati via in un sol colpo tutti gli slasher, che ormai erano tutto ciò che sopravviveva della vecchia generazione, la nuova ondata proveniente dal Giappone si gettava a capofitto nel soprannaturale delle origini, la cui caratterizzazione era per noi occidentali completamente sconosciuta: i nuovi fantasmi in arrivo, per lo più femminili, dall’aspetto pallido ed emaciato, con lunghi capelli corvini a mascherarne il volto e un procedere rallentato con accelerazioni improvvise, non si erano mai visti prima. Un'altra intuizione vincente fu quella di riservare ai momenti di maggiore tensione una colonna sonora davvero atipica: suoni diegetici, gutturali e cacofonici emessi dai fantasmi terrorizzavano tanto le loro vittime che gli spettatori del film (i risultati migliori, a mio parere, li avrebbe ottenuti la serie di Ju-On, ma lo stridio che fa da preludio all'arrivo di Sadako, un’esasperazione del suono del televisore non sintonizzato su alcun canale, non è certo da sottovalutare in termini di impatto). Questi suoni sarebbero diventati, da lì a poco, il vero marchio di fabbrica del J-horror.
Un diverso livello di tensione andava a sostituirsi a quello esistente e aveva il grande pregio di riuscire a mantenersi inalterato per tutta la durata della pellicola, senza concedere allo spettatore un attimo di tregua e lasciandolo nella consapevolezza che a questa nemesi non sarebbe stato possibile sfuggire. E a tutto ciò si aggiungeva Sadako nello sconvolgente atto di attraversare lo schermo del televisore.
Nel trasportare il romanzo di Suzuki sul grande schermo, Hideo Nakata ha fatto buon uso dell’insegnamento dei grandi classici horror occidentali che proprio nel decennio precedente, guarda caso, avevano già sperimentato il dualismo fra l’orrore e il mezzo televisivo. Di quei film Hideo Nakata utilizzò una delle scene a mio parere più perturbanti mai viste al cinema, quella appunto della creatura che fuoriesce dallo schermo. Scena che, come ho già detto, non era stata pensata nel romanzo. Rammentate qualcuno di quei vecchi film? Proviamo a stilare assieme una piccola lista, ma senza entrare troppo nel dettaglio come facemmo lo scorso anno con il duplice articolo su “I corridoi della paura”.
Il primo in ordine di tempo mi pare sia stato Poltergeist – Demoniache presenze, uno dei capisaldi del cinema horror testosteron-reaganiano, girato nel 1982 da Tobe Hooper con la supervisione di Steven Spielberg (ne abbiamo già parlato ampiamente qualche anno fa, ricordate?). Il televisore in Poltergeist è un tramite fra la dimensione terrena e quella popolata dagli spiriti, che sembrano non aver altro scopo se non quello di terrorizzare una stereotipata famiglia americana. Vi è un doppio attraversamento in Poltergeist: le creature superano lo schermo, catturano la piccola Carol Ann e la trascinano con sé nel loro mondo. A proposito di video maledetto, Poltergeist è passato alla storia anche perché, come ricorderete, la giovane attrice Heather O’Rourke, che nel film impersonava appunto Carol Anne, perse la vita, così come la persero diversi altri partecipanti a quella produzione. Credo che Poltergeist sia stato il primo in questo genere, ma se anche dovessi sbagliarmi su questo punto, credo di aver ragione se dico che è stato almeno il più importante: dopo la visione di Poltergeist, di certo nessuno ha più potuto guardare serenamente un televisore dopo il termine dei programmi della notte.
Anche in Videodrome, il capolavoro che David Cronenberg diresse l’anno successivo, è presente una scena che ricalca perfettamente quella di cui stiamo parlando. Il film credo lo ricordiate più o meno tutti, no? Il televisore viene qui usato per causare tumori al cervello e conseguenti allucinazioni ai soggetti considerati pericolosi dalle autorità governative. Non ci sono fantasmi in senso stretto, ma c’è chiaramente la mutazione della carne, ovvero la fusione dell’essere umano con la tecnologia rappresentata dallo schermo televisivo.
Nel secondo capitolo della serie demoniaca del nostro Lamberto Bava (Dèmoni 2... L'incubo ritorna, 1986), il televisore rappresenta nuovamente il passaggio tra una dimensione infernale e il mondo reale. Se nel primo capitolo il passaggio era reso possibile dallo schermo di una sala cinematografica, in Demoni 2 è attraverso lo schermo di un televisore che le orde di 'zombi' trovano il loro varco. Ancora una volta nessun fantasma, ma una nemesi forse ancora più terrificante, resa ancora più angosciante dalla completa assenza di vie d’uscita per i malcapitati che si trovano a doverla fronteggiare.
Non poteva naturalmente mancare, in questa breve lista, uno dei più spaventosi serial killer cinematografici di tutti i tempi: Freddy Kruger. Sì, proprio lui, il villain che per anni è stato in grado di monopolizzare gli incubi di migliaia di adolescenti in tutto il mondo, quel Freddy Kruger in grado di attraversare a suo piacimento i confini tra le due dimensioni del sogno e della realtà. Poteva forse Freddy, nell’arco di ben nove film, non sfruttare in almeno uno di questi il mezzo televisivo per irrompere nella nostra realtà? Lo ha fatto nel terzo capitolo della serie, Nightmare 3, i guerrieri del sogno (1987), forse uno dei più riusciti dell’intero franchise, nel quale non solo è riuscito a incarnarsi nell’apparecchio televisivo, ma anche a trascinare (di nuovo un passaggio inverso) la malcapitata ragazzina, letteralmente, sin dentro l’elettrodomestico.
Sullo stretto rapporto fra orrore e mezzo televisivo esisteranno di sicuro decine di altri film, ma credo proprio di aver citato i principali: del resto questo mio breve excursus, come detto, voleva limitarsi a identificare dei precedenti il più possibile simili a quella geniale scena di Ring che, a quasi vent’anni di distanza, ne è ancora indiscutibilmente il manifesto.
Senza Hideo Nakata, tutto ciò che è accaduto negli anni successivi all’uscita del suo film (incluso questo speciale) non avrebbe avuto modo di esistere. E, senza Hideo Nakata, lo stesso romanzo di Kōji Suzuki sarebbe finito ben presto nel dimenticatoio. La prova? La prova è che, sebbene io stesso prima abbia definito la pellicola del 1998 come quella “originale”, l’opera di Nakata non è stata affatto la prima della serie. Ci aveva già pensato tre anni prima un certo Chisui Takigawa a trasformare il romanzo di Suzuki in immagini, ma di quel film per la tivù, passato quasi inosservato su un'emittente privata giapponese la sera del 11 agosto 1995, oggi non si ricorda quasi più nessuno: ed è un peccato, perché Ring: Kanzenban (リング 完全版), come vedremo, aveva diversi pregi.
Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 5 in un totale di 100.
Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato il primo del mese. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 5° candela...